Il verbo navigare definisce il trasferimento di un natante dal porto di partenza ad un altro di prestabilita destinazione, separati in genere da una distesa di mare più o meno ampia.
Il reperto di Qumran, una meridiana orizzontale utilizzata forse come bussola solare
Analogo discorso per il trasferimento nel deserto, anch’esso privo di riferimenti e di acqua potabile, per cui non caso il dromedario se ne reputò la nave.
Indispensabili per attraversare ambedue quelle ampie ed omogene superfici terrestri una approfondita conoscenza astronomica o uno strumento in grado d’indicare sempre una precisa direzione. Dell’esistenza di qualcosa del genere, significativamente, se ne trova menzione in Plinio: fu forse una antesignana bussola pelasgica, o solare, da lui così menzionata:
unum a Pelusio per harenas, in quo, nisi calami defixi regant, via non reperitur, subinde aura vestigia operiente [N.H. VI, 167]
ovvero:
il primo [itinerario] da Pelusio [città dell’Egitto, sul Delta del Nilo] attraverso le sabbie, in cui la direzione non si ravvisa senza le cannucce infisse, poiché il vento presto cancella ogni orma.
Dette cannucce venivano infisse al centro di una pinax, una sorta di piatto con indicate la quattro direzioni fondamentali, sulla quale proiettavano la loro ombra. Di un probabile strumento del genere l‘archeologia ci ha restituito alcuni esemplari, e fra questi uno in particolare rinvenuto nelle grotte di Qumran, presso il mar Morto.
La sua forma concava, scandita dall’incisione di un alloggiamento centrale per lo gnomone, di cerchi ad esso concentrici e di numerose tacche sul bordo a distanza pressoché regolare fra loro, va ascritta alla necessità di mantenere quella sorta di ciotola perfettamente orizzontale. Condizione questa indispensabile per ricavarne una corretta lettura, conseguita col suo parziale riempimento con del vino rosso. Pertanto quando il liquido scuro lambiva l’intera circonferenza di uno dei cerchi interni lo strumento si confermava in bolla e perciò in grado di fornire i suoi dati.
Da sinistra a destra: Ricostruzione della bussola solare in base al reperto di Qumran, realizzata dall’autore per l’effimero Museo della Bussola di Amalfi – La stessa ricostruzione in foto obliqua – La messa in bolla con del vino rosso
In definitiva una piccola meridiana orizzontale in cui l’ombra proiettata da un piccolo gnomone verticale allorquando diventa la più corta della giornata, nell’emisfero settentrionale indica con assoluta precisione le ore 12 nonché l’esatto nord geografico. Prestazione che con adeguati adattamenti, ottenuti mediante le menzionate tacche, si poteva estendere dall’alba al tramonto trasformando il dispositivo in una bussola vera e propria. Che poi la bussola appena descritta fosse tutt’altro che rudimentale, lo conferma la sua adozione oltre che sulle camionette del Longe Range Desert Group, operanti nel deserto libico durante la Seconda guerra mondiale, soprattutto sui rover che scorrazzando da anni sulla superfice di Marte continuano ad inviarci spettacolari foto panoramiche.
Una camionetta del Long Range Desert Group: sul cruscotto evidenziato il piatto della bussola solare – Un rover in movimento su Marte: a prua il dettaglio della sua bussola solare
La pixidis nautica Ma l’attraversamento di una distesa marina o desertica non può ritenersi una vera navigazione mancandogli la facoltà di dirigersi verso una prestabilita destinazione, come avverrà soltanto dopo la seconda metà del XIII secolo, in conseguenza della comparsa della pixidis nautica basata sull’impiego dell’ago magnetizzato.
Il criterio informatore risale, infatti, agli inizi dello stesso secolo e consisteva in un rudimentale dispositivo nel quale un ago magnetizzato, fatto galleggiare sull’acqua di un vaso, si orientava sempre verso il nord. Ad onta del suo farraginoso utilizzo per la prima volta si riuscì a bordo di una nave a stabilire, con il cielo coperto, la direzione del nord.
Sfruttando l’idea Pierre Pelerin de Maricourt, più notocome Petrus Peregrinus, ingegnere francese all’assedio di Lucera, nel 1268 ne razionalizzò il funzionamento fissando l’ago a un perno che, posto tra due sedi dentro una scatola cilindrica di vetro, poteva liberamente orientarsi. Sul coperchio vi tracciò un intero goniometro, facendone coincidere il centro con l’asse del perno, e con quello di una sovrastante diottra, per agevolare la stima dell’angolo formato dalla direttrice di navigazione con il nord. Esordì così la pixidis nautica il cui impiego pur fornendo indubbio apporto alla marineria, si confermò ancora troppo aleatorio e macchinoso per risultare di agevole consultazione per il nocchiero, con la nave scossa da rollio e beccheggio.
Ricostruzione artistica dell’autore della pixidis nautica, realizzata per l’effimero Museo della Bussola di Amalfi – Vista dall’alto – In foto obliqua
Il perfezionamento più importante e rivoluzionario avvenne, però, di lì a breve nel territorio di Amalfi, miglioria che diede allo strumento, oltre alla sua veste definitiva rimasta da allora sostanzialmente immutata, anche lo stesso nome di bussola.
Erroneamente se ne attribuì l’invenzione a un tal Flavio Gioia personaggio mai esistito ma creato, come da valenti studiosi è stato ormai ampiamente dimostrato, dall’aver scambiato Flavio Biondo, autore di un saggio sulla bussola, col supposto inventore della stessa.
In realtà un Giovanni Gioia, di Ravello o di Positano, sembrerebbe avere avuto un concreto ruolo nella vicenda, perfezionando la pixidis nautica prima del 1300, se non pure prima del 1269. Essendo la sua famiglia ritenuta originaria della Puglia, potrebbe darsi che proprio ad Amalfi abbia migliorato il rozzo strumento di Petrus Peregrinus.
La croce di Amalfi e poi dei Cavalieri Ospitalieri e quindi di Malta
Di certo è fuori di dubbio che proprio nel ducato di Amalfi venne applicato sull’ago magnetico della pixidis un disco di carta con sopra effigiata una rosa dei venti a otto punte, una ogni 45°, non a caso analoga alla croce d’Amalfi e dei suoi Cavalieri Ospitalieri, più tardi di Malta.
Dall’alto verso il basso: La rosa dei venti – Ricostruzione artistica dellautore di una bussola con rosa dei venti (Effimero Museo della Bussola di Amalfi) – Con sospensione a turibolo – Vista dall’alto
A farne fede i nomi dei venti della rosa, tutti di matrice arabo-bizantina, tranne uno il principale: la Tramontana. Spirando verso Amalfi dalla sua frazione settentrionale di Tramonti, da questa trasse il nome e, contraddistinto sulla rosa con un giglio forse in ossequio al sovrano angioino, indicò il Nord.
Presto le punte della rosa si moltiplicarono in modo di renderne sempre più stringente la lettura dell’angolo sotteso. La scatola, a sua volta, divenne un bossolo di legno, da cui il nome, chiuso da un semplice coperchio di vetro munito di una linea di fede, all’interno del quale poteva liberamente ruotare il disco della rosa trascinato dall’ago magnetico. Lo strumento, dopo una iniziale sospensione simile a un turibolo, venne collocato su di un apposito giunto cardanico, per cui mediante un adeguato peso poteva mantenere il quadrante sempre orizzontale, nonostante le incessanti oscillazioni della nave. La bussola assurse da allora a basilare strumento dell’andar per l’alto mare aperto, consentendo inoltre, novità rivoluzionaria la formazione di accurate carte nautiche, premessa della navigazione strumentale.
La navigazione strumentale Le prime carte nautiche comparvero sul finire del XIII, pochi anni dopo il rapido diffondersi della bussola amalfitana che, indubbiamente, le suggerì. Disegnate su pelli ovine debitamente conciate, sovrappongono ad una mappa con meridiani, paralleli e non di rado con una rosa dei venti per il corretto orientamento, una serie di segmenti obliqui che collegano fra loro due distinti e distanti punti della stessa, nella realtà costituiti da altrettante località.
Ogni segmento ha una inclinazione diversa che non va, tuttavia, letta soltanto come risultante della congiungente degli anzidetti punti, ma come precisa indicazione goniometrica a cui attenersi in navigazione per attingere la destinazione, ovviamente avvalendosi della rosa della bussola. In quelle antesignane carte nautiche l’angolo formato dal segmento obliquo prescelto con la direttrice nord-sud, data dall’orientamento dei bordi superiore/inferiore, dalla traccia dei meridiani o dalle indicazioni della rosa, stabiliva l’angolo della rotta da mantenere in navigazione tramite l’indicazione fornita dalla rosa della bussola.
In pratica ravvisato sulla mappa il porto di partenza e quello di destinazione se ne individuava o disegnava sulla stessa la relativa rotta, e ricavatane l’inclinazione con un goniometro si intraprendeva la navigazione. L’avanzamento della nave avveniva tenendone sempre l’asse prua-poppa coincidente col suddetto angolo, ovvero con la rotta ricavata dalla mappa, avvalendosi di una apposita linea di fede incisa sulla calotta trasparente della bussola.
L’angolo cartografico e quello reale compreso tra la direttrice nord dell’ago magnetico e quella di navigazione, indicata dalla rosa, dovevano essere perciò uguali, condizione necessaria ma non ancora sufficiente per la certezza di raggiungere la destinazione prestabilita.
Quanto, infatti, sia pur brevemente accennato in teoria non teneva in alcun conto la deriva, o scarroccio, provocata alla nave dai venti e dalle correnti laterali, che la bussola non poteva registrare. Scarroccio che nella propulsione a vela risultava molto maggiore di quella a remi, che tuttavia non ne era affatto esente. Se ne accertava l’entità utilizzando un solcometro, una lunga fune con nodi posti a distanza regolare e una clessidra, valutando così la velocità della nave dal numero dei nodi riscontrati nel tempo di esaurimento della clessidra.
Con tutte le intuibili e peraltro ineliminabili approssimazioni, si otteneva così la percorrenza della giornata che, riportata sulla rotta, avrebbe dovuto farla intersecare con un particolare parallelo, tracciato sulla carta e agevole da determinare con l’astrolabio. Dall’eventuale scostamento ne scaturivano varie correzioni apportate alla rotta originale, operazioni che costituirono nel loro insieme i prodromi della navigazione strumentale.
Flavio Russo
Carta nautica pisana della seconda metà del XIII secolo – Altra carta nautica della fine del XIII secolo – Dettaglio della rosa dei venti riportata sulla stessa
È in libreria I viaggi nel Medioevo (Odoya, 2020) dello storico tedesco Norbert Ohler.
Fonte principale dell’opera sono i diari di viaggio dei viaggiatori e dei pellegrini.
Pubblichiamo un estratto dell’introduzione al volume, dalla quale scopriamo che, rispetto all’antichità, la velocità dei viaggi era diminuita a dispetto di una eterna voglia di mettersi in cammino per mete vicine o lontanissime.
L’autore esamina l’affascinante rete di vie che ancora oggi in parte sono alla base della nostra circolazione stradale.
Analizza motivazioni, pericoli, equipaggiamenti, mezzi di trasporto, locande e innovazioni, insieme agli animali da sella, da tiro o da soma utilizzati e alle regole di ospitalità che tutti avevano il dovere di rispettare.
Il desiderio di spostarsi in modo più veloce e sicuro deve essere stato particolarmente acuto nell’uomo del Medioevo, anche perché, rispetto all’Antichità, la velocità dei viaggi era diminuita: nel I secolo a.C., Cicerone riceve a Roma quattro lettere dalla Britannia; tre di esse impiegano ventisette giorni, la quarta trentaquattro, benché all’epoca in Gallia non fosse ancora stata terminata la costruzione delle strade romane, né vi fosse un perfetto servizio di corrieri. Milleduecento anni più tardi un espresso da Roma a Canterbury impiegò ventinove giorni, normalmente ci volevano più di sette settimane. Svetonio riferisce che Cesare era spesso più veloce delle voci sul suo arrivo.
L’antica Via della seta
Fino all’era moderna, tali prestazioni rimasero in Europa altrettanto irraggiungibili quanto la qualità delle strade romane. Il Medioevo europeo fu dunque un periodo di decadenza? Per quanto riguarda la circolazione via terra senza dubbio.
I nuovi governatori locali e regionali non disponevano più dell’appoggio finanziario dell’antico grande impero: trascurarono l’indispensabile ordinaria manutenzione delle opere d’arte architettoniche, per non parlare poi della costruzione ex novo di strade, ponti e gallerie. È indicativo che grandi opere architettoniche romane come gli acquedotti fossero chiamati “ponti del diavolo”; si riteneva impossibile che questi fossero opera dell’uomo: doveva essere stato il diavolo ad averli innalzati in una notte. Tuttavia non ci furono solo regressi.
Nel Medioevo, partendo dall’Europa furono colonizzate l’Islanda, la Groenlandia e per un certo periodo addirittura zone del Nordamerica, e furono esplorate la Cina e l’India.
I viaggi per nave di Raimondo Lullo
La seconda data miliare impone un’ulteriore precisazione: l’avanzata dell’Europa oltremare, destinata a cambiare il mondo, fu possibile solo perché erano state costruite navi in grado di affrontare il mare aperto, erano stati perfezionati (o importati da altre culture) gli strumenti nautici, addestrati gli equipaggi, raccolti i capitali; tutto questo fece sì che individui risoluti, in collaborazione con case regnanti o compagnie commerciali disposte ad assumersi i rischi, potessero osare ciò che fino ad allora era stato impensabile.
Spiegare la scoperta dell’America nel 1492 solo con gli spettacolari progressi nella navigazione significherebbe operare un’illecita riduzione della storia. Un tale successo fu possibile solo perché tecnica, diritto, economia e società, quali ambiti complementari, avevano raggiunto un grado di maturazione tale da accelerare il generale processo di sviluppo. Le conquiste – compresi i miglioramenti nel modo di viaggiare – furono favorite dal fatto che il progresso coesisteva con la decadenza, non di rado compensandola.
Da dove traiamo, in genere, le notizie sui viaggi degli uomini? Il Medioevo ci ha lasciato un numero quasi sterminato di fonti, in cui sono menzionati – per lo più incidentalmente – gli aspetti particolari che si riferiscono al viaggio: biografie, cronache, fatture, documenti liturgici, certificati, pratiche, registri doganali, rapporti sulla costruzione di ponti e ospizi, reclami riguardanti albergatori, resoconti dei viaggi, regali. Tali documenti sono di valore inestimabile, ma non bisogna sottovalutarne le insidie celate dietro la lingua, la rappresentatività, come pure le prevenzioni e gli interessi degli autori in possesso di una cultura letteraria.
Per lunghi secoli questi documenti furono scritti nella lingua dei dotti, i quali si servivano di vocaboli latini per designare cose aventi solo una certa analogia con i corrispondenti oggetti antichi, come un esempio può illustrare: reda designa nel latino classico una carrozza di lusso a quattro ruote; nel Medioevo, a nord delle Alpi il termine reda è spesso usato per indicare un carro a un solo asse o una lettiga. Una componente non irrilevante – il fatto di avere quattro ruote – manca quindi del tutto, in cambio è reso qualcos’altro: sia nella lussuosa reda, sia nella lettiga, si viaggiava relativamente comodi. Quanto viene detto di Tolosa nel XII secolo vale anche per Spira nel secolo XIII?
Le fonti narrative sono molto più ricche di valutazioni di quanto non lo siano ad esempio i documenti ufficiali; d’altro canto spesso non è possibile stabilire ciò che è luogo comune, pregiudizio o idealizzazione. A questo si aggiunge il fatto che molti autori trascurano proprio ciò che noi vorremmo sapere. Nella biografia di Bennone di Osnabrück, ad esempio, a proposito delle vicissitudini e delle privazioni che il vescovo dovette sopportare durante un viaggio verso Roma al tempo della lotta per le investiture si dice:
Se volessimo raccontare nei particolari queste e tutte le altre cose che egli fece allora, allungheremmo la nostra esposizione senza alcun profitto
Anche minore è l’interesse di molti autori nei confronti dei realia. I cronisti dell’epoca evidentemente non erano affatto consapevoli di quello che agli occhi dello storico di oggi, a posteriori, può sembrare una rivoluzione: ad esempio l’invenzione della staffa, che permetteva di montare a cavallo più comodamente, o la realizzazione di carri con l’asse anteriore mobile; perlomeno non si riteneva che tali innovazioni meritassero di essere tramandate.
Le fonti scritte sono integrate dalle miniature sui manoscritti medievali, dai sigilli, dalle monete, dalle sculture. Ma anche le fonti figurative destano interrogativi particolari: la nave o il carro trainato da cavalli che l’artista ha voluto riprodurre sono proprio quelli che si usavano ai suoi tempi? O forse gli interessava solo un prototipo, per il quale esisteva una raffigurazione convenzionale? Una nave doveva essere rappresentata solamente in quel certo modo? Come nelle opere letterarie esistono luoghi comuni (ad esempio per descrivere un santo, un essere malvagio, un paesaggio ameno), così ve ne sono anche nelle arti figurative, diversi a seconda dell’epoca, della località o del paese e del committente.
Il numero di manoscritti medievali, di illustrazioni e sigilli non può essere aumentato (se si prescinde dal fatto che ogni tanto in qualche biblioteca o archivio si rinviene un codice, o sotto vari strati di tintura viene alla luce un quadro); in cambio danneggiamenti, incendi, cattiva manutenzione causano spesso perdite irreparabili. Alla diminuzione complessiva del patrimonio scritto si contrappongono le fonti archeologiche, il cui numero e la cui qualità sono pian piano cresciuti in modo straordinario; grazie alle sofisticate tecniche di recupero e ai metodi di interpretazione del materiale, si è giunti a conoscenza di ambiti sui quali le fonti scritte si pronunciano solo di rado, inclusa la realtà quotidiana del viaggio nei millenni passati.
Grazie alle scoperte archeologiche subacquee, oggi siamo bene informati sull’aspetto, le dimensioni, il carico e l’equipaggiamento tecnico delle imbarcazioni antiche e medievali. Anche qui, a dire il vero, l’interpretazione dei reperti crea abbastanza spesso delle difficoltà: la nave di Oseberg, recuperata nel 1903, era una nave di rappresentanza, non progettata per gli usi quotidiani, o è il modello tipico di centinaia di altre navi?
La nave vichinga di Oseberg (Museo delle navi vichinghe di Oslo)
L’interpretazione del reperto è ancora più difficile nel caso di arredi funerari: un carro oppure una nave rappresentano un dono votivo, un giocattolo o la riproduzione naturalistica di un oggetto d’uso comune? Se un giocattolo presenta dettagli degni di nota, allora bisogna chiedersi: è possibile che le innovazioni siano state in un primo tempo sperimentate per gioco? Anche nel Medioevo e nell’Antichità giochi e giocattoli sono stati importanti per l’apprendimento e le invenzioni?
L’alterabilità del materiale complica l’interpretazione del reperto da parte dell’archeologo: molti oggetti importanti per il viaggio erano di materiale facilmente deperibile o addirittura infiammabile. Ponti, case, carri e navi, e a volte anche le fortificazioni stradali, erano fabbricati in legno; vestiti, carte geografiche, scarpe, briglie e finimenti per le cavalcature e le bestie da tiro erano di tessuto o di pelle. Essi si sono logorati con l’uso, sono marciti, bruciati, sono andati distrutti nelle inondazioni o nei naufragi. Alcuni frammenti trovati nelle tombe spesso devono essere completati perché sia possibile interpretarli. Che gli esperti poi si trovino d’accordo o meno in queste operazioni di completamento è un’altra questione.
Norbert Ohler
Norbert Ohler I viaggi nel Medioevo Odoya, 2020 Per ulteriori informazioni: www.odoya.it papetti@odoya.it
Brutale. Maledetto. In una parola, oscuro. Per tanti di noi cos’è il Medioevo se non questo? Ma fu davvero così? Assolutamente no. Fu, spesso, tutt’altro. Una grande epoca di sperimentazioni, sociali e del potere. Di invenzioni (dagli occhiali alle note musicali). E di innovazioni. Tra tutte emergono le idee nuove del mercato e dell’economia, e la banca è il parto meglio riuscito di questo nuovo mondo della ricchezza alla riscossa.
Il cambiavalute e sua moglie, Quentin Massys, 1514 (Museo del Louvre, Parigi)
Essa nasce da una necessità, lampante. Serve a depositare danaro, certo. Ma la rivoluzione che genera è insita nella nuova, incredibile chance che offre: di poter muovere il denaro senza farlo muovere.
Non è un paradosso, ma l’uovo di Colombo, che cambia, in maniera rivoluzionaria, la maniera di intendere il capitale. Il fenomeno di punta della grande trasformazione commerciale che anima l’Europa dal Duecento in avanti, basato su nuove tecniche di conto, di calcolo e di gestione del danaro.
Ritratto di Luca Pacioli, attribuito a Jacopo de’ Barbari, 1495 (museo nazionale di Capodimonte). Fra Luca Pacioli è considerato l’inventore della partita doppia. Nella Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità, mandata alle stampe nel 1494, illustra per la prima volta nei dettagli il metodo contabile
Immaginate infatti d’ora in poi un mondo non più costretto a muovere ingenti quantità di danaro, difficile e pericoloso da trasportare, quasi immobile. Ma un universo mobile, aereo, fatto di leggeri e volatili pezzi di carta, con un percorso che va dalla lettera di cambio alla cambiale e al moderno assegno circolare; costruito su contabilità sempre più complesse, dominate da un’altra innovazione medievale: la partita doppia.
Nel corso di questo turbinoso ed elettrizzante XIII secolo, in Italia le banche crescono e prosperano. Non è forse questa l’epoca delle fortune improvvise e dei “facili guadagni”, come avrebbe detto Dante? Di specialisti se ne trovano in diverse città. Si muovono ancora in maniera embrionale: sono cambiavalute, prestatori, mercanti con un piede più nel commercio che nella finanza.
In Toscana però, prima che altrove, gli operatori tendono a specializzarsi, grazie soprattutto al rapporto privilegiato con la principale potenza finanziaria del tempo, il Papato, che ha assoluto bisogno di gente che sappia raccogliere e far transitare nelle sue casse le decime che la Cristianità è tenuta a versare per la sopravvivenza della Chiesa – e per la sua grandezza! -. Si muovono i Senesi, con la gran tavola dei Bonsignori. Ma meglio faranno, nel corso del Trecento, i grandi banchi fiorentini, come la joint venture dei Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli che avvilupperanno, nei loro tentacoli, oltre il Papato, due tra le maggiori monarchie del tempo, l’inglese e di Napoli.
In una trama di crediti, debiti, franchigie, facilitazioni ed interessi che raggiunse cifre di portata clamorosa, con deficit difficilmente sopportabili per questi stati dall’assetto amministrativo e fiscale ancora fragile.
Mappa della massima penetrazione in Europa della Gran Tavola dei Bonsignori e degli altri maggiori banchieri della Repubblica di Siena nel XIII secolo
Il contesto bancario commerciale italiano non va immaginato come modesto ma assume già allora una scala europea. I capitali si spostano da un luogo all’altro, con una facilità insospettata fino ad allora, laddove ci fosse maggiore bisogno di investimenti, con una cadenza che va dalle coste mediorientali del Mediterraneo alle città fiamminghe, all’Inghilterra della lana o alle città anseatiche, come Lubecca o Amburgo. Ma gli agganci non si limitano all’Europa. Si spingono fino al mondo musulmano e guardano, con vigore, alle ricchezze cinesi, lungo le vie della Seta fino al Catai.
Una dimensione diremmo oggi globale. Non si tratta di un azzardo interpretativo. Ne erano consapevoli gli stessi protagonisti di questo boom. Gente come il genovese Benedetto Zaccaria. Oppure i fratelli Vivaldi, che tentarono il “folle volo” cercando di raggiungere inutilmente l’Oriente attraverso la rotta occidentale che sarà poi di Colombo. O i Polo. O uomini come Francesco Pegolotti che nella overture della sua “Pratica di mercatura” traccia come primo e principale itinerario commerciale da seguire quello verso la Cina, fino a Pechino. Uno spirito nuovo anima questo tempo. I protagonisti si sentono eroici. Invincibili. Consapevoli che nessun ostacolo si contrapponesse tra loro e il successo.
Quella crisi, che si scatena nel Trecento, oggi gli storici la chiamano in tanti nomi, anche roboanti, come stagflazione. Ma manteniamoci bassi: quello che accadde fu che la macchina finanziario-commerciale si bloccò.
Il successo: un sogno in cui cadono in tantissimi, donne e uomini. Che però non avevano calcolato una cosa: che, con la banca, si genera anche il suo opposto, cioè’ la crisi della banca. Nessuno avrebbe infatti immaginato che questa macchina meravigliosa prima o poi si sarebbe inceppata. Che c’erano dei meccanismi che la gente dell’epoca pensava di governare ed invece erano ingovernabili.
La sede del Banco di San Giorgio a Genova, fondata nel 1407 come Officium comperarum et bancorum Sancti Georgii
Il motore si ingolfò, ingrippandosi, senza dare cenni di movimento. Questo sul lungo periodo. Nell’immediato, invece, il troppo credito garantito alle monarchie inglese e napoletana si rivelò un disastro, perché i due sovrani non avevano danaro da restituire, impegnato com’era in guerre (per esempio nella fase iniziale della guerra dei Cent’anni) o in mala gestione politica e finanziaria.
Si parla di una cifra incredibile, che superava un milione di fiorini. Conseguenza? Il fallimento della joint venture Bardi-Peruzzi-Acciauoli, incapace di far fronte al passivo di cassa e all’assalto degli sportelli da parte dei correntisti a dir poco imbufaliti. Fatto che si trascinò dietro di sé, con un indescrivibile effetto domino, tante altre banche medie, piccole, minori con un’onda che colpì una massa composita, che andava dal papa all’ultimo negoziante, con uno shock da cui ci si riprese a fatica.
Solo con una nuova rivoluzione finanziaria che comincia alla fine del Trecento ed ha magnifici artefici, come Francesco di Marco Datini, i Medici o Adamo Centurione, uno dei padri del Banco di San Giorgio.
La scrittura, dalla riforma di Carlomagno ai giorni nostri: un viaggio nel percorso fondante della civiltà europea in compagnia del grande paleografo Attilio Bartoli Langeli.
Scrittura Carolina
Lettere chiare e distinte Il nostro modo di scrivere – di tracciare a mano le parole – ha una data di nascita abbastanza precisa: una trentina d’anni prima dell’800 dopo Cristo.
Siamo davanti a un’iniziativa di Carlomagno, attuata per mano dei suoi intellettuali, primo dei quali Alcuino di York. Costoro – non il gran re: leggere e scrivere non facevano per lui – s’inventarono un alfabeto latino confacente al programma carolingio di unificazione della cultura europea. Così: a b c d eccetera, quasi esattamente nelle forme che io sto vedendo realizzate dal mio computer e che tu, lettore, stai percorrendo con gli occhi. Quell’alfabeto fu l’alfabeto minuscolo di base di tutte le scritture, molte e diverse, che se ne svilupparono nel corso del tempo; ed è tuttora l’alfabeto minuscolo del carattere tipografico romano tondo. Sola differenza importante la s, che aveva la forma diritta ſ e alla quale si preferì, molto tempo dopo, la forma rotonda S, ovviamente per evitare confusioni con la f. Differenze meno vistose riguardano la t, che ha allungato un poco il tratto diritto per incrociare la traversa, e il puntino diacritico sulla i. Eccole, quelle lettere, tutte in fila:
(In verità bisognerebbe aggiungere alle lettere dell’alfabeto due altri segni, il nesso per et, simile alla & commerciale, e il nesso per st, con la curva della s che scende a formare la t). La nuova ‘minuscola’, che nella sua versione testuale è detta ‘carolina’, fa parte di quella che fu una vera e propria politica testuale, che Re Carlo e i suoi dotti intrapresero nell’ambito di un generale programma di rinascita degli studi: «libros catholicos bene emendate», è l’ammonimento che si legge nelle Admonitiones generales sulla disciplina del clero del 789. Con la costituzione della minuscola e l’invenzione della carolina essi si prefissero di sradicare la confusa tradizione scrittoria vigente da tempo nei territori dell’Impero. Dalla corsiva tardo-romana era cresciuta una selva di scritture dette appunto ‘corsive’, generose ma negative rispetto al progetto culturale carolingio, per due motivi: per un verso la loro varietà disordinata, contraria all’esigenza di una unificazione grafica delle terre dell’impero; per l’altri i loro caratteri strutturali, incapaci di esprimere testi puliti e corretti. L’uso di termini come ‘minuscola’ e ‘corsiva’ richiede una precisazione lessicale, perché le due parole hanno un significato assoluto e un significato storico, anzi vari significati storici:
minuscola è una scrittura il cui alfabeto si dispone all’interno di uno schema quadrilineare, come sono rigati i quaderni delle prime classi elementari; è il contrario di maiuscola, le cui lettere sono tutte comprese in uno schema bilineare. Quanto alle scritture del medioevo centrale (secoli VIII-XI), si designano come minuscole le scritture discendenti dalla riforma grafica carolingia: la carolina in primo luogo, e numerose altre, sia per libri sia per documenti.
corsiva è, in generale, ogni scrittura manuale veloce, dal lat. currere; l’opposto è una scrittura posata, realizzata disegnando al tratto le forme corrette di ciascuna lettera. Di solito sono corsive le scritture documentarie e pratiche, posate le scritture librarie. Nella tarda età romana fu in uso, negli uffici centrali e periferici dell’Impero, una legatissima grafia realizzata currenti calamo; di qui tutte le scritture altomedievali, dette ‘corsive nuove’. Molto tempo dopo il termine fu ripreso per indicare la scrittura tipografica con carattere inclinato sulla destra, allora detto italico (ancora oggi, in francese italique, in inglese italic), ma nell’uso corrente odierno italiano denominato appunto corsivo.
La caratteristica principale delle corsive altomedievali era l’uso dei legamenti sillabici. Molte coppie di lettere non erano realizzate con l’accostamento dei due segni costitutivi, ma questi si connettevano piegandosi vicendevolmente e stravolgendo le rispettive forme. Esempi? Il tracciato del celebre Indovinello veronese, vergato da una mano molto abile e sapiente, nonché quello, anch’esso corsivo e legato, ma più sgraziato, di un’altra mano che si esibisce subito sotto con un Gratias tibi agimus omnipotens sempiterne Deus:
Verona, Biblioteca Capitolare, ms. LXXXIX, f. 3r
La nuova minuscola s’impiantò prima nei centri scrittori del Palazzo e delle abbazie più vicine a Carlo (Corbie, Tours), poi nei centri scrittori sparsi nei territori dell’impero, Francia Germania Italia centro-settentrionale, e dopo ancora, manu militari, nelle zone annesse dai carolingi. Le corsive ne furono estirpate; ma continuarono, e quanto vigorosamente, nelle aree esterne all’impero. Vitalissima, per esempio, fu la scrittura che gli umanisti battezzarono langobardica e noi, costretti dalla magnifica monografia di Elias Avery Lowe (1914), chiamiamo beneventana. Ad essa, nella sua versione documentaria, si devono i placiti campani del 960 e 963; nella sua ultima e più famosa tipizzazione libraria, quella in uso a Montecassino, il Ritmo cassinese. Che la carolina, la nuova scrittura del testo elaborata in ambito carolingio, fosse una reazione al modo di scrivere corsivo è dimostrato dal suo requisito principale: il “canone” alfabetico. La carolina è una scrittura per lettere: lettere sempre uguali a se stesse, ciascuna chiaramente distinta da tutte le altre. Jacques Fontaine ha parlato di una scrittura «cartesiana», David Ganz di una «grammatica della leggibilità». Si aggiungano altri elementi di innovazione. Lo scarso o nullo uso di compendi, che fa della carolina una scrittura “a tutte lettere”. L’attento uso dell’interpunzione. L’accuratezza delle distinzioni e partizioni del testo, con l’utilizzo di una gamma di scritture ampia e gerarchizzata, ripresa dalle scritture del passato. La scrittura per lettere separate era funzionale a una lettura analitica, discorsiva, lenta, lettera dopo lettera, parola dopo parola, eseguita dall’occhio che scorre placidamente riga dopo riga. Fosse effettuata a voce alta, a voce bassa o in silenzio, la lettura carolina, chiamiamola così, era basata sulla sequenza continua dei segni trasformati in suono, come se il lettore capisse ascoltandosi leggere (mentalmente o a voce alta). La carolina portava a perfezione, realizzandola visivamente sulla pagina, la progressione insegnata dalla precettistica classica, dalla littera (il grafema e fonema elementare) al sensus (il significato) alla sententia (l’idea, il concetto).
Scrittura sintetica, lettura sintetica La carolina come scrittura dei libri durò poco – si fa per dire: un paio di secoli. Restò, anche perché assunto stabilmente nella pratica scolastica, l’alfabeto minuscolo. Esso, nelle diverse regioni e secondo le diverse funzioni, fu sottoposto a svariate tensioni e adattamenti. Per i documenti delle cancellerie si usò una scrittura diritta e allungata, la ‘minuscola diplomatica’, mentre i notai continuarono con la corsiva. Per i libri, i centri scrittorii monastici elaborarono proprie tipizzazioni. Una fu, ad esempio, la minuscola ‘romanesca’, radicata nelle abbazie dell’Italia mediana: quella, per intenderci, della Formula di confessione di Sant’Eutizio. Ma il cambiamento più forte e consapevole fu quello che portò alla littera moderna, ossia alla scrittura ‘al modo parigino’. È la scrittura dei libri dell’Università di Parigi. Si tratta di un tipo particolare della scrittura che nei manuali si troverà definita come gotica o textualis, e descritta in termini di tecnica di esecuzione e di maniera stilistica. Una grande famiglia di scritture, che ha dominato l’Europa manoscritta per buoni tre secoli. La caratteristica più appariscente della gotica internazionale è la spezzatura dei tratti e degli archi. Un dato tecnico e stilistico, questo, che la fa apparire singolarmente congruente con la coeva cultura architettonica e artistica: “gotica” la scrittura a mano come “gotiche” l’architettura, la pittura, la scultura, l’epigrafia – d’altronde, la carolina sa un po’ di romanico. Ma la spezzatura è un elemento estrinseco, fra l’altro vanificato dalle molte varianti nazionali e tipologiche della scrittura. Per l’Italia ad esempio si parla di una gotica rotunda, che sarebbe una contraddizione in termini. Come sempre, è la finalità, la funzione culturale che condiziona e impone le soluzioni tecniche, grafiche, compositive; non viceversa. Rilevanti, allora, sono altre caratteristiche della gotica internazionale: la sovrapposizione delle curve contrapposte, che lega insieme due lettere altrimenti separate; il sistema dei trattini sul rigo, che realizza in basso (ma anche in alto, nelle grafie più professionali) un continuum spezzettato coincidente con la parola; l’uso della s rotonda in fine di parola e della r rotonda dopo lettera curvilinea; ed altre. Tutte caratteristiche finalizzate, con una coerenza davvero stupefacente, alla perfetta definizione, delimitazione della parola grafica. Il meccanismo consiste nell’incatenamento delle lettere di una parola e, per conseguenza, nella visibile separazione delle parole. Il “canone alfabetico” della carolina si è trasformato in “canone verbale”. La modificazione della carolina in gotica consiste nel passaggio da una scrittura per lettere separate a una scrittura per parole separate. L’unità elementare del discorso scritto non è più la lettera, ma la parola.
Le lettere, più alte che larghe (meno che nei libri italiani), oppure l’uso spinto dei compendi, oppure entrambi, riducono la lunghezza delle parole grafiche: l’illustrazione fa vedere che, nello stesso spazio, a sinistra hai cinque parole che si srotolano indifferenziate, a destra ne hai otto, ben identificate dagli stacchi della catena grafica. Se questo è vero per tutti i libri tra Due e Quattrocento, conviene – volendo tornare sulle modalità di lettura – riandare alla littera moderna, cioè all’Università parigina e al suo prodotto tipico, il libro scolastico. Si confrontino da lontano le pagine di un libro in carolina originaria e di un libro scolastico parigino:
Avviene come se il testo, già contratto di per sé, fosse sottoposto a una doppia compressione, dal basso e dall’esterno. Alla piena pagina si preferiscono le due colonne, strette fra loro e spinte verso il centro e verso l’alto della pagina. Sono ridotti gli spazi interlineari, mediante l’accorciamento delle aste ascendenti e discendenti. La rigatura impone una gabbia a maglie strette e giustificate. A libro aperto (lo si immagini, il manoscritto parigino, con la pagina di destra speculare a quella riprodotta), hai un blocco di scrittura centrale in tutto-nero, circondato da larghi spazi bianchi. Si noti che, a misurarle, è più ampia (anche se di poco) l’area bianca di quella nera: per dire che tutto si può supporre in una pagina del genere meno che il bisogno di risparmiare carta o pergamena. L’economicità della gotica sta nella riduzione orizzontale della sequenza testuale e nella riduzione verticale degli spazi tra le righe. Il modo di scrivere “alla moderna” discende da una concezione ben determinata del libro come strumento del lavoro intellettuale. Esso è funzionale alla lettura mentale, quella capace di tradurre immediatamente in pensiero ciò che l’occhio vede. L’occhio legato alla mente, non alla voce, non è costretto a vedere e riconoscere ogni lettera: opera una selezione, sufficiente a riconoscere in un baleno la parola e la frase. Una lettura sintetica, come quella del lettore acculturato di oggi che scorre velocemente le strette colonne di un articolo di giornale; mentre il lettore elementare, chiamiamolo così, opera una lettura analitica, tant’è vero che, se lo fa silenziosamente, muove le labbra. Il lettore di un libro universitario di allora era grandemente facilitato nella lettura sintetica dalla scrittura stretta e abbreviata, che aumenta – rispetto alla scrittura a tutte lettere – le parole comprese nello spazio visivo. L’occhio, insomma, percorre il testo in un velocissimo zig-zag. La progressione dalla littera al sensus alla sententia si accorcia enormemente. Se poi, ancora, si considera che in molti libri scolastici il testo è fittamente ripartito in blocchi ben evidenziati, ciò consente a chi legge di saltare, andare a destra e a manca, su e giù – nella pagina e nel libro. S’inventa, per esempio, il titolo corrente in alto. Da queste modalità di scrittura, il lettore sapiente è messo perfettamente in grado di padroneggiare, col minimo sforzo, non solo il testo ma anche il libro intero. Va da sé che queste considerazioni valgono in toto solo per una determinata categoria di testi e solo per una determinata categoria di lettori. Gli innumerevoli libri in gotica scritti in Europa, sia a mano che a stampa (poiché quella scrittura trasmigrò poi in un’ampia parte della produzione tipografica), coprono tutte le specie di contenuto, funzione, qualità. In Italia, per esempio, sono in gotica quei testi delle Origini volgari che sono scritti da amanuensi professionali: come la prima stesura del Cantico delle creature, che sta in un codice fratesco, l’Assisano 338; come due dei tre grandi Canzonieri toscani, il Laurenziano Rediano 9 e il Palatino 418; come molti codici della Commedia di Dante. In gotica, benché semplificata e alleggerita, scrissero i loro testi più formali Petrarca e, sulla sua scia, Boccaccio.
Gli umanisti e il ritorno all’“antico” Francesco Petrarca: veniamo a lui, faro di tutta l’intelligenza italiana trecentesca. Dall’alto della sua concezione aristocratica della cultura scritta, il nostro poeta nutrì una forte insofferenza per i sistemi di produzione libraria vigenti nell’Europa del suo tempo e per le scritture che la veicolavano. Elogiava piuttosto la maiestas dei codici nella scrittura ‘vetusta’: era la carolina, da lui apprezzata, in codici del X e XI secolo, come castigata et clara. Ma non l’imitò, e nemmeno si allontanò dalla gotica, attenuandone piuttosto gli estremismi; e lavorò soprattutto sulla limpidezza e l’equilibrio della pagina. La sua lezione fu recepita da molti, e specialmente dai cólti fiorentini e padovani. Fu a Firenze, sotto l’egida di Coluccio Salutati, che si compì il passo ultimo. Proprio intorno all’anno 1400 Poggio Bracciolini, allievo di Coluccio, si pose a imitare la carolina rotonda dei tempi andati, con tutto ciò che ne derivava in termini di separazione delle lettere, di cura ortografica, di rifiuto delle abbreviazioni, di distesa occupazione della pagina. Nacque così la littera antiqua: un’etichetta che non fa minimamente allusione alla scrittura di età classica, ma significa uno scrivere “all’antica” in contrapposizione allo scrivere “alla moderna”. Due termini di cui noi dobbiamo ben intendere il significato: giacché gli umanisti riandarono al medioevo più antico (carolingio o quasi) per attingervi quella precisione di segno e insieme quella flessibilità e distensione che vollero contrapporre alla produzione in serie e alle pagine costipate del medioevo più recente. La dialettica è tutta interna alla civiltà del libro medievale. L’età propriamente antica, quella romana, giocò invece nel recupero delle maiuscole di tipo epigrafico, le capitali classiche: recupero operato già dallo stesso Bracciolini, alimentato dalla ricerca antiquaria e spalleggiato dal ritorno all’arte e all’architettura classiche. Si formava così un doppio alfabeto, maiuscolo e minuscolo, che congiungeva armonicamente due tradizioni grafiche diverse, quasi avessero la stessa radice. Lo stile lapidario classico influenzò la stessa minuscola “all’antica”, che dopo la metà del secolo acquista in molti centri di produzione in rotondità e regolarità. E quella scrittura poté dirsi, e fu detta, ‘romana’. Ospitata presso le corti signorili, l’antiqua fu la scrittura testuale dell’Umanesimo, e fu capace di attingere risultati massimi in termini sia estetici che filologici. In questi manoscritti magnifici si aveva una terza modalità di lettura rispetto alle due fin qui descritte: se poi era davvero lettura, poiché si tratta piuttosto del godimento del libro in sé, il cui possesso conferiva da solo, a quei mecenati, dignità culturale e prestigio sociale. Da espressione raffinata e alta di un’élite intellettuale e insieme dell’aristocrazia del potere e del denaro, l’antiqua divenne patrimonio comune con la stampa a caratteri mobili, quando – e fu verso il finire del Quattrocento – l’arte tipografica l’adottò per i suoi prodotti migliori. Il cerchio può dirsi concluso quando essa fece propria anche la variante corsiva dell’antiqua, la cosiddetta italica. Il che avvenne per iniziativa di Aldo Manuzio, che commissionò all’incisore Francesco Griffo da Bologna nel 1499 il conio dei nuovi caratteri e li lanciò sul mercato nel 1501 con la sua fortunatissima collana dei classici italiani in formato tascabile. Ecco così i due caratteri tipografici tuttora in uso, il ‘romano tondo’ e il ‘corsivo’ ovvero ‘italico’.
Scrivere il volgare Detta così, la storia della scrittura del testo, perché di questa finora si è parlato, è assai semplice. Tre invenzioni: la carolina dei «libri catholici» patrocinati da Re Carlo e dal suo entourage; la gotica, espressione della modernità in termini per un verso stilistici, per l’altro intellettuali; l’antiqua, un ritorno all’indietro. Le cose stanno in maniera meno semplice. Anzitutto, sono diversi i quadri geografici e i connotati storici. La carolina è un’operazione politica, applicata alla realtà, tutta altomedievale, dei centri scrittori monastici ed ecclesiastici dell’Impero. La gotica agisce nell’età dell’esplosione quantitativa e qualitativa della cultura manoscritta europea. L’antiqua nasce come creazione e bandiera di un circolo esclusivo, quello degli umanisti italiani. Poi, si tratta di scritture “del testo”, cioè prodotte e usate in ambiti ben determinati. Qui s’innesta un ulteriore elemento di differenza. La carolina è sola: è, dove e fin quando fu usata, la scrittura esclusiva di ogni e qualsiasi testo. La gotica, benché generalizzata, e l’antiqua, di per sé elitaria, fanno parte di un panorama plurale, fatto di tante scritture e di tanti libri. Ciò vale per il Trecento e ancor più per il Quattrocento; e vale in particolare per l’Italia, la terra più acculturata d’Europa. In Italia l’espansione della cultura scritta si ebbe con l’accesso del volgare allo stato di scrittura. Possiamo datarlo convenzionalmente all’inizio del XIII secolo, nonostante le sparse sperimentazioni precedenti. Si trattò dell’utilizzo dell’alfabeto latino, che fino ad allora serviva pressoché esclusivamente la lingua latina, per realizzare la scrittura in altra lingua: la lingua parlata, quale che fosse. Il travaso non fu senza difficoltà, anche perché la scrittura del volgare non poteva utilizzare, se non in minima parte, le risorse della littera moderna. Assistiamo così a due fenomeni. Il primo: il ricco sistema abbreviativo latino non poteva che ridursi a pochissimo, solo i segni per la nasale e il segno di p(er). Il secondo: la scrittura per parole separate cambiava di valore. Nella scrittura del latino, la parola grafica coincideva con la parola grammaticale (e proprio grammatica era detto il latino che s’imparava a scuola); nella scrittura del volgare – ben di là da venire la normazione grammaticale e ortografica dell’italiano – la parola grafica coincideva invece con l’unità di emissione fonica, come veniva intesa e realizzata dal parlante-scrivente. Per fare il solito esempio sommo, fra i 366 componimenti del Canzoniere del Petrarca sette iniziano con L’aura (l’incipit più frequente dopo l’imbattibile Amor, con 17 occorrenze): «L’aura gentil», «L’aura serena», «L’aura mia sacra»… Ma nell’autografo, in mancanza dell’apostrofo, sta scritto Laura. Il razionale apostrofo ha eliminato quella sapientissima ambiguità. Non essendo possibile dilungarsi, ciò che qui interessa rilevare è che l’Italia duecentesca, l’Italia delle città, si caratterizzava nel quadro europeo per la larga presenza di un “ceto culturale intermedio”, quello degli alfabetizzati ma illitterati: delle persone cioè, attive soprattutto nelle arti e nei mestieri, potenzialmente capaci di leggere e scrivere ma ignoranti del latino, e perciò in precedenza escluse dal circuito della scrittura e della lettura. Ora, invece, il volgare scritto liberava quelle energie latenti, che poco a poco presero fiducia, producendo però alla lunga anche una situazione di nuovo caos scrittorio, di anarchia grafica. Nel Trecento lo stato delle cose è ancora sotto controllo, almeno al livello della produzione letteraria. A parte gli scriventi improvvisati, lo scrivere volgare è saldamente nella mani dei cólti, bilingui, avvezzi al rapporto col libro. Nella trasmissione dei testi della nascente letteratura italiana, si è detto sopra, la gotica fece la sua parte; ma una parte forse maggiore l’ebbe la scrittura dei notai. In quel secolo essa si stabilizzò nelle forme di una scrittura alta, elegante, agile: la si denomina ‘minuscola cancelleresca’, anche se sarebbe meglio chiamarla notarile. Questa scrittura, i notai naturalmente la usavano per scrivere documenti: ma molti di loro la utilizzarono per scrivere testi in volgare. (Per designare queste scritture, che passano dall’ambito di scrittura loro proprio all’ambito librario, i paleografi parlano di “bastarde”, e la metafora è alquanto sgradevole). A notai – senza dire della loro vistosa presenza nel pantheon degli autori delle Origini, dalla Scuola siciliana allo Stil nuovo, e nel novero dei grandi volgarizzatori – si deve la maggioranza dei codici volgari dell’Italia trecentesca. Così per l’antica vulgata della Commedia, basti ricordare i “Danti del Cento” e il nome del notaio Francesco di ser Nardo da Barberino; così per il testo volgare più lungo che ci sia, il monumentale Costituto senese del 1309-1310, opera del notaio Raniero di Ghezzo Gangalandi; e si potrebbe continuare all’infinito. In notarile, probabilmente, scriveva Dante. Alla notarile fu educato dal suo maestro, il notaio Convenevole da Prato, il Petrarca, figlio di notaio; che seguitò a usarla per le sue lettere e per le minute delle sue rime, il famoso “codice degli abbozzi”. Alla notarile non era insensibile il Boccaccio, che pure aveva alle spalle un’educazione grafica mercantile. Già, i mercanti. L’altra categoria italiana che scrisse molto. Anch’essi ebbero una loro scrittura specifica, la merchatantesca di allora, la ‘mercantesca’ dei manuali di paleografia. Una scrittura rotonda e fluida, legatissima, che può dirsi formata in Toscana alla metà del Trecento e resiste per due secoli in separata autonomia dalle grafie dell’alta cultura. Una scrittura di ceto, solo italiana. Mentre le altre scritture (la gotica, la cancelleresca, la umanistica) sono bilingui, essendo bilingui coloro che le usano, la mercantesca realizza esclusivamente testi volgari, è una scrittura vernacolare. In mercantesca – una mercantesca abile ma retroversa, da mancino – scrive per esempio l’«omo sanza lettere» Leonardo.
Leonardo da Vinci, Homo vitruvianus (1490) foto originale e foto speculare
Gli illitterati di cultura grafica mercantesca non si fecero pregare, e scrissero molti libri in volgare, o con testi propri oppure, e più, trascrivendo testi altrui. Il Quattrocento ne è pieno. Molti di questi copisti lo sono per passione, oggi si direbbero dilettanti allo sbaraglio; ma si contano molti copisti di mestiere, che facevano libri a prezzo. Tra gli autori preferiti era Boccaccio, al quale veniva così riconosciuta ex post la sua origine cetuale, nonostante i suoi tentativi in contrario; ma anche altri novellieri, trattatelli cristiani, manuali professionali. Tutti libri di carta: un altro elemento identitario. Anche il dato materiale, infatti, non va sottovalutato. Il mondo scritto degli illitterati, compresi mercanti e artigiani – registri contabili, lettere commerciali, libri da leggere –, è esclusivamente cartaceo. Leonardo, per dire, scrisse sempre e solo su carta. L’altro mondo è quello dei litterati: bilingui, si è detto, e anfibi anche quanto al supporto. I notai scrivono le loro minute su carta (sono i cosiddetti protocolli), ma se devono scrivere un documento o un registro comunale o, infine, un libro da leggere utilizzano la pergamena. Petrarca? Il “codice degli abbozzi” è cartaceo, l’“originale” del Canzoniere è membranaceo. E anche per le sue lettere lui preferiva la pergamena, unica materia degna di quel latino ciceroniano. L’unica lettera autografa superstite di Boccaccio, scritta in età matura (1366), è in volgare e su carta. Sotto il profilo grafico, se nel Trecento la situazione italiana era sì articolata ma anche organizzata, con il Quattrocento il panorama s’ingarbuglia. Tuttora ben riconoscibili sono i tre tipi della gotica, dell’antiqua e della mercantesca. I notai invece perdono la loro scrittura di status trecentesca e si rivolgono alle più svariate e informi grafie; negli uffici e nelle cancellerie invalgono le scritture di matrice umanistica. La massa della produzione libraria gravita verso la gotica: ma si tratta per l’appunto di una generica propensione, di un’aria di famiglia; ai libri in gotica “formata” si contrappone un coacervo di mani individuali del tutto ingovernabile. La paleografia, qui, perde la bussola. Per chi fa cataloghi di manoscritti quattrocenteschi, la parola d’ordine è di non descrivere, né tanto meno battezzare, la scrittura.
Dalla penna al torchio al computer allo smartphone Non si tratta solo dei limiti della scienza paleografica. Dalla metà del Quattrocento, e più ancora col nuovo secolo, la scrittura a mano perde il suo principale riferimento: il testo, il libro non si scrive più, si stampa. Con ciò perde molto senso fare storia della scrittura a mano, intesa come insieme strutturato organicamente alle condizioni generali di cultura. Con le scritture dell’età moderna non si può fare paleografia nel senso tipologico e formale. Mentre i notai vanno per conto loro, mantiene una qualche organicità soltanto la scrittura delle cancellerie e degli uffici, solidamente attestata nelle forme della ‘lettera cancelleresca’: a questa erano soprattutto dedicati i trattati di scrittura o, se si vuole, di calligrafia, che, in apparente contraddizione con quanto si va dicendo, ebbero una grande diffusione nel Cinquecento. Ma nella piena età moderna anche quella si smarrisce, a vedere i guazzabugli illeggibili di certi registri burocratici (mentre altri, beninteso, attingono livelli di piena dignità). Delle grafie poi degli scriventi comuni, semplicemente alfabetizzati, non mette conto parlare: quanto all’Italia, perché altrove le cose andarono in modo diverso. I modelli comuni appresi a scuola, quando siano tali, sono lasciati al loro destino: chi scrive poco li imiterà faticosamente per tutta la vita, chi scrive molto li stravolgerà nella sua personale grafia. Un qualche disciplinamento si ebbe soltanto tra fine Settecento e inizio Novecento, con quella scrittura fortemente inclinata e smagrita tipica, ad esempio, dell’epistolografia femminile, ripresa dalla corsiva inglese. Sta di fatto che dal Cinquecento in poi la storia della scrittura a mano è fatta di tante progressive riduzioni del suo ambito d’uso. Adottiamo le formule coniate allora per descrivere la nascita della stampa a caratteri mobili: l’ars manualiter scribendi è poco a poco sostituita da tante forme di ars artificialiter scribendi. Prima di intraprendere questa scorribanda conclusiva, vale la pena ricordare che anche la scrittura a mano è un’attività in qualche modo tecnologica, perché le tre dita nulla potrebbero fare senza la penna, l’inchiostro, la carta. E anche la penna, che a sua volta aveva soppiantato il calamo, scomparve tra Otto e Novecento, sostituita prima dal pennino metallico, prodotto a Birmingham a partire dal 1830 e in uso da noi fino a sessant’anni fa; poi dalla penna stilografica, che otteneva il miracolo di eliminare il calamaio, il più disagevole dei tre strumenti; poi dalla penna biro (dal nome dell’inventore, Lászlo Biro, ungherese emigrato in Argentina), ossia la penna a sfera metallica rotante. Né si dimentichino, ultimi depositari dell’arte calligrafica, l’aristocratica stilografica a sfera e il democratico pennarello. Ma torniamo alle “rivoluzioni inavvertite”, come fu definita da Elizabeth Eisenstein nel 1979 l’invenzione gutenberghiana. Prima rivoluzione, dunque, la stampa a caratteri mobili. Che a sua volta ha una sua storia molto ricca, se è vero che il piombo è oggi cosa dimenticata. Essa, ricordiamolo, fu introdotta in Italia tre lustri dopo Gutenberg, nel 1465, ad opera di Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz. Inutile spender parole su questa innovazione, se non per dire che la storiografia più avvertita mette in guardia dai trionfali ottimismi: la stampa portò sì una formidabile espansione della cultura scritta e della lettura, ma fu anche un forte fattore di disciplinamento e di selezione. Poi la dattilografia, la scrittura meccanica individuale. L’invenzione della macchina da scrivere si deve a livello industriale a Eliphalet Remington, un fabbricante d’armi, nel 1873; a lungo prerogativa degli uffici pubblici, delle segreterie, degli studi professionali, essa inondava (si fa per dire) l’Italia alfabetizzata con la Olivetti Lettera 22, inventata da Marcello Nizzoli nel 1950. La portatile olivettiana significò per la scrittura quello che fu la Seicento nell’Italia del boom. Poi i computer, che hanno eliminato dalla scrittura ogni elemento di materialità e minacciano di far scomparire anche il libro, dividendo il pubblico dei lettori tra la nostalgia, la maggioranza, e l’entusiasmo, una minoranza per ora. Accontentiamoci di annotare due altre scomparse. Una è già avvenuta, ed è la scomparsa della minuta d’autore; la seconda è annunciata, ed è la scomparsa della lettera, che prima o poi sarà azzerata dalla posta elettronica e dai messaggini. Proprio i messaggini sono l’ultima rivoluzione: questa avvertita anzi avvertitissima, il più delle volte con fastidio. Ma almeno si dovrà appuntare che essi segnano la grande riscoperta dello scrivere, fuori della scuola, da parte dei giovani. Né dispiace rilevare le innovazioni che la scrittura digitale ha introdotto. Per esempio la reimmissione come lettera dell’alfabeto comune del k, un po’ come avvenne alle origini del nostro volgare. Per esempio, abbreviazioni e compendi e contrazioni, tali da far definire questo scrivere una brachigrafia sui generis. Resisterà la firma, poiché non ce la toglierà mai la firma elettronica; resisteranno, invincibili, le scritte sui muri; resisteranno le scritture libere, quelle private e segrete, e le scritture obbligate, come i compiti a scuola. E, chi lo sa, qualcuna tra queste scritture potrà ancora darci l’emozione delle più antiche attestazioni volgari, dei dolenti biglietti delle donne fiorentine del Quattrocento, o delle lettere dei nostri emigrati e dei soldati della Grande Guerra.
L’albero della vita, capostipite dal quale si dipartono tutte le genti e le storie del mondo, nel mosaico pavimentale della cattedrale di Santa Maria Annunziata, a Otranto (Pantaleone, 1163-1165)
C’è il ladro di pollo e l’esattore delle tasse, il ragazzo fortunato e quello grasso, il feudatario, il piccolo, il bello, il cieco, il sordo e l’astuto, il pennuto, il piemontese e il napoletano, il pastore, il devoto, lo spaccapietra, l’argentiere, il cappellaio, il campanaro, il costruttore di botti, il mugnaio, il coltivatore di canapa e tanti, tanti, tanti figli di.
Dietro ogni cognome c’è una storia; e quasi tutte iniziano nel Medioevo.
Come il Comune, gli occhiali, il libro, la stampa e le cattedrali anche i cognomi attuali sono invenzioni medievali.
Nella Roma antica, infatti il cognome c’era, ma corrispondeva in realtà al nostro soprannome, mentre il ruolo dell’attuale cognome era rivestito dal nome.
Un romano veniva identificato per legge da prenomen, nomen e cognomen: il prenome corrispondeva al nostro nome di battesimo, ma al di fuori della famiglia serviva a poco, visto che il campionario era molto ristretto (Marco, Gaio, Tito, Publio e Lucio). Il nome era invece quello della gens, ovvero il clan di appartenenza; anche in questo caso, però, non aiutava molto l’identificazione perché – in epoca repubblicana – le grandi famiglie (Claudia, Giulia, Cornelia e così via) erano poche, per questo la maggior parte dei romani vengono identificati soprattutto attraverso il cognomen, ovvero il soprannome attribuito in età adulta.
Il ritratto immaginato di Publio Ovidio Nasone nelle Cronache di Norimberga (1493)
Poteva arrivare da gesta eroiche (ad esempio Coriolano, dalla presa di Corioli), da caratteristiche fisiche (Nasone) o da abitudini (Caligola portava i sandali militari, detti “caligae”). Con il passare del tempo, però, anche il cognome finisce per diventare ereditario e in età imperiale identifica la famiglia nucleare all’interno della gens; nonostante questo, esistono cognomi comuni anche in gens diverse: si pensi allo storico Publio Cornelio Tacito e all’imperatore Marco Claudio Tacito.
Ad ogni modo nel Medioevo si azzera tutto: sono pochissimi i cognomi attuali di origine romana (come Metelli, Coccia – dalla gens Cocceia e Salvi e Salvini dal cognomen Salvius) mentre è soprattutto tra il XII e il XIII secolo che si vanno strutturando quelli contemporanei.
Nell’Età di Mezzo l’unico nome “legale” è quello di battesimo, la cui varietà nel frattempo si è moltiplicata in modo esponenziale. Nella propria comunità si viene identificati – come ancora oggi accade nei piccoli borghi – con il nome del padre, con il mestiere o con un soprannome; chi viaggia viene spesso additato con il nome della città di provenienza mentre i nobili lo prendono dal loro feudo: Casali, ad esempio, deriva da Casale di Cortona, Di Maio e De Maio da Maggio in provincia di Como, Cordeschi da Cordesco vicino Teramo, mentre Querci dall’omonima località di Pistoia.
Con il passare dei secoli, per preservare i cognomi importanti dall’estinzione, vengono trasmessi anche dalle donne nel caso in cui non ci sia una discendenza maschile; motivo per cui oggi la maggior parte delle famiglie di origine aristocratica ha il doppio cognome.
Buona parte dei cognomi attuali derivano comunque da patronimici, anche se in forme diverse: poteva essere utilizzato in latino o in italiano (Francisci e Di Francesco) e spesso la preposizione cadeva (ecco dunque Daniele alternativo a Danieli, Valentino alternato a Valentini o ancora Salvatore e Salvatori, Guarino e Guarini); in qualche caso restava anche il titolo del capostipite (Mastromatteo, Mastrogiorgio). La variante “Quondam” deriva invece dall’avverbio latino che sta per “fu” e veniva usata quando, al momento del battesimo, il padre del bambino era già morto. Il figlio di un “fu” Carlo diventa dunque Quondamcarlo, mentre il solo Quondam può indicare un trovatello o una semplice abbreviazione.
Una immagine di bottai in un Libro d’Ore (1516) conservato nella Biblioteca di Angers
Non mancano cognomi che alla loro origine hanno soprannomi tutt’altro che benevoli: Fumagalli, ad esempio, significa “ladro di polli” (‘fumare’ è un’espressione gergale lombarda adoperata per indicare sia la cottura alla brace, sia la sottrazione abusiva di un bene) e i primi Baglioni erano figli di “bagli”, funzionari statali addetti alla riscossione delle tasse, all’esecuzione delle condanne e alla convocazione delle milizie. Il Massaro era invece il fattore, mentre i Fornaciari non erano altro che fornai.
I cognomi Bottai e Botteri fanno riferimento a costruttori di botti, mentre i calzolai hanno dato origine ai cognomi Scarparo, Scarpa, ma anche Caligari e Caligaris (dal latino caligarius); Cannavaro e Cannavò derivano dall’antica dizione usata per indicare il cantiniere o il bottigliere, mentre Molinari è un nome da mugnai e Balistreri da fabbricanti di balestre. Chi porta il cognome Argenti ha qualche antenato che lavorava il prezioso metallo, così come – ovviamente – chi si chiama Orefice, mentre Paglia e Pagliai discendono da famiglie contadine così come i Pegoraro.
San Francesco e Dante rappresentano casi emblematici per le origini medievali dei cognomi
Una vera e propria istantanea della nascita dei cognomi si può osservare in personaggi come Francesco e Chiara di Assisi o nella famiglia di Dante Alighieri.
San Francesco, infatti, ad Assisi viene indicato come Francesco di Pietro di Bernardone, o semplicemente Francesco di Bernardone. Allo stesso modo, Chiara è detta “di Favarone di Offreduccio” o piuttosto “di Offreduccio”.
Ad identificare sia Chiara che Francesco, non è quindi tanto il nome del padre quanto quello del nonno, mentre il nipote di Francesco – figlio di suo fratello Angelo – è ricordato nei documenti come Piccardo Bernardone. Ecco dunque che nell’arco di quattro generazioni un nome è diventato un cognome.
Un caso analogo riguarda la famiglia del Sommo Poeta: Dante era figlio di Alighiero di Bellincione e i suoi figli Jacopo e Pietro vengono indicati, a volte come “di Dante” a volte come Alighieri.
La famiglia, peraltro, avrebbe mantenuto il cognome anche quando sarebbero venuti a mancare discendenti maschi, tanto che il nome dell’ultimo discendente dell’autore della Divina Commedia, tra gli ospiti dell’edizione 2017 del Festival del Medioevo, si chiama Sperello di Serego Alighieri.
Una pagina dell’archivio parrocchiale di Sant’Ippolito (XIV sec., Bardonecchia, Torino)
A cristallizzare i cognomi e a dargli valore legale ci pensa nel 1563 il Concilio di Trento, che rende obbligatoria la registrazione dei battezzati, affidando ai parroci il compito di registrarli. Nascono così anche cognomi inventati sul momento per trovatelli e “figli di nessuno”: quello più diffuso è senza dubbio Proietti, dal latino “proiectus”, ossia “gettato”, usato per i neonati abbandonati. Stesso dicasi per Diotallevi e per il più raro – e spietato – D’incertopadre.
I cognomi derivati da nomi di battesimo si possono dividere in quelli di origine latina (Giuli, Cesari, Martini), greca (Andreotti, Cristofori, Giorgi), germanica (Bernardi, Carli, Federici) ed ebraica (Adami, Baldassarri, Gasparri), ma ce ne sono anche tipicamente medievali, come Fioravanti (dal nome Fioravante), Bontempi (dall’augurale Bontempo), Mazzilli (da Mazzeo), Brizzi (da Brizio), Diamanti e Cherubini. Non mancano diminutivi come Cardini, che deriva da Riccardini o varianti locali come il veneto Zanussi – diminutivo di Zanni, in veneziano Giovanni.
Il primo Pinna doveva avere l’abitudine di portare una penna sul cappello, mentre gli avi di Liliana Cavani avevano una casa molto modesta (Cavana in emiliano significa “capanna”). Il capostipite dei Berlusconi, poi, era un tipo due volte losco (dal milanese “bis-luscus”); frenate però le battute sui corsi e ricorsi storici: in questo caso per losco si intende “privo di luce” con riferimento a un guercio o uno strabico.
Non è poi troppo difficile indovinare da dove potesse arrivare l’antenato del regista Alessandro D’Alatri o quello dell’ex presidente della Repubblica Napolitano o ancora il primo Piemontese, cognome tipicamente pugliese: una regione, peraltro, dai cognomi particolarmente pittoreschi: basti pensare che solo tra i vescovi si trovano Renna, Castoro e Cornacchia, quest’ultimo vescovo di Molfetta, mentre di Molfetta è il nome del vescovo di Cerignola.
Da segnalare infine l’origine del cognome Trenta: se chi lo porta è sempre stato tra le vittime privilegiate di scherzi telefonici (“Scusi, ho sbagliato numero”) può in compenso vantare l’appartenenza ad un’antica famiglia che faceva parte del Consiglio dei Trenta della propria città.
Tra i nomi di origine satirica, oltre a quelli ricordati, anche Grillo, Bellomo, Quattrocchi, Guerci, Sordi, Astuti, Bruschi, Malerba, Onesti, Acerbi, Agnelli, Bevilacqua, Cattabriga, Magnavacca, Squarcialupo, Pappalardo e Frangipane.
Spregiativo era stato anche il soprannome di Pelavicino affibbiato, per la sua rapacità, al marchese Oberto I morto nel 1148, e condiviso anche dal nipote Oberto II, finito per diventare così il nome dell’importantissimo casato dei Pallavicini.
A una suggestiva leggenda è legata poi la nascita del cognome Malaspina: un dipinto conservato nel castello del paese di Fosdinovo, in provincia di Massa Carrara, ne fa risalire l’origine all’anno 540, quando il nobile Accino Marzio vendicò la morte del padre sorprendendo il re dei Franchi Teodoboerto nel sonno e trafiggendolo alla gola con una spina. Il grido del re – “Ah! Mala spina!” – avrebbe dato origine al casato.
Il campione del calcio Paolo Rossi. E’ probabile che il capostipite della sua famiglia abbia avuto i capelli rossi
Oggi, in Italia, si contano ben 350mila cognomi: un primato mondiale che fa impallidire il ben più ristretto elenco dei nomi, fermo a quota 7mila.
Il più diffuso – chi l’avrebbe mai detto – è Rossi, derivato dal colore dei capelli o dalla carnagione della pelle. Al secondo posto e con la stessa origine troviamo Russo e al terzo Ferrari, che deriva dal mestiere del fabbro, così come Ferretti, Ferrero e – ovviamente – Fabbri.
Non mancano, nelle anagrafi, nelle lapidi dei cimiteri e negli elenchi telefonici cognomi singolari: da Pappacena in Bonacucina a Fattaposta e Assolutissimamente, da Chicchirichì a Ingannamorte, passando per Sguaitamatti, Incantalupo, Tontodimamma, Mezzasalma, Zizzadoro, Pompini, Bonadonna, Boccadoro, Trombatore, Trentacapelli, Pizza, Malinconica, Finocchio, Ammazzaloro, Mancazzo, Addio, Frocione, Topo, Della Gatta, Chiappafredda, Porcelli, Zoccolella, Schifone, Pidocchi, Contacessi, Sterminio, Tirapelle, Coccolone, Saltaformaggio, Scaramuccia, Calamita, Spione e Basta.
Qualche anno fa una trasmissione televisiva andò a Napoli per fare una lunga intervista a tutti i componenti della famiglia Mastronzo. Un cognome imbarazzante, tanto che alcuni di loro ne hanno chiesto la modifica mentre qualcun altro, con più senso dell’umorismo, ha pensato bene di chiamare il figlio Felice: Felice Mastronzo.
Eppure anche questo cognome apparentemente paradossale, deriva in realtà dal nome, incautamente contratto, di un autorevole capostipite: Mastro Oronzo.
Labirinto di conoscenza, scrigno di memoria, espressione di grandezza, centro di produzione editoriale, tempio di studio o semplicemente ripostiglio di strumenti.
La biblioteca medievale ha mille identità e altrettante architetture.
Trappola di morte per monaci troppo avidi di conoscenza, è quella più famosa della storia della letteratura, posta da Umberto Eco al centro delle vicende narrate nel Nome della rosa (dove il bibliotecario avvelena chi tenta di leggere il libro proibito di Aristotele sull’umorismo) la biblioteca vive una crescita lenta e frastagliata nell’Età di Mezzo, che si apre con la fine delle biblioteche antiche e si chiude con la nascita di quelle moderne.
Di fatto quei mille anni visti ancora oggi come età oscura inventano la biblioteca moderna così come il libro stesso: è all’alba del Medioevo, infatti, che nasce il codice e al suo tramonto che arriva la stampa.
Le grandi biblioteche dell’Antichità – come quella di Alessandria, considerata la più grande al mondo – erano maestosi edifici pubblici in cui il tempio del sapere era strettamente connesso a quello religioso e all’insegnamento.
Armadio-biblioteca in una immagine medievale
Qui i libri erano semplicemente accatastati sugli scaffali: il volume era costituito da un lungo foglio di papiro arrotolato e chiuso – in alcuni casi – all’interno di un astuccio in pelle. Inutile dire che era estremamente fragile e scomodo da leggere, oltre che da conservare; e da produrre: i fogli di papiro si ottenevano infatti incollando insieme le sottili fettucce ritagliate dal fusto della pianta.
La prima rivoluzione tecnologica del mondo editoriale si compie tra il V e il VI secolo, quando il volume viene progressivamente sostituito dal codice, che è composto da una serie di fogli di pergamena sovrapposti e rilegati e protetti da una copertina in legno o in cuoio.
Oltre ad essere molto più resistente (la pergamena si ricava dalla pelle animale lavata, rasata ed essiccata) e riciclabile (l’inchiostro si può grattare via) è molto più comodo da leggere e pratico da conservare: sul dorso della copertina, infatti, viene scritto il titolo e l’autore.
La biblioteca con i quattro vangeli nella lunetta di San Lorenzo (sec. V, mausoleo di Galla Placidia, Ravenna)
Inizialmente i libri vengono conservati in orizzontale, con la prima pagina rivolta verso il basso, mentre successivamente – sempre per ragioni pratiche – verranno disposti in verticale.
Questo è il motivo per cui ancora oggi, i titoli dei libri (ma anche quelli delle videocassette e dei dvd) si scrivono dal basso verso alto; o meglio, così si dovrebbero scrivere, anche se si è diffusa molto la tendenza – arrivata dall’America – a stamparli al contrario.
Nel frattempo le grandi biblioteche dell’antichità sono quasi tutte scomparse: tra le ultime c’era la Ulpia Traiana a Roma (che accoglieva anche la statua di Sidonio Apollinare) e quella ospitata dal Palazzo di Costantinopoli.
Le prime biblioteche cristiane trovano posto nelle cattedrali. Papa Ilario (461-468) ne fonda una a San Giovanni in Laterano e la divide in due aule: una per i libri latini e l’altra per i libri in greco, seguendo la stessa architettura di quella fatta realizzare da Galla Placidia a Ravenna una trentina di anni prima.
Poche notizie restano invece delle biblioteca coeva di San Paolino a Nola e di quella fatta costruire sempre a Roma da papa Agapito, mentre nel 554 Cassiodoro ne fonda una in Calabria, seguendo il modello di Alessandria, e che è considerata l’ultima biblioteca dell’antichità.
Un esempio di caratteri carolini minuscoli in una pergamena medievale riutilizzata nei secoli successivi come coperta per un registro cartaceo (documento dell’Archivio di Stato di Bologna)
Quando, decenni dopo, si riaffaccia nei monasteri e nelle corti signorili, la biblioteca è poco più – o poco meno – di un ripostiglio.
Nell’alto Medioevo la cultura si fonda sull’insegnamento orale, anche se esistono certamente raccolte librarie nelle corti carolinge dove – d’altra parte – nasce proprio la “carolina”, il carattere tipografico ancora oggi più diffuso.
Lo stesso Carlo Magno era stato committente di libri e la sua corte era diventata un centro di attività scolastica e di ripristino della correttezza linguistica. Eppure non risulta che esistesse ad Aquisgrana una vera e propria biblioteca pubblica, quanto – piuttosto – raccolte personali dell’imperatore.
Lo stesso avviene nel Sacro Romano Impero di Germania, con Ottone I impegnato ad acquistare, commissionare e ricevere in dono libri. Anche nei secoli successivi le biblioteche di corte assumono più il ruolo di tesoro da sfoggiare, composto da volumi preziosi riccamente decorati – che di trasmissione del sapere. A partire dal XIII secolo nelle biblioteche private arriverà invece la letteratura di intrattenimento: poemi in versi, traduzioni in volgare e testi di narrativa. Ma tutto resterà chiuso in casse da portare con sé quando ci si sposta, e non da mettere a disposizione della collettività.
È nelle abbazie, invece, che si forma – lentamente – il concetto di biblioteca moderna.
Agli albori del monachesimo i libri hanno solo ed esclusivamente una funzione liturgica e spirituale: vengono distribuiti ai monaci nelle ore dedicate alle lettura e riposti in uno spazio ricavato nella parete, insieme agli altri strumenti di lavoro.
Nella Regola del maestro, la più antica regola monastica in gran parte ripresa anche da san Benedetto, viene menzionata un’arca, in cui si trovano conservati libri e, insieme a questi, fogli di pergamena non ancora utilizzata e documenti di vario genere. L’arca è conservata in uno stanzino, con arnesi e altre casse di oggetti vari.
San Benedetto, da parte sua, nella Regola scritta per i suoi monaci prescrive che tutti in tempo di Quaresima ricevano in lettura “codices de bibliotheca”. La parola “Biblioteca”, però, in questo caso sta per “Bibbia” e a distribuire le copie è un monaco che svolge anche altre mansioni nella comunità, e che dopo l’uso le sistema in un ripostiglio.
Non esiste dunque, ancora, né un luogo dedicato ai libri, né lo studio o la conservazione di volumi che vadano oltre le Sacre Scritture e qualche opera di carattere edificatorio.
Lo scrptorium in una miniatura tratta dal Libro del los juegos
È in Irlanda, invece, che il rifiuto ascetico della cultura viene superato dal recupero e la trasmissione del patrimonio della cultura greco-romana. L’onda partita dalle coste irlandesi si abbatte presto sul monachesimo benedettino rivoluzionandolo: nelle abbazie europee nascono gli scriptoria, dove i monaci sono impegnati a produrre libri copiando – e salvaguardando così – gli antichi testi.
Non c’è ancora, tuttavia, una precisa distinzione tra scriptorium, biblioteca e archivio. Nello stesso laboratorio vengono copiati i volumi, redatti i documenti e conservato tutto in appositi armadi che si trovano all’interno della stessa sala, o – in qualche caso – in un deposito collocato in una stanza al piano superiore.
Nell’abbazia di San Gallo, progettata nel IX secolo, biblioteca e scriptorium sono collocati tra il presbiterio e il braccio nord del transetto della chiesa, mentre, sull’altro lato della chiesa, in perfetta corrispondenza, tra presbiterio e braccio sud del transetto, si trovano sacrestia nella parte inferiore e repositorio dei vestimenti sacri in quella superiore. È proprio questa la biblioteca che ispirerà Eco per quella – immaginaria – del suo capolavoro.
In ambiente bizantino, invece, l’antica diffidenza per la letteratura non sarà mai del tutto superata: a differenza di quelli cattolici, i monasteri ortodossi non ospiteranno mai vere e proprie biblioteche e anche i pochissimi che hanno ingenti raccolte di libri non sono dotati di uno scriptorium e acquistano i volumi dall’esterno, in gran parte attraverso lasciti e donazioni. Solo a Costantinopoli esiste una biblioteca di consultazione riservata agli studenti dell’accademia patriarcale.
L’ingresso della biblioteca di Fez (Marocco), fondata nell’859 e recentemente restaurata e riaperta al pubblico. L’enorme portale di ferro è dotato fin dall’Antichità di quattro grossi lucchetti, ognuno dei quali si apre con una chiave differente. La biblioteca conserva documenti antichissimi, tra i quali una copia del Corano risalente al secolo IX e scritto su pelle di cammello nell’antica grafia cufica
Al contrario, la cultura islamica attribuisce grande importanza ai libri e alle biblioteche, che diventano importanti centri di studio e di insegnamento dove si effettuano traduzioni dal greco, dal siriaco, dal mediopersiano e dal latino e vengono ospitate le abitazioni degli stessi impiegati (bibliotecari, traduttori e copisti) e gli alloggi per i visitatori, spesso pagati per effettuare ricerche.
Nate sin dal VII secolo, le biblioteche islamiche – che sorgono in tutto il mondo arabo, da Baghdad a Gerusalemme, dal Cairo a Tripoli fino a Mossoul – raggiungono il massimo splendore nel X secolo. Promosse dai califfi, hanno anche un ruolo di propaganda religiosa, in particolare per l’affermazione dell’ortodossia sunnita.
In occidente, invece, la prima biblioteca propriamente detta è forse quella voluta nel secolo XI dall’abate Desiderio a Montecassino dove esiste una piccola stanza adibita alla conservazione dei libri totalmente indipendente dallo scriptorium.
Nel frattempo il monaco addetto al canto liturgico, naturalmente responsabile dei libri del coro, con il progressivo aumento dei volumi sotto la sua custodia finisce per diventare un vero e proprio bibliotecario. Il suo ruolo resta comunque solo quello di distribuire, ritirare e riporre i libri, che vengono letti dai monaci in privato, durante la liturgia o magari nel chiostro, alla luce del giorno, oppure in refettorio durante il pasto.
Tuttavia, tra il IX e l’XI secolo sempre più abbazie – da San Gallo a Cluny, da Bobbio a Montecassino – diventano centri di raccolta e produzione di volumi.
Il compito della biblioteca, però, non è ancora quello della fruizione ma solo della salvaguardia della cultura scritta. Gli inventari dei libri, dunque, servono a documentare un tesoro e non a orientare la ricerca.
Nel frattempo si vanno sviluppando anche le biblioteche delle cattedrali, alimentate dai vescovi con committenze alle abbazie ma anche a scribi privati. Le loro dimensioni sono comunque più modeste e questo testimonia come le raccolte siano finalizzate all’uso dei libri (liturgico, scolastico o di edificazione) e non all’accumulo patrimoniale; anche se non mancano eccezioni come la biblioteca della Cattedrale di Verona, dotata di un scriptorium che produce oltre 200 volumi.
La biblioteca dell’abbazia benedettina di Melk
L’ultima grande rivoluzione – il passaggio dalla biblioteca di conservazione alla biblioteca di lettura – viene compiuta alla fine del XIII secolo dagli ordini mendicanti (francescani e domenicani, e in seguito carmelitani e agostiniani) che inventano di fatto la biblioteca moderna introducendo la sala di consultazione.
Sotto il profilo architettonico si tratta di un’aula oblunga, percorsa al centro da un corridoio vuoto e occupata nelle due navate laterali da due serie, disposte in file parallele, di banchi con i libri a questi incatenati e offerti allo studio.
Anche il catalogo, di conseguenza, da semplice inventario diventa uno strumento finalizzato a segnalare la collocazione dei libri, e nasce anche il “memoriale”: una scheda sulla quale vengono segnati dal bibliotecario i volumi in prestito.
I libri, oltre che nella sala di consultazione, sono conservati anche in una stanza “segreta”, ben più fornita, dove sono chiusi in armadi. Viene meno, invece, lo scriptorium: i copisti vengono assunti dall’esterno o individuati tra gli stessi frati, che lavorano però in modo individuale e non collettivo.
Il nuovo modello di biblioteca viene recepito in seguito da tutte le istituzioni bibliotecarie: dalle cattedrali alle università fino alle corti laiche ed ecclesiastiche, ma è solo nel tardo Medioevo che si afferma – nel mondo umanistico – l’esigenza di istituire una biblioteca pubblica. Sono sempre più numerosi i lasciti librari effettuati da collezionisti alle istituzioni religiose o ai Comuni, con l’intento di metterli a disposizione di un vasto pubblico individuando una sede adeguata.
Il Salone Sistino (1587-89), enorme aula a due navate totalmente decorate, con i suoi 70 metri per 15 fu per lungo tempo il cuore della Biblioteca Vaticana, la più grande al mondo
Nascono così le “Biblioteche di Stato” come quella dei Medici a Firenze, degli Sforza a Milano, dei Malatesta a Cesena, dei Montefeltro a Urbino e degli Aragona a Napoli, aperte all’uso di dotti, uomini eminenti e cortigiani.
Ed è proprio questo il modello a cui guarda papa Sisto IV quando, con la bolla del 15 giugno 1475, istituisce la Biblioteca Vaticana, destinata a diventare la madre di tutte le biblioteche pubbliche.
Pubbliche fino a un certo punto, come si è detto. E sotto questo profilo la Biblioteca Vaticana è rimasta legata al modello rinascimentale: ad essa tuttora non si accede, infatti, se non per raccomandazione ecclesiastica e specifica missione. Tanto che a criticarne il difficilissimo accesso sarà persino il padre della narrativa italiana – Alessandro Manzoni – che nei Promessi sposi le contrappone quella Ambrosiana, progettata e fondata a Milano dal cardinale Federigo Borromeo, che dispose che fosse consentito a tutti il libero accesso e la consultazione dei volumi conservati.