I viaggi nel Medioevo

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È in libreria I viaggi nel Medioevo (Odoya, 2020) dello storico tedesco Norbert Ohler.

Fonte principale dell’opera sono i diari di viaggio dei viaggiatori e dei pellegrini.

Pubblichiamo un estratto dell’introduzione al volume, dalla quale scopriamo che, rispetto all’antichità, la velocità dei viaggi era diminuita a dispetto di una eterna voglia di mettersi in cammino per mete vicine o lontanissime.

L’autore esamina l’affascinante rete di vie che ancora oggi in parte sono alla base della nostra circolazione stradale.

Analizza motivazioni, pericoli, equipaggiamenti, mezzi di trasporto, locande e innovazioni, insieme agli animali da sella, da tiro o da soma utilizzati e alle regole di ospitalità che tutti avevano il dovere di rispettare.

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Il desiderio di spostarsi in modo più veloce e sicuro deve essere stato particolarmente acuto nell’uomo del Medioevo, anche perché, rispetto all’Antichità, la velocità dei viaggi era diminuita: nel I secolo a.C., Cicerone riceve a Roma quattro lettere dalla Britannia; tre di esse impiegano ventisette giorni, la quarta trentaquattro, benché all’epoca in Gallia non fosse ancora stata terminata la costruzione delle strade romane, né vi fosse un perfetto servizio di corrieri. Milleduecento anni più tardi un espresso da Roma a Canterbury impiegò ventinove giorni, normalmente ci volevano più di sette settimane. Svetonio riferisce che Cesare era spesso più veloce delle voci sul suo arrivo.

L’antica Via della seta

Fino all’era moderna, tali prestazioni rimasero in Europa altrettanto irraggiungibili quanto la qualità delle strade romane. Il Medioevo europeo fu dunque un periodo di decadenza? Per quanto riguarda la circolazione via terra senza dubbio.

I nuovi governatori locali e regionali non disponevano più dell’appoggio finanziario dell’antico grande impero: trascurarono l’indispensabile ordinaria manutenzione delle opere d’arte architettoniche, per non parlare poi della costruzione ex novo di strade, ponti e gallerie. È indicativo che grandi opere architettoniche romane come gli acquedotti fossero chiamati “ponti del diavolo”; si riteneva impossibile che questi fossero opera dell’uomo: doveva essere stato il diavolo ad averli innalzati in una notte. Tuttavia non ci furono solo regressi.

Nel Medioevo, partendo dall’Europa furono colonizzate l’Islanda, la Groenlandia e per un certo periodo addirittura zone del Nordamerica, e furono esplorate la Cina e l’India.

I viaggi per nave di Raimondo Lullo

La seconda data miliare impone un’ulteriore precisazione: l’avanzata dell’Europa oltremare, destinata a cambiare il mondo, fu possibile solo perché erano state costruite navi in grado di affrontare il mare aperto, erano stati perfezionati (o importati da altre culture) gli strumenti nautici, addestrati gli equipaggi, raccolti i capitali; tutto questo fece sì che individui risoluti, in collaborazione con case regnanti o compagnie commerciali disposte ad assumersi i rischi, potessero osare ciò che fino ad allora era stato impensabile.

Spiegare la scoperta dell’America nel 1492 solo con gli spettacolari progressi nella navigazione significherebbe operare un’illecita riduzione della storia. Un tale successo fu possibile solo perché tecnica, diritto, economia e società, quali ambiti complementari, avevano raggiunto un grado di maturazione tale da accelerare il generale processo di sviluppo. Le conquiste – compresi i miglioramenti nel modo di viaggiare – furono favorite dal fatto che il progresso coesisteva con la decadenza, non di rado compensandola.

Da dove traiamo, in genere, le notizie sui viaggi degli uomini? Il Medioevo ci ha lasciato un numero quasi sterminato di fonti, in cui sono menzionati – per lo più incidentalmente – gli aspetti particolari che si riferiscono al viaggio: biografie, cronache, fatture, documenti liturgici, certificati, pratiche, registri doganali, rapporti sulla costruzione di ponti e ospizi, reclami riguardanti albergatori, resoconti dei viaggi, regali. Tali documenti sono di valore inestimabile, ma non bisogna sottovalutarne le insidie celate dietro la lingua, la rappresentatività, come pure le prevenzioni e gli interessi degli autori in possesso di una cultura letteraria.

Per lunghi secoli questi documenti furono scritti nella lingua dei dotti, i quali si servivano di vocaboli latini per designare cose aventi solo una certa analogia con i corrispondenti oggetti antichi, come un esempio può illustrare: reda designa nel latino classico una carrozza di lusso a quattro ruote; nel Medioevo, a nord delle Alpi il termine reda è spesso usato per indicare un carro a un solo asse o una lettiga. Una componente non irrilevante – il fatto di avere quattro ruote – manca quindi del tutto, in cambio è reso qualcos’altro: sia nella lussuosa reda, sia nella lettiga, si viaggiava relativamente comodi. Quanto viene detto di Tolosa nel XII secolo vale anche per Spira nel secolo XIII?

Le fonti narrative sono molto più ricche di valutazioni di quanto non lo siano ad esempio i documenti ufficiali; d’altro canto spesso non è possibile stabilire ciò che è luogo comune, pregiudizio o idealizzazione. A questo si aggiunge il fatto che molti autori trascurano proprio ciò che noi vorremmo sapere. Nella biografia di Bennone di Osnabrück, ad esempio, a proposito delle vicissitudini e delle privazioni che il vescovo dovette sopportare durante un viaggio verso Roma al tempo della lotta per le investiture si dice:

Se volessimo raccontare nei particolari queste e tutte le altre cose che egli fece allora, allungheremmo la nostra esposizione senza alcun profitto

Anche minore è l’interesse di molti autori nei confronti dei realia. I cronisti dell’epoca evidentemente non erano affatto consapevoli di quello che agli occhi dello storico di oggi, a posteriori, può sembrare una rivoluzione: ad esempio l’invenzione della staffa, che permetteva di montare a cavallo più comodamente, o la realizzazione di carri con l’asse anteriore mobile; perlomeno non si riteneva che tali innovazioni meritassero di essere tramandate.

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Le fonti scritte sono integrate dalle miniature sui manoscritti medievali, dai sigilli, dalle monete, dalle sculture. Ma anche le fonti figurative destano interrogativi particolari: la nave o il carro trainato da cavalli che l’artista ha voluto riprodurre sono proprio quelli che si usavano ai suoi tempi? O forse gli interessava solo un prototipo, per il quale esisteva una raffigurazione convenzionale? Una nave doveva essere rappresentata solamente in quel certo modo? Come nelle opere letterarie esistono luoghi comuni (ad esempio per descrivere un santo, un essere malvagio, un paesaggio ameno), così ve ne sono anche nelle arti figurative, diversi a seconda dell’epoca, della località o del paese e del committente.

Il numero di manoscritti medievali, di illustrazioni e sigilli non può essere aumentato (se si prescinde dal fatto che ogni tanto in qualche biblioteca o archivio si rinviene un codice, o sotto vari strati di tintura viene alla luce un quadro); in cambio danneggiamenti, incendi, cattiva manutenzione causano spesso perdite irreparabili. Alla diminuzione complessiva del patrimonio scritto si contrappongono le fonti archeologiche, il cui numero e la cui qualità sono pian piano cresciuti in modo straordinario; grazie alle sofisticate tecniche di recupero e ai metodi di interpretazione del materiale, si è giunti a conoscenza di ambiti sui quali le fonti scritte si pronunciano solo di rado, inclusa la realtà quotidiana del viaggio nei millenni passati.

Grazie alle scoperte archeologiche subacquee, oggi siamo bene informati sull’aspetto, le dimensioni, il carico e l’equipaggiamento tecnico delle imbarcazioni antiche e medievali. Anche qui, a dire il vero, l’interpretazione dei reperti crea abbastanza spesso delle difficoltà: la nave di Oseberg, recuperata nel 1903, era una nave di rappresentanza, non progettata per gli usi quotidiani, o è il modello tipico di centinaia di altre navi?

La nave vichinga di Oseberg (Museo delle navi vichinghe di Oslo)

L’interpretazione del reperto è ancora più difficile nel caso di arredi funerari: un carro oppure una nave rappresentano un dono votivo, un giocattolo o la riproduzione naturalistica di un oggetto d’uso comune?
Se un giocattolo presenta dettagli degni di nota, allora bisogna chiedersi: è possibile che le innovazioni siano state in un primo tempo sperimentate per gioco? Anche nel Medioevo e nell’Antichità giochi e giocattoli sono stati importanti per l’apprendimento e le invenzioni?

L’alterabilità del materiale complica l’interpretazione del reperto da parte dell’archeologo: molti oggetti importanti per il viaggio erano di materiale facilmente deperibile o addirittura infiammabile. Ponti, case, carri e navi, e a volte anche le fortificazioni stradali, erano fabbricati in legno; vestiti, carte geografiche, scarpe, briglie e finimenti per le cavalcature e le bestie da tiro erano di tessuto o di pelle. Essi si sono logorati con l’uso, sono marciti, bruciati, sono andati distrutti nelle inondazioni o nei naufragi. Alcuni frammenti trovati nelle tombe spesso devono essere completati perché sia possibile interpretarli. Che gli esperti poi si trovino d’accordo o meno in queste operazioni di completamento è un’altra questione.

Norbert Ohler

Norbert Ohler
I viaggi nel Medioevo
Odoya, 2020
Per ulteriori informazioni: www.odoya.it
papetti@odoya.it


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