Perugino criminale

da

Autoritratto Perugino

Raffaello o Lorenzo di Credi, Ritratto del Perugino, Galleria degli Uffizi, Firenze

Un episodio da romanzo criminale nella vita di Pietro Vannucci, detto il Perugino. Lo riporta Elio Clero Bertoldi in un articolo pubblicato sul Corriere dell’Umbria. L’episodio spunta dagli atti di un processo celebrato nel 1487 a Firenze.

“Divin pittore” di dolci Madonne nascondeva un carattere cattivo, iracondo, vendicativo, persino criminale. Nell’armadio di Pietro di Cristoforo Vannucci, detto il Perugino (1450-1523), compare uno scheletro piuttosto ingombrante. Non sono supposizioni, ma elementi corroborati da prove inconfutabili, custodite nell’Archivio di Stato di Firenze: il pittore umbro fu il mandante e partecipò di persona, con un suo amico e collega, anche lui perugino, ad un agguato notturno con feroce aggressione, nella quale la vittima, raggiunta da numerose bastonate, riuscì a salvarsi dalla morte solo per puro caso.

Firenze, dicembre del 1486. Il Perugino, iscritto alla matricola dei pittori del capoluogo umbro e alla compagnia fiorentina di San Luca, è appena tomato nella città del Giglio dopo molti anni rispetto al periodo giovanile in cui frequentava la bottega del Verrocchio, assieme ad artisti famosi come il Botticelli, Leonardo da Vinci, Lorenzo di Credi, Filippino Lippi, Signorelli.

In città si scontra con un suo conterraneo, suo nemico e rivale e, per sfogare il proprio malanimo, decide di tendergli un tranello. Il Perugino si porta dietro, nell’impresa, Aulista D’Angelo, perugino pure lui e pittore di scarso valore, ma ben aduso a lavorar di bastone e di coltello, possedendo un fedina penale – diremmo oggi – in cui compaiono furti, ferimenti e persino omicidi.

I due, armati di bastone e travestiti, si appostano in piena notte lungo una stradina del quartiere di San Pietro Maggiore. La vittima designata non ha il tempo di difendersi: viene colpito da una scarica di bastonate da parte dei misteriosi aggressori, che lo lasciano a terra mezzo morto e sanguinante.

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Pietro Perugino ritratto da Francesco delle Opere

Il brutale agguato non passa inosservato e impunito. Il Vannucci e il D’Angelo sono presto scoperti, imprigionati e trascinati a giudizio. I due compaiono a processo il 10 luglio 1487 davanti al Tribunale degli Otto uomini di custodia e di balia. Il Perugino confessa e viene riconosciuto colpevole, esclusa l’intenzione di uccidere, ad una multa di venti fiorini d’oro (con lo sconto della metà in caso di pagamento immediato); il D’Angelo, non esclusa la volontà omicida, subisce la condanna a quattro tratti di fune (tortura molto dolorosa), alla prigionia nel Carcere “Stincarum civitatis Florentiae”, “fino alla restituzione delle cose rubate e di valore” e al confino con promessa, sotto giuramento, che non farà del male al suo ex amico e complice.

Già, perché Mastro Pietro non solo aveva ricostruito tutto per filo e per segno, ma aveva aggravato la posizione del complice, sostenendo che il D’Angelo avrebbe voluto uccidere la vittima e che era stato lui, a fatica, a dissuaderlo. n correo, a sua volta, gli aveva lanciato contro accuse di infamità e pesanti minacce di ritorsione.

Gli atti del processo non chiariscono il movente dell’azione criminosa. Il cancelliere riporta solo che l’agguato venne organizzato “occasione et causa rei turpis”. Pare, insomma, che tutto sia nato dai begli occhi di una donna contesa tra due amanti (il pittore e la vittima).

Questo “precedente” non impedì a Pietro di proseguire la sua eccezionale carriera di pittore, anche per le amicizie e le protezioni che godeva nella cerchia di Lorenzo il Magnifico e che forse intervennero a suo favore durante le indagini e il processo.

Pietro Vannuci, carico di gloria, mori, trentasei anni più tardi, per le “febbri” (forse dovute alla peste che imperversava) e “senza sacramenti” a Fontignano, nel contado perugino, dove era impegnato ad affrescare una chiesa, e venne sepolto, in un primo momento, vicino alla chiesetta della Nunziata, ma in terreno sconsacrato. Soltanto più tardi i figli fecero traslare i miseri resti nella chiesa di Sant’ Agostino.

Elio Clero Bertoldi

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