A partire dal basso Medioevo i musicisti, i cantori, i giullari e gli intrattenitori, vennero progressivamente integrati nella società e i loro mestieri non vennero considerati come peccaminosi ed immorali.
Sotto la spinta di una progressiva laicizzazione sociale e grazie anche all’opera dei confessori che miravano ad integrare nella società tutte le nuove classi emergenti tramite penitenze più lievi che non erano più riferite al peccato ma bensì al peccatore, ben presto tutti i mestieri divennero leciti.
Gli artisti oltre ad essere tollerati, già a partire dal XI-XII secolo, godevano anche di una certa libertà intellettuale.
Il poeta che componeva in versi poteva spesso trovarsi relazionato all’ambiente universitario e nello stesso tempo essere da questo completamente indipendente: si trattava dei cosiddetti clerici vagi, studenti senza fissa dimora discendenti dei goliardi e antenati della bohème studentesca.
“Essi si spingevano da un’università all’altra mossi dal desiderio di avventura e arricchimento intellettuale fine a sé stesso, seguendo il maestro che li aveva più entusiasmati, accorrendo verso ciò di cui più si parlava” (Jacques Le Goff, Genio del Medioevo, Milano, 1959).
Impetuosi, avventurosi, arditi: erano una classe indisciplinata che animava la vita delle città nel momento della crescita economica e urbana del XII secolo.
L’evolversi dell’atteggiamento verso intrattenitori, musici, acrobati e altri artisti si percepisce soprattutto se andiamo a guardare la condizione dei mestieri che fino almeno al XII secolo erano considerati “pericolosi” perché non si potevano esercitare senza cadere nel peccato capitale della lussuria.
I giullari ad esempio si distinguono all’inizio del XIII secolo in tre tipologie. Scrive Le Goff: “Gli acrobati che si abbandonano a vergognose contorsioni, si spogliano senza pudore o si camuffano con dei travestimenti orribili; i parassiti delle corti e dell’entourage dei grandi, che diffondono discorsi calunniosi, insinuanti, inconcludenti, tesi unicamente a dividere e a infamare ed infine i musici il cui scopo è allietare il loro auditorio”.
Se le prime due categorie sono condannate, la terza si distingue da coloro che incitano all’abbandono poiché comprende coloro che cantano le canzoni epiche e le vite dei santi, fatte apposta per consolare i tristi e gli angosciati.
Solo i musici dunque svolgono un’attività consentita. Attraverso questa porta tuttavia a poco a poco tutti i giullari si insinueranno nel mondo sempre più esteso delle professioni lecite acquisendo una libertà d’espressione sempre maggiore.
Si moltiplicano inoltre gli aneddoti che contribuiscono a giustificare e poi a integrare nel tessuto sociale tutti i mestieri.
Per quanto riguarda la categoria degli intrattenitori nota è la storia del giullare che interroga Alessandro III (1159 – 1181) sulla possibilità di salvarsi. Il pontefice gli domanda se conosce altro mestiere e, alla risposta negativa del giullare, lo rassicura che può vivere del suo mestiere purché eviti comportamenti equivoci e osceni.
Diversamente, all’inizio del XII secolo Honorius d’Autun aveva posto la questione in termini del tutto drastici: alla domanda “Può un menestrello salvarsi?”, l’abate risponde in maniera perentoria: “No. I menestrelli sono ministri di Satana. Ora ridono, ma quando verrà per loro l’ultimo giorno sarà Dio a ridere di loro”.
Sempre meglio integrati o tollerati dalla società i musici girovaghi rallegravano le feste popolari e, sebbene guardati ancora in molti casi con sospetto, erano richiesti e pagati per animare fiere, tornei e mercati.
Venivano attesi dalle genti che popolavano i villaggi e le città che stavano rifiorendo economicamente proprio in questo periodo, costituendo una sorpresa, a volte dal sapore dissoluto e peccaminoso, che interrompeva la routine della comunità, portando piacere per alcuni, disturbo e noie per altri.
I menestrelli e i chierici vaganti infatti di solito conducevano una vita dissoluta, frequentando taverne, prostitute e praticando il gioco d’azzardo di cui molti di loro erano esperti.
In questo periodo abbiamo una larga diffusione di musica e letteratura profana che veniva composta o eseguita da girovaghi o trovatori.
In un’Europa ancora poverissima ma avviata a un’esponenziale crescita economica e demografica nel XI e XII secolo, le stradine strette e sinuose che seguivano le rotte dei canali, potenza motrice della nascente industria urbana, le piazze dei mercati e le sempre più frequenti fiere pullulavano di musica cantata e suonata da menestrelli girovaghi, saltimbanchi, danzatori e persino giocolieri.
Queste figure spesso si distinguevano poco tra di loro poiché a tutti questi intrattenitori, che animavano piazze o tornei, erano richiesti compiti diversi.
Secondo alcune disposizioni vigenti nella Germania tardo medievale, come spiega H. Raynor (Le Stanze della Musica. Artisti e musicisti a Bologna dal ‘500 al ‘900, Silvana Editoriale, Milano, 2002, p. 17) il menestrello doveva “saper inventare, costruire rime, destreggiarsi come schermidore; sapere suonare bene tamburi, cimbali e ghironda (bauernleier); saper lanciare in alto piccole mele e afferrarle con la punta di un coltello; imitare il canto degli uccelli, eseguire trucchi con le carte e saltare attraverso i cerchi; suonare il clavicordo e la chitarra, suonare la crotta a sette corde, accompagnare bene la fibula, parlare e cantare piacevolmente”.
L’artista girovago godeva insomma di una certa libertà ma per guadagnarsi da vivere era costretto a saper fare un po’ di tutto: il cantante, il cantastorie, lo strumentista, il giocoliere.
Gli artisti girovaghi percorrevano l’Europa in lungo e in largo seguendo le vie dei pellegrinaggi o le grandi strade mercantili che spesso avevano tratti in comune: qui viaggiavano uomini, soldati e merci.
Insieme a loro circolavano idee nuove e s’intrecciavano culture lontane e diverse, le stesse che contribuirono in modo determinante alla originalità e alla ricchezza delle forme espressive del tardo Medioevo.
I trovatori della Provenza o dell’Aquitania gareggiavano in bravura con i trovieri della Bretagna o della Piccardia e, più tardi, con i Minnesanger tedeschi.
Tra i chierici vaganti si annoverano anche molti seguaci degli ordini pauperistici e dei movimenti ereticali che predicavano l’altruismo, una vita modesta, e soprattutto la preminenza delle ricchezze spirituali sopra quelle materiali.
Gli Spirituali francescani erano i più attivi in questo genere di attività ma tra i menestrelli religiosi itineranti c’erano anche altri francescani scalzi che venivano chiamati joculatores Dei.
Nelle loro laudi svilupparono una canzone religiosa di stampo popolare che seguiva lo schema dei componimenti musicali dei jongleurs. Seguivano la tradizione “saltatoria”, risalente a sua volte ad antiche danze propiziatorie per la fertilità dei campi e si esibivano nelle piazze adiacenti le chiese o sui sagrati degli edifici religiosi.
La stagione “saltatoria” inoltre diede vita a numerose e gioiose occasioni d’incontro collettivo, come le “feste dei folli” o le “feste dell’asino” in cui erano palesi le contaminazioni tra sacro e profano: veri e propri “carnevali” in cui ci si mascherava, si scambiavano i ruoli e in cui non erano esclusi travestimenti, nudità e anche atti osceni, sulla falsariga di celebrazioni folkloristiche legate alla fertilità e mai sopite nelle campagne ma che ora transitavano nel tessuto urbano delle fiere e dei mercati popolari.
Con il consolidamento del potere politico urbano e ancora di più nell’epoca del passaggio dai Comuni alle Signorie, anche i menestrelli cominciarono a vivere nelle città.
Alcuni di loro continuarono ancora per un secolo a girovagare, godendosi in miseria la propria libertà, ma la maggior parte preferì una vita più sicura e stabile e prese servizio presso qualche corte o all’interno delle nascenti cappelle musicali.
Con l’avvento delle Signorie nelle famiglie aristocratiche e nelle chiese più importanti, la presenza di musici stabili venne considerata una necessità.
L’evoluzione nella musica, dalla monodia alla polifonia, proprio allora favorirà la nascita di gruppi e cantori in pianta stabile: musicisti professionisti che andranno a formare l’organico delle cappelle musicali.
Per le sacre funzioni domenicali, per le altre numerose festività religiose o per gli intrattenimenti profani all’interno delle corti, si rese necessario l’impiego di un gruppo, più o meno consistente, di cantori e di strumentisti che andavano a formare la “cappella”, termine derivato dalla cappa o mantello di San Martino, la reliquia più venerata in Francia, che in battaglia precedeva gli eserciti e sulla quale si pronunciavano i giuramenti più solenni.
Lo stesso nome veniva così a designare sia la sacra reliquia sia il personale richiesto per un culto o per l’intrattenimento di un nobile.
La figura dell’artista e del musico andava via via acquisendo un maggior prestigio sociale. Ma la paga era ancora molto bassa e i compiti non ben definiti.
La durata dell’incarico poteva dipendere dalla stima, dalla simpatia o dal patrimonio del mecenate. Di fatto, il musico e l’artista era comunque alla mercé del suo padrone.
Bisognerà aspettare l’Ottocento e l’avvento dell’individualismo romantico perché il musicista o l’artista ritrovino lo slancio per vivere ed esprimersi liberamente. Ma il prezzo da pagare era comunque quello di una vita fatta di disagi e di stenti economici.
Nella società ancora spiritualizzata del tardo Medioevo, nel paesaggio dei secoli che precedettero l’età moderna, la povertà non doveva essere una condizione così opprimente come nella civiltà industriale dell’Ottocento: il menestrello poteva ancora scegliere di vivere con pochi mezzi per godere della semplicità del suo modus vivendi e della sua singolare condizione di artista “libero”, ispirato da Dio o dall’amor cortese.
Elisabeth Mantovani
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