L’oro del Reno

da

Cercar tesori. Tra Medioevo ed Età Moderna (Laterza, 2021) è il titolo di un appassionante saggio della storica dell’Arte medievale Allegra Iafrate. L’ossessione per la ricerca di ricchezze mitiche svela infinite sorprese, dalla Scandinavia al mondo arabo, dalla Persia alle Colonne d’Ercole. Tra sogni e visioni, riemerge l’intricata vicenda di un tesoro perduto, cantato nei secoli, che dal Reno al Busento continua a sussurrare la sua leggenda.


Nel corso di una battuta di caccia, gli dèi Odino e Loki uccidono una lontra nei pressi di una cascata. Ma l’animale è in realtà Ótr, creatura capace di mutare pelle e apparenza. Suo padre Hreidmar chiede allora un guidrigildo agli dèi: abbastanza oro da poter essere contenuto nella pelle dell’ottaria e altrettanto da coprirla interamente.

Loki cattura il nano Andvari e lo costringe a consegnargli il suo tesoro, col quale paga il debito di sangue. Ma ad Hreidmar non basta ancora, perché sotto il cumulo di prezioso metallo si vede spuntare il pelo delle vibrisse della lontra. Per coprirlo, Odino ci aggiunge allora l’ultima cosa rimasta al nano: l’anello Andvaranaut, dotato del magico potere di generare altro oro. Dall’alto di una roccia, Andvari scaglia allora una maledizione. Il tesoro porterà morte a due fratelli e lotte cruente fra tutti i suoi possessori, e non servirà a nessuno.

Gunther ordina ad Hagen di sommergere il tesoro nel Reno (Peter von Cornelius, 1859)

Le sue parole vanno prontamente a effetto. Fafnir, il secondo figlio di Hreidmar, uccide il padre in un alterco per il guidrigildo. Trasformatosi in un drago, si ritira in un luogo desolato a protezione del tesoro. Suo fratello Regin, non osando sfidarlo apertamente, gli manda contro il giovane guerriero Sigurd. Nascostosi in una buca lungo il percorso che il drago fa per andare a bere, il giovane uccide la bestia trafiggendole il cuore. Il sangue del drago con cui Sigurd entra in contatto gli dà il potere di capire il linguaggio degli uccelli, dai quali apprende che Regin intende nuocergli. E così è lui ad ammazzarlo, facendo avverare la profezia. Ma lo attende una sorte simile, ora che è divenuto possessore del tesoro.

Accolto alla corte di re Gunnar e dopo averne sposato la sorella Gudrun, viene fatto uccidere per ordine della regina Brunilde che si ritiene offesa dal guerriero. Dopo la morte dell’eroe, il re e suo fratello Högni nascondono il tesoro nel fiume Reno e vengono a loro volta ammazzati dal re unno Atli, che ha sposato la vedova di Sigurd. Neanche lui scoprirà il nascondiglio e verrà infine massacrato dalla moglie.

La storia sanguinosa dell’oro del Reno ci è tramandata da due tradizioni abbastanza differenti l’una dall’altra. Questo spiega anche perché i protagonisti sono ricordati con nomi diversi, a seconda che la fonte sia norrena o tedesca. Sigurd, Gunnar, Högni, Gudrun, diventano Sigfrido, Gunther, Hagen, Crimilde, e così via.

La versione nordica si può leggere nella cosiddetta Edda antica, una raccolta di mitologia norrena scritta in versi; nel commento a questo materiale poetico, detto Edda di Snorri dal nome del suo autore; e nella Saga dei Volsunghi, in prosa. Tutti questi testi sono stati scritti in Islanda nel corso del Duecento sulla base di materiale vecchio di secoli, patrimonio letterario dei clan e delle tribù germaniche che migrarono in Scandinavia.

Illustrazioni tratte dal manoscritto dell’Edda di Snorri, AM 738 4to (“Edda oblunga”). Da sinistra, il frassino cosmico, Yggdrasil, serpente del Mondo di Mezzo (Miðgarðsormur), Baldur il buono e il dio guardiano Heimdallur

L’altra versione, in tedesco, è tramandata nel celebre poema La canzone dei Nibelunghi, composto nel XIII secolo ma, come sempre, basato su materiale ben più antico. La storia che racconta è un po’ diversa. Ritroviamo molti elementi ma combinati in altro modo. Quando compare sulla scena, alla corte del re dei Burgundi Gunther, Sigfrido ha già sconfitto un drago, facendo il bagno nel suo sangue, e suo è anche il tesoro dei Nibelunghi.

Come l’eroe ne sia entrato in possesso viene raccontato a Gunther dal vassallo Hagen all’apparire sfolgorante di Sigfrido. L’arrivo dell’eroe, accompagnato da dodici uomini del suo seguito, è infatti accolto con meraviglia e curiosità. Abiti di oro rosso, scudi lucidi, persino i cavalli hanno briglie dorate e finimenti di seta. Un tale dispiego di ricchezza deve essere spiegato. Chiamato a far da arbitro nella contesa fra i due figli del re dei Nibelunghi, incapaci di dividersi il tesoro della loro stirpe in modo pacifico, Sigfrido fa le parti, lasciando però insoddisfatti i due sovrani che si scagliano allora contro di lui.

Dopo averli uccisi, viene attaccato dal nano Alberico, fedele servitore dei Nibelunghi che possiede il mantello dell’invisibilità. Sigfrido ha la meglio ma poi, in cambio dell’oggetto magico, risparmia il nano e, vista la lealtà che ha dimostrato, lo mette a guardia dell’oro. Al giovane cavaliere che ha compiuto imprese così straordinarie il re concede in moglie Crimilde, sua sorella, e chiede aiuto per conquistare Brunilde, che gli si oppone fieramente.

Morte di Sigfrido (illustrazione del Manoscritto K, 1480)

È a causa del ruolo avuto da Sigfrido nella seduzione della donna per conto del sovrano che si scatena poi la furia della regina che porterà alla morte dell’eroe per mano di Hagen. E sarà sempre il vassallo a rubare l’oro di Sigfrido alla sua legittima erede Crimilde e a gettarlo nel Reno per impedire che la donna possa raccogliere un esercito e vendicarsi.

Gli anni passano ma lei non dimentica. Assieme ad Attila, re degli Unni e suo nuovo marito, per il battesimo del primo figlio invita i Burgundi a un banchetto. Nessuno di loro esce vivo dalla reggia dove si compie una micidiale carneficina. Il segreto del tesoro dei Nibelunghi muore con Hagen. Ne resta solo la descrizione che ce ne dà La canzone: un cumulo enorme di oro e pietre preziose, in tali quantità che per portarlo via dal cuore della montagna dove Alberico lo custodisce, ci vogliono dodici carri e tre viaggi ciascuno.

Fra le molte ricchezze se ne menziona una sola, piuttosto misteriosa: una verga d’oro, Wunsch, parola che contiene in sé la radice del “desiderio”, del “volere”, e che – dice la canzone – avrebbe permesso il dominio su tutto il genere umano. Balena qui l’idea di un oggetto potente, che assomiglia forse al magico anello Andvaranaut delle saghe norrene; magari la bacchetta poteva condurre a trovare altri tesori, moltiplicando quindi in eterno la ricchezza. Non lo sappiamo. Ma è un tratto familiare, questo dell’abbondanza riproduttiva, tipico di altri oggetti magici incontrati anche nel folklore e nelle saghe celtiche, come i calderoni che sempre si riempiono.

Il nucleo storico a cui le leggende della saga germanica sono ispirate è da cercare fra V e VI secolo, lo stesso periodo in cui prendono forma le prime narrazioni compiute sulle sorti del bottino di Gerusalemme. In particolare, la disfatta del regno burgundo di Worms capeggiato da Gundaharius, avvenuta nel 437 ad opera del generale romano Ezio e degli Unni, suoi alleati, fornisce lo spunto per le vicende di Gunnar/Gunther e di Atli/ Attila.

Fra le identificazioni più affascinanti, poi, c’è quella di Sigfrido con il re merovingio Sigeberto di Austrasia che storicamente sposò Brunilde, figlia del re visigoto Atanagildo.

Gli studiosi non sono tutti d’accordo con questo approccio. Occorre molta cautela nel voler trovare paralleli precisi fra gli elementi letterari e quelli storici, perché le saghe rielaborano materiale di vario tipo, innestando su fatti realmente accaduti anche racconti simbolici le cui origini si perdono nella notte dei tempi. E tuttavia non si può negare che spulciando le opere di Gregorio di Tours, di Procopio di Cesarea, di Giordane, di Paolo Diacono, di Fredegario – tutte fonti che descrivono le vicende dei Goti, dei Franchi, dei Burgundi nel corso dell’Età tardoantica – emergono delle somiglianze interessanti.

Molti degli episodi che si leggono nelle cronache, ricombinati e in parte trasfigurati, trovano riscontro nella narrazione epica in cui si muovono i personaggi del ciclo nibelungico.

È dalle corti dei regni romano-barbarici che promana l’atmosfera di fondo di queste saghe: il tema del valore guerriero, l’onore, le faide che devastano interi clan, divisi tra vincoli di sangue e di fedeltà, gli amori cruenti, le incerte alleanze matrimoniali e, soprattutto, l’ossessione per il metallo prezioso e scintillante, che non si spende ma si accumula per prestigio e che diventa garanzia del potere del sovrano. Il tesoro simboleggia e incarna lo status regale, ne è pegno e testimonianza.

Morte di Alarico, seppellito nel letto del fiume Busento (Heinrich Leutemann, 1824-1904)

Questo è un tratto tipico delle popolazioni barbariche, che giudicano un guerriero dalla bellezza del suo corredo e che proprio nell’oreficeria – arte leggera, nomade per eccellenza – hanno lasciato i loro migliori capolavori. Qualcuno pensa addirittura che sia la memoria del sontuoso corredo funerario di Alarico, che si vuole sepolto nelle acque del Busento, ad aver fatto nascere in seno alle popolazioni germaniche la leggenda del tesoro gettato nel fiume.

Per uno di quei misteriosi paradossi della storia, nell’oro del Reno – che è stato usato, nel tempo, anche per costruire il mostruoso mito germanico della razza – brillerebbe quindi anche il ricordo di quello trafugato agli Ebrei di Gerusalemme secoli prima e poi razziato dal re goto. Se tale collegamento fra i due fiumi è destinato a rimanere solo una suggestione, impossibile da provare, qualcos’altro, invece, resta davvero a testimoniare una sorta di legame segreto e inquietante fra questi due mondi. Il bottino predato da Alarico, quello che Goebbels chiamava il “tesoro dei Goti” includendolo fra i simboli del Reich, torna infatti violentemente di moda col nazismo, che cerca le radici ariane della “razza” e le trova, esaltate, nei popoli che per primi hanno sconfitto Roma.

È lo stesso Hitler ad affidare la ricerca del perduto corredo di Alarico ad Heinrich Himmler, che nel 1938 scese a Cosenza per capire se dalle acque del fiume calabro potesse uscir fuori qualcosa. Dal Reno al Busento, l’oro perduto continua a sussurrare la sua leggenda.

Allegra Iafrate

Allegra Iafrate
Cercar tesori
Tra Medioevo ed Età Moderna

Laterza, 2021
Per maggiori informazioni: scheda del libro

error: Tutti i contenuti di questo sito web sono protetti.