Lechfeld, quando Ottone salvò l’Europa dagli Ungari

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Miniatura medievale con Ottone I in battaglia

Il 10 agosto del 955 il re di Germania Ottone I fermò, grazie alla sua cavalleria pesante, le orde magiare che terrorizzavano il continente con le loro scorrerie. Scrivendo la parola fine su un incubo che durava da oltre un secolo, e aprendosi la strada per la corona imperiale.

De sagittis Hungarorum libera nos, Domine, o Signore difendici dalle frecce degli Ungari. Questa vibrante preghiera, contenuta in un manoscritto modenese, riflette l’ondata di terrore che tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo percorse l’Europa centro-meridionale a causa degli Ungari, un insieme di tribù pagane di origine ugrofinnica provenienti dalle steppe euroasiatiche. Per oltre un secolo esse dilagarono facilitate dallo stato di profonda crisi in cui versavano le strutture del vecchio impero carolingio, dilaniate da continue lotte per la successione. Dopo aver gettato intere zone nella più completa prostrazione ed essersi spinti a saccheggiare e incendiare città importanti come Pavia, a bloccare la minaccia fu il re di Germania Ottone I, che il 10 agosto 955 a Lechfeld, nei pressi di Augusta, inflisse agli Ungari – o Magiari – una rovinosa e determinante sconfitta. I superstiti, costretti alla fuga, ripararono in Ungheria dove mezzo secolo dopo il loro capo Vaik, convertitosi al Cristianesimo e battezzato con il nome di Stefano, avrebbe dato vita al regno ungherese, destinato a rivestire una importanza decisiva sullo scacchiere dell’Europa orientale. Grazie a questa decisiva vittoria, Ottone si aprì inoltre la strada per Roma, dove avrebbe cinto di lì a poco la corona imperiale.

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Affresco di un guerriero ungaro

Un popolo spietato e feroce La composizione etnica degli Ungari era variegata e rifletteva la mutevole e travagliata storia delle steppe, che nei secoli avevano offerto ospitalità dapprima agli Sciti e ai Celti (V secolo a.C.), poi dal 9 al 433 d.C., erano state conquistate e organizzate in provincia romana (la Pannonia), infine dopo il ritiro delle legioni avevano visto il passaggio dei barbari diretti in Occidente: Unni, Alani, Vandali, Ostrogoti, Gepidi e Longobardi. Quando questi ultimi, nel 568, si trasferirono in Italia, le pianure pannoniche furono occupate dagli Avari fino alla loro sottomissione da parte di Carlo Magno intorno all’anno 800. Da allora in poi, tre potenze diverse avevano puntato gli occhi su quella zona, ritenuta strategica in quanto posta a cuscinetto tra l’Occidente e le immense distese asiatiche: l’impero carolingio, quello bulgaro e il regno moravo creato da Rotislao (846-870) e consolidato dal successore Svatopluk (870-894) dopo la sua conversione al Cristianesimo. Ma mentre i missionari Cirillo e Metodio evangelizzavano i moravi e gli altri slavi e portavano loro le Sacre Scritture grazie all’alfabeto da loro stessi ideato per traslitterarne la lingua (i caratteri “cirillici”, appunto), all’orizzonte comparvero dal nulla gli Ungari. Queste tribù non controllavano un territorio stabile né possedevano un impero, ma vivevano in stato nomadico solcando le pianure orientali alla ricerca di pascoli e bottino: si spostavano di solito in primavera, quando le condizioni climatiche rendevano agevole muoversi a cavallo, fermandosi invece durante l’inverno. Dopo aver compiuto qualche estemporanea scorreria ai confini con l’Europa, il primo decisivo contatto avvenne nell’892 quando l’allora re di Germania e futuro imperatore Arnolfo di Carinzia, impegnato ad estendere la sua influenza verso est, ne cercò l’appoggio contro i Moravi. Gli Ungari si allearono però quasi subito con Bisanzio e, grazie all’intraprendenza del loro sovrano Arpad, nell’896 cacciarono le stirpi slave e ne occuparono il territorio, creando il nucleo della futura nazione ungherese. Da lì misero gli occhi sul cuore del Continente. A differenza delle popolazioni che secoli addietro avevano invaso l’Europa causando la fine dell’impero romano d’Occidente, gli Ungari non avevano però alcun interesse a stabilirvisi, erano mossi solo dall’intenzione di far bottino. Alla morte di Arnolfo, nell’899, investirono dunque con una serie di tremende razzie dapprima l’Italia settentrionale e centrale, poi la Lorena e la Borgogna, la Germania, la Scandinavia e il Mezzogiorno finché nel 934 arrivarono a minacciare la stessa Costantinopoli.

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Schema delle incursioni ungare fra i secoli IX e X

Incursioni devastanti Le incursioni ungare erano improvvise, rapide e devastanti. Sfruttando la velocità dei cavalli, si gettavano su luoghi poco difesi ma ricchi come abbazie e conventi, oppure fattorie e villaggi privi di fortificazione. I cavalieri ungari, armati alla leggera, erano arcieri senza pari: le frecce colpivano precise e micidiali grazie alla funzionalità e all’elasticità garantita dall’arco prediletto, quello ricurvo composito. Evitavano invece di norma sia le città dotate di mura sia i luoghi fortificati, così come non ingaggiavano battaglie campali, visto che per armamento e tattica non potevano né competere con l’organizzazione degli eserciti europei, né reggere alle cariche della loro cavalleria pesante. Gli Ungari poterono approfittare della crisi politica e colpire indisturbati gettando interi territori come il Friuli (attraversato proprio da quella via vel strata Ungarorum che percorrevano da e per la Pannonia) nella più totale prostrazione economica e demografica. Nell’899, sul Brenta, assalirono e annientarono l’esercito del re d’Italia Berengario I, poi misero a ferro e fuoco tutta l’Italia settentrionale, da Treviso a Vicenza, da Bergamo e Vercelli fino al Gran San Bernardo. Infine, rientrando lungo la via Emilia, saccheggiarono Modena, Reggio, Bologna e la ricca abbazia di Nonantola. Lo stato in cui versavano città e campagne è eloquentemente testimoniato dall’abate di San Gallo, Salomone III di Costanza, che visitò l’Italia dopo la razzia del 904: “Ci stanno dinanzi – scrisse – le città prive di cittadini ed i campi desolati perché senza coltivatori. Le pianure biancheggiano delle secche ossa dei morti; non credo che i vivi eguaglino il numero di quelli che furono uccisi”.

A volte però gli Ungari erano chiamati a dar manforte alle ambizioni degli stessi conti, duchi e marchesi in lotta fra loro per la successione al trono d’Italia e imperiale. Nel 924, ad esempio, lo stesso Berengario, che pure era stato sconfitto da loro sul Brenta, non esitò a chiamare in aiuto un contingente di 5mila mercenari Ungari perché lo aiutassero contro il rivale Rodolfo di Borgogna. Le orde si riversarono su Pavia, città regia e sede delle incoronazioni italiche, e la tempestarono di dardi infuocati. L’apocalittico assedio si concluse con un’ecatombe e con la semidistruzione della città (in cui morì anche il vescovo) e costò poco dopo la vita all’incauto Berengario, cui fu addossata la responsabilità dell’eccidio: fu eliminato da una congiura di palazzo.

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Ottone I nella battaglia di Lechfeld, vicino ad Augusta (Germania)

Una scelta coraggiosa Nel 954 le orde di Ungari, forse 50mila uomini, attraversarono dunque per l’ennesima volta l’Europa seminando il panico. Ad accoglierli, stavolta in Germania, fu Corrado il Rosso, duca di Lotaringia, che si era rivoltato contro il suo re, Ottone I di Sassonia, nel tentativo di impedirgli di consolidare il potere sovrano nei confronti degli irrequieti feudatari germanici. Cogliendo la gravità della minaccia, Ottone volle emulare il padre Enrico I l’Uccellatore nell’impresa da lui compiuta nel 933 sconfiggendo i magiari nella battaglia di Riade, in Turingia, e convocò i suoi feudatari affinché fornissero truppe fresche da muovere contro l’invasore. L’esercito regio era già pronto in estate, ma non riuscì a intercettare in tempo gli Ungari, che si ritirarono in patria per svernare. Puntualmente, però, nella primavera successiva un’orda enorme si ripresentò in Baviera alla guida del gyula (comandante) Lehel per avviare l’ennesima stagione di terrore. Obiettivo era la ricca città di Augusta, che fu cinta d’assedio, ma Lehel il 9 agosto lasciò l’impresa dopo un solo giorno alla notizia che l’esercito di Ottone si stava avvicinando: non già per ritirarsi, ma intenzionato a dare battaglia. Il gyula si accampò nei pressi del vicino fiume Lech (Lechfeld significa “campo sul fiume Lech”) e attese l’arrivo dell’avversario. Ottone marciava da nord-est con un contingente di circa 7-8mila uomini, tutti cavalieri appartenenti alle unità pesanti reclutate dai suoi vassalli: bavaresi, sassoni, franconi, svevi e boemi. Tra loro c’era anche Corrado il Rosso, che abbandonate le ambizioni personali era accorso a dar manforte al suo re nell’imminente scontro.

Ottone aveva a disposizione un numero di effettivi cinque volte inferiore a quello degli avversari, ma contava sulla capacità della sua cavalleria pesante di imporsi di potenza sui contingenti nemici, armati molto alla leggera, esattamente come avevano fatto suo padre e, prima ancora, il maestro di palazzo franco Carlo Martello, nel 732 fermando gli arabi a Poitiers.

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Ottone I (Manoscritto mediolanese. c.ca 1200)

La sera del 9 agosto, dunque, Ottone ordinò ai suoi di prepararsi alla battaglia digiunando e pregando; la mattina successiva, di buon’ora, sul campo fu celebrata la messa, al termine della quale il re salì a cavallo e si mosse per andare incontro al nemico. Sua intenzione era raggiungere Augusta attraverso la foresta che costeggiava il fiume – il modo migliore per ripararsi dalla calura estiva -, ma era stato avvisato da alcune spie che il nemico era accampato lì intorno e aveva deciso di raggiungerlo e affrontarlo in campo aperto. L’esercito germanico era di stampo feudale ed era suddiviso in contingenti in base alla nazionalità di provenienza, ciascuno comandato dal proprio capo: all’avanguardia c’erano tre divisioni bavaresi, prive di guida in quanto il loro duca Enrico – fratello minore di Ottone – era gravemente malato; le seguivano i Franconi di Corrado il Rosso, mentre al centro della colonna lo stesso Ottone stava alla testa dei suoi Sassoni; infine, le due divisioni sveve di Burcardo III e un contingente di circa mille Boemi, col compito di far da scorta alle salmerie. Mentre la colonna era in marcia lungo la riva orientale del Lech, Ottone non si avvide che una parte della cavalleria ungara, celata dalla fitta vegetazione, aveva attraversato il guado per coglierlo di sorpresa alle spalle. All’improvviso la retrovia tedesca fu aggredita da una pioggia di frecce e sbandò paurosamente. Svevi e Boemi, colpiti e decimati, tentarono di ritirarsi malconci mentre il resto dell’esercito di Ottone ripiegava provando a serrare le fila. La sortita magiara aveva colto nel segno e ora gli Ungari avrebbero potuto accerchiare il nemico, attaccarlo e finirlo grazie alle forze numericamente soverchianti. Accadde invece l’inaspettato. Fedeli alla loro natura di predoni, i magiari preferirono evitare l’inseguimento e fermarsi a saccheggiare i carriaggi tedeschi. Fu un gravissimo errore: Ottone approfittò dell’inaspettato stallo per riorganizzare i suoi e ordinare a Corrado di gettarsi con i Franconi sui predoni appiedati a far bottino. Privi delle loro cavalcature rapide e micidiali, la maggior parte degli Ungari furono così massacrati senza pietà.

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Widukind di Corvey (925 – 980 circa) , autore della “Storia dei Sassoni” (Res gestae Saxonicae) in III libri, composta a partire dal 968 e dedicata a Matilde, madre dell’imperatore Ottone I

Il coraggio e la gloria Il re restava però in forte inferiorità numerica e aveva capito che continuare la marcia avrebbe significato esporre di nuovo la sua retroguardia ai repentini attacchi della cavalleria ungara. Doveva per di più affrontare la parte preponderante dell’esercito nemico, che era accampato indenne nei pressi del fiume. Che fare dunque? Ottone risolse di precedere l’avversario andandogli incontro, ma con uno schieramento differente: una volta passato il guado, avrebbe posizionato i suoi non più incolonnati ma in linea, così la cavalleria avrebbe potuto caricare il nemico frontalmente sfruttando tutta la sua devastante potenza. Il sovrano non si limitò a impartire gli ordini dall’alto, ma volle parlare alle milizie per infondere loro il coraggio necessario alla battaglia. Il discorso – o quello che la propaganda di corte volle tramandare, essendo in effetti costruito sulla base di ben noti modelli classici – è riportato dal cronista Widukindo di Corvey nella sua “Storia dei Sassoni”: “Loro ci superano – disse dunque Ottone -, lo so bene, in numero, ma non hanno né il nostro coraggio né le nostre armi. Sappiamo però anche che per la maggior parte sono privi di armatura, mentre noi, ed è il nostro conforto, abbiamo la corazza di Dio. Loro possono contare solo sull’audacia, noi sulla speranza e sulla protezione del Cielo. Sarebbe vergognoso arrendersi al nemico. Meglio combattere, o miei soldati. Dovesse arrivare la fine, moriremo in gloria e sarà meglio che vivere schiavi dei nostri nemici! Direi anche di più, se avessi la certezza che le mie parole accrescerebbero il coraggio dei vostri cuori. Ma continueremo meglio la conversazione con le nostre spade che con la nostra lingua!”. A quel punto, sventolando lo stendardo con l’effigie dell’Arcangelo Michele e impugnata la Santa Lancia e lo scudo, Ottone spronò il cavallo contro i nemici trascinando con sé, nell’entusiasmo generale, tutta la sua cavalleria pesante.

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La battaglia di Lechfeld in un manoscritto medievale

Il comandante magiaro conosceva bene l’entità del pericolo rappresentato dalla schiera tedesca lanciata al galoppo contro un esercito come il suo, e per questo aveva schierato in prima linea gli uomini migliori: gli altri, dietro, avrebbero assorbito l’inevitabile urto. Lehel tentò comunque di sfruttare l’unica arma davvero efficace che aveva a disposizione: le frecce. Non appena la muraglia nemica gli fu di fronte, diede l’ordine ai suoi di alzare gli archi e scatenare una tempesta di dardi, sperando così di assottogliare per quanto possibile le fila tedesche. Ma la misura non servì a nulla: la gragnuola di proiettili si infranse sulle corazze e sugli scudi dei germani incalzanti, provocando nello schieramento un danno trascurabile. Prima ancora che gli Ungari potessero ricaricare gli archi e tentare un secondo lancio, la cavalleria di Ottone fu loro addosso. L’impatto fu devastante e la resistenza ungara si infranse come un cristallo. I pochi magiari superstiti fuggirono cercando rifugio nei vicini villaggi, ma vennero raggiunti e perirono tra le fiamme, bruciati vivi dagli stessi contadini nelle loro case; altri tentarono di mettersi in salvo attraversando a nuoto il fiume, ma furono inghiottiti dalle acque e annegarono. I comandanti ungari, Lehel in testa, vennero catturati e giustiziati sul posto. Dopo dieci ore la vittoria tedesca poteva dirsi completa.

Il successo di Lechfeld fu ottenuto da Ottone a caro prezzo: insieme a buona parte della nobiltà germanica, quel giorno cadde anche Corrado il Rosso, colpito da una freccia mentre si toglieva un attimo l’usbergo per via del gran caldo; presentandosi sul campo e combattendo con valore aveva però fatto in tempo a riscattarsi e poteva ora entrare nel pantheon degli eroi nazionali del regno. Nonostante le vittime illustri, Widukindo commenta trionfalmente: “Non si era mai vista una vittoria di queste proporzioni contro genti così selvagge ottenuta con così poche perdite”. Il re, aggiunge il cronista, “acclamato per il grandioso trionfo, fu così nominato dalle truppe padre dell’esercito e imperatore”. L’incoronazione imperiale di Ottone, in realtà, avverrà soltanto nel 962, a Roma, da parte di papa Giovanni XII, ma certo la vittoria di Lechfeld rappresentò per lui e per l’Europa un momento topico: il Continente si era finalmente liberato dall’incubo delle scorrerie e di lì a poco i terribili Ungari, convertiti al Cristianesimo, avrebbero dato vita al regno d’Ungheria, consentendo l’allargamento verso est dell’area di influenza dell’impero. Forte di questo decisivo successo, Ottone poté dunque avviarsi a raccogliere l’eredità politica e morale di Carlo Magno.

Elena Percivaldi*

*da Storie di Guerre e Guerrieri n. 14 (agosto/settembre 2017). © Elena Percivaldi / Sprea Editori. Riproduzione vietata.

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