La bussola fece la sua comparsa sulle sponde del Mediterraneo nel Medioevo. E innescò un malinteso storico che continuò a propagarsi, con tanto di curiose conseguenze, fino ai giorni nostri.
Nel vecchio continente, il primo riferimento che la riguarda è dell’erudito inglese Alexander Neckam, che la menziona nel De nominibus utensilium (ca. 1180) e già all’inizio del Trecento era uno strumento ben noto. La troviamo nelle cronache del domenicano Giordano da Pisa (1260 – 1311), che scrive: “pare una vile pietra, ma essa è carissima” e, per chiarirne il valore, commenta che sarebbe meglio perdere uno smeraldo che una bussola.
In effetti la bussola è uno strumento prezioso. Anche oggi, nonostante l’ampia disponibilità di mezzi elettronici e satellitari come il GPS (Global Positioning System), in navigazione non è stata del tutto soppiantata. E l’uso marittimo è solo la più nota delle sue applicazioni. I geologi ad esempio, la utilizzano per misurare l’inclinazione degli strati di roccia e senza la bussola non potrebbero svolgere una parte molto importante del loro lavoro.
La componente essenziale della bussola è il magnete. Il termine deriva da Magnesia (città dell’odierna Turchia) dove i greci, verso il 600 a.C., scoprirono un minerale che attirava gli oggetti di ferro. Era quello che oggi conosciamo come magnetite. Ma dal magnete alla bussola ce ne corre. Per inventare lo strumento, è stato necessario che qualcuno si accorgesse che il minerale, lasciato libero di orientarsi, si allinea sempre secondo la direzione nord-sud.
Sembra che se ne siano avveduti i cinesi, che ne fanno cenno come di un indicatore geografico in un dizionario edito nel 121 d.C. e che già da tempo utilizzavano i magneti in giochi e spettacoli di attrazione.
Comunque sia, risalita la Via della Seta, la bussola sbarcò ad Amalfi tra il X e l’XI secolo, insieme ai marinai che traghettavano i crociati in Terra Santa.
Una volta stabilito l’uso, per il magnete venne fuori anche un sinonimo: calamita, che presuppone il suo utilizzo come indicatore di direzione. Infatti deriva dal greco medievale kalamita, ovvero “ago della bussola”, che a sua volta viene da kálamos, “canna” e si riferisce al fatto che i primi aghi magnetizzati, per essere lasciati liberi di orientarsi, venivano appoggiati in bilico sull’estremità di una sottile canna.
La conosceva anche Dante (Paradiso, XII, 29), che la descrive come un oggetto che punta verso la Stella Polare. E Francesco da Buti (1324- 1406), uno dei primi commentatori della Commedia, ne spiega bene la meccanica: «Anno li naviganti uno bussolo che nel mezzo è impernato una rotella di carta leggeri, la quale gira sul detto perno; e la detta rotella ha molte punte, et ad una di quelle che vi è dipinta una stella, è fitta una punta d’ago; la quale punta li naviganti quando vogliono vedere dove sia tramontana, imbriacano colla calamita».
La dettagliata esposizione di da Buti evidenzia alcuni particolari interessanti. Anzitutto il nome, “bussolo”, che indica la piccola scatola (buxula, cassetta) di legno di bosso (buxus) che conteneva lo strumento e da cui deriveranno anche il bossolo delle munizioni e il bussolotto, recipiente che contiene i dadi del prestigiatore o i numeri da estrarre nelle lotterie.
E poi una bizzarra interpretazione della natura scientifica del magnetismo, che spiega bene lo storico Alessandro Barbero sollecitato da una domanda di Piero Angela: “Non si sapeva spiegarla, ci si limitava a constatarne l’effetto. Poi, ognuno se lo spiegava come voleva. A molti sembrava un fenomeno magico, una bizzarria della natura, come se l’ago fosse vivo. Pensi che anticamente non si era in grado di calamitare l’ago in modo permanente: bisognava accostargli la calamita quando si voleva farlo funzionare e la gente aveva l’impressione che per l’azione della calamita l’ago impazzisse: si diceva «ubriacare l’ago colla calamita»”.
Infine, Francesco da Buti ci dice quanto fosse raffinato lo strumento già alla fine del Trecento. Dai prototipi, semplici bacinelle colme d’acqua in cui l’ago magnetico veniva lasciato galleggiare per evitare che fosse troppo influenzato dalle oscillazioni della nave, nel giro di un centinaio d’anni la bussola acquistò un sistema di bilanciamento interno che permetteva di stabilizzare il magnete dentro il bossolo. E si dotò di una rosa dei venti, in modo da avere costantemente riscontro con altre indicazioni geografiche utili. Alla fine del Medioevo, quando Cristoforo Colombo fece il suo viaggio, le tecniche di navigazione erano già molto avanzate e si servivano di attrezzature e strumenti che per l’epoca erano davvero molto raffinati.
Così equipaggiata, la bussola approda nel XV secolo. E cade all’attenzione dello storico Flavio Biondo (1392 – 1463), che tra l’altro fu il primo a studiare il Medioevo come periodo storico.
Biondo attribuisce agli amalfitani non solo il perfezionamento della bussola ma anche l’invenzione.
Da questo errore in poi, una virgola messa nel posto sbagliato genererà un effetto domino dalle conseguenze inaspettate.
Nel 1511, il filologo bolognese Giambattista Pio riporta la notizia di Biondo con una costruzione della frase un po’ contorta: “Ad Amalfi, in Campania, fu inventato l’uso della calamita, da Flavio si dice” (Amalphi in Campania veteri magnetis usus inventus a Flavio traditur). Il senso era che Flavio (Biondo) aveva detto che la bussola era sta inventata ad Amalfi. Ma qualcuno cambiò posto alle virgole e, come sanno loro malgrado tutti gli studenti dei corsi di Latino, il significato fu radicalmente stravolto. Tradotta, la frase suonava così: “Ad Amalfi, in Campania, fu inventato l’uso della calamita da Flavio, si dice”.
Così cominciò a girare voce che un certo Flavio di Amalfi avesse inventato la calamita. L’errore venne poi amplificato da Scipione Mazzella, uno storico napoletano della seconda metà del Cinquecento. Non si sa come, dalla sua penna uscì che Flavio, inventore della bussola ad Amalfi, fosse però originario di Gioia, in Puglia.
Era l’ultima tessera del domino che aveva dato vita all’inventore italiano della bussola. Pian piano la notazione geografica di provenienza venne dimenticata e il geniale personaggio che non era mai esistito restò legato ad Amalfi con tanto di nome e cognome: Flavio Gioia.
La storia della bussola e del suo inventore di Amalfi, patria di grandi marinai e meravigliose tradizioni legate alla navigazione, era affascinante. Verso la metà del XIX secolo colpì in modo particolare Alfonso Balzico, noto scultore di Cava de’Tirreni, e ne stuzzicò la creatività.
Impressionato dal personaggio, Balzico dedicò a Flavio Gioia ben due opere, che cronologicamente suggellarono l’inizio e la fine della sua carriera artistica. Del primo lavoro, un busto colossale riportato dalla rivista Poliorama nel novembre del 1853, che doveva collocarsi nella Reale Accademia delle Belle Arti di Napoli, resta il modello in gesso nella Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma perché Balzico utilizzò l’originale per realizzare il suo secondo tributo a Flavio Gioia.
L’ultima opera, portata a termine quasi alla fine della carriera dell’artista, ebbe maggiore fortuna. Il 12 agosto 1892 la rivista Il Torneo ne pubblicò una recensione: “Il Flavio Gioia, col il suo abito marinaresco del 300 fissa l’occhio sulla scatoletta della bussola, e col dito della mano destra segue la direzione dell’ago. Sul volto maschio è come l’accenno di un sorriso, e nell’occhio malizioso brilla il pensiero dell’uomo, che dice allo strumento: te l’ho fatta!”.
Ancora in corso d’opera, sembra che la statua sia stata oggetto di un tentativo di acquisto da parte degli amalfitani. Il 1892 era l’anno delle celebrazioni colombiane e la città trovò l’occasione ideale per commemorare uno dei suoi più illustri concittadini. Un emissario propose a Balzico un anticipo di 4000 lire per la statua di Gioia, promettendone altre 6000 alla consegna. Ma il saldo non fu mai versato e lo scultore annullò il contratto.
Però la statua ormai era fatta e partecipò all’Esposizione Universale di Parigi del 1900, dove venne premiata con una medaglia d’oro. Poi restò per molti anni a Roma, nel museo privato dedicato all’artista dalla Regina Margherita.
Nel 1917, quando gli eredi di Balzico decisero di chiudere il museo, tutte le opere vennero donate alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Ma la statua di Flavio Gioia non rimase lì per molto. Nel 1926 venne finalmente acquistata dalla città di Amalfi e collocata, nel corso di una solenne inaugurazione, in Piazza Duomo.
Negli anni, Flavio Gioia ha cambiato casa ancora un’ultima volta. Adesso si trova proprio di fronte al mare, nella piazzetta che porta il suo nome affacciata sulla splendida Costiera.
E l’errore, definitivamente smascherato dalla medievista Chiara Frugoni pochi anni fa, non ha avuto conseguenze sulla statua, tanto desiderata e faticosamente acquisita dagli amalfitani. Oggi rimane a simbolo della gloria marinaresca conquistata, questa volta realmente, dalla città durante il Medioevo.
Daniela Querci