La “selva oscura” ispirata da Bruno di Segni

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Una nuova prospettiva di approccio al pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri. L’incipit della Divina Commedia con la citazione di una “selva oscura”, “amara”, “aspra”, “forte” e deviante dalla “diritta via”, sarebbe stato ispirato da una invocazione nascosta in un antico commento al Pentateuco. Lo scrisse Bruno di Segni (1045-1123), monaco dell’Alto Medioevo, nato a Solero, in provincia di Alessandria: fu vescovo della città di Asti ed entrò in contatto con personaggi chiave della cultura dell’XI secolo. La scoperta, destinata ad accendere il dibattito culturale, nasce da un ricco e articolato studio di Giulio d’Onofrio, docente di Storia della filosofia medievale all’Università di Salerno e autore del libro Per questa selva oscura, appena pubblicato da Città Nuova.


Giunto al termine del suo fitto commento al libro dell’Esodo, un giorno (o una notte) dell’ultimo ventennio del secolo XI, forse in un interno del palazzo diocesano di Segni nel Lazio meridionale, il vescovo Bruno, originario di Asti, si lascia sfuggire dal cuore un ringraziamento a Dio, che lo ha guidato fino a questo esito, nel faticoso compito di orientarsi, e orientare i lettori, nell’intricata complessità del testo scritturale:

San Bruno d’Asti in un affresco della Cattedrale di Asti

Ego autem omnipotenti Deo gratias ago, qui me per hanc silvam obscuram satis et densam, recto, ut opinor, itinere, huc usque perduxit.

La traduzione italiana potrebbe essere, più o meno, la seguente:

Ma io, ora, rendo grazie a Dio onnipotente, che fino a qui mi ha guidato lungo la via diritta, come credo, per questa selva oscura assai e fitta.

L’assonanza di queste parole con quelle del secondo e terzo verso del primo canto dell’Inferno di Dante è sorprendente, e non lascia indifferenti:

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita.

Dinanzi al suggestivo emergere di una così stringente corrispondenza testuale siamo obbligati a vagliare con metodo e attenzione l’inattesa possibilità di indicare in una sorgente alto-medievale l’origine diretta di alcuni termini e concetti nodali di quello che è certamente il più celebre luogo poetico della letteratura italiana nascente.

È in effetti innegabile l’impressionante coerenza formale che anche un rapido confronto evidenzia tra i due testi, tanto per le precise corrispondenze verbali, quanto per la parallela funzionalità dell’impiego narrativo della metafora nel contesto della ricerca di una via di uscita da un marcato disagio interiore, intellettuale e morale insieme.

Gustave Doré, Divina Commedia, Inferno, Canto I, Dante si smarrisce nella selva

La metà delle parole che in due versi esibiscono e contestualizzano lo smarrimento di Dante ritornano identiche, per forma e costrutto, nell’esclamazione del teologo alto-medievale: l’immagine della silva / selva, accompagnata dalla precisa connotazione di obscura / oscura, è in entrambi i casi metafora di un luogo mentale intricato, al cui interno il disorientamento è espresso con la difficoltà di individuare il percorso o il procedimento corretto, il rectum iter /diritta via, che orienta l’anima verso l’aiuto divino, esternamente al quale regna soltanto il buio.

La coincidenza è impressionante, nonostante la diversità di lingua, e nonostante il fatto che l’argomentazione affidata alla metafora risulti produttiva nei due autori di esiti contrari: per celebrare l’epilogo positivo del drammatico impegno ed esprimere gratitudine a Dio che lo ha guidato verso la verità, in Bruno; e per paventare il fallimento di ogni tentativo di uscire con le proprie forze da una gravosa condizione di stallo, in Dante.

Nella lettura dei versi iniziali della Commedia merita di essere evidenziata, per altro, la peculiarità della costruzione del verbo ritrovarsi con la preposizione per, della quale non è dato reperire nella scrittura dantesca altre occorrenze. E se nelle parole di Bruno la selva (per lui metafora delle pagine che precedono nel libro stesso) è accompagnata dal dimostrativo questa (per hanc silvam), mentre in Dante, più genericamente, si legge qui per una selva, è impressionante osservare che la seconda evocazione della selva nel primo canto dell’Inferno, solo tre versi più avanti, sia anch’essa precisata dal dimostrativo: esta selva selvaggia (o anche, come è stato suggerito, questa selva selvaggia).

Jean-Baptiste-Camille Corot (1859), Dante e Virgilio

Anche queste constatazioni fanno risaltare la marcata corrispondenza formale con la struttura sintattica della frase di Bruno, tanto che il poeta sembra quasi scrivere in italiano pensando un costrutto latino.
Degna di nota è poi in Bruno, proprio come in Dante, la coincidenza del collegamento inverso tra il difficile transito nella silva e il reperimento del rectum iter.

Per quanto riguarda infine l’aggettivo «densa» (ossia ‘fitta, intricata’) con cui egli caratterizza la silva, è utile tenere presente che tale termine è tendenzialmente reso da Dante con l’italiano spesso; e sarà quindi non poco significativo ricordare due casi in cui altri versi della Commedia accostano tale aggettivo a una selva: in forma metaforica per esprimere l’addensarsi delle anime nel limbo (ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi); e come elemento descrittivo della reale foresta dell’Eden, salvifica, e perciò viva, nella quale il poeta si inoltra sulla cima del Purgatorio (la divina foresta spessa e viva).

Ma un ulteriore traccia della dipendenza di Dante dal modello esegetico di Bruno ci viene incontro da un’altra pagina della sua articolata Expositio del Pentateuco, ossia dal commento alla Genesi.

Bruno si sofferma qui infatti su un’altra simbologia, diversa da quella della “selva” ma altrettanto efficace per illustrare la concezione della sacra Scrittura come un complicato oggetto di studio e catalogo di normative difficilissime da intendere, attuare e rispettare: quella del “mare”, che viene creato da Dio adunando le acque e lasciandone emergere la terra.
Anche il mare è infatti per Bruno figura del testo della rivelazione, in quanto con l’instabilità delle sue onde e correnti evoca uno stato di incertezza e incapacità di decisione che caratterizza la drammatica presa di coscienza di Dante all’inizio del suo poema, e merita per questo di essere definito «amaro» e «aspro»:

E Dio chiamò “mare” le grandi raccolte di acqua perché anche se avere scienza e intelligenza delle sacre Scritture è cosa dolce e soave, tuttavia rispettarne le prescrizioni è cosa amara e aspra. Il “mare” infatti è così denominato dall’ “amarezza”. E perciò digiunare, vegliare e lasciare dietro di sé tutte le fascinazioni di questo mondo, a chi non sembra essere cosa amara? E proprio questi sono i comandamenti delle sacre Scritture, per cui giustamente sono simbolicamente assimilate al mare.

A riprova della dipendenza dell’incipit della Commedia da suggestioni simboliche provenienti dall’Expositio in Pentateuchum di Bruno, Dante trasferisce queste connotazioni allegoriche della Scrittura dal “mare” alla “selva”: tant’è amara che poco è più morte, e esta selva selvaggia e aspra e forte; e si ricollega poi alla simbologia del mare come figura della complessità e pericolosità della ricerca della verità e della salvezza:

Dante e Virgilio nella selva rappresentati da Gustave Doré

e come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata…

La maggior parte dei commentatori, è noto, dai più antichi fino ai più recenti, ha inteso la selva oscura del primo canto quale simbolo della corruzione morale e del peccato, incidenti, con rimorso e quasi disperazione di salvezza, sulla coscienza dell’autore: la retta via è stata conseguentemente interpretata come il cammino “etico” che conduce alla santità e alla salvezza eterna, proprio in quanto immagine intuitivamente contrapposta al concetto di torto o storto, ossia all’”errore” che fa “de-viare” il soggetto dal solco dell’attuazione del bene.

Non rari però, sia nei tempi antichi sia in epoca recente, sono stati anche gli interpreti che hanno difeso l’opportunità di intendere piuttosto l’immagine della selva come significativa del disorientamento conoscitivo del poeta (e solo conseguentemente, e in parallelo, del disordine morale).

In questa direzione mi sembra allora assumere un valore peculiare e illuminante la possibilità di ricondurre il significato della selva oscura dantesca alla raffigurazione, come in Bruno di Segni, dello scacco della conoscenza umana del vero, pur in presenza della concessione divina della rivelazione.

Giulio d’Onofrio

Giulio d’Onofrio
Per questa selva oscura
La teologia poetica di Dante
Edizioni Città Nuova, 2020.
Per maggiori informazioni: scheda del libro

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