La domenica mattina del 28 ottobre, Corradino dettò le sue ultime volontà al notaio Giovanni di Brigaudy. Nominò eredi testamentari i suoi zii, Ludovico ed Enrico di Baviera. Per essere prosciolto dal bando dovette rinunciare a tutti i suoi titoli e diritti: per questo dovette firmare il proprio testamento col semplice titolo di dominus Conradus. Altrettanto fece suo cugino, Federico di Baden d’Austria, il quale destinò alcuni beni a dei cenobi in suffragio della propria anima.
Sull’attuale piazza del Mercato di Napoli, lunedì 29 ottobre, venne allestito il palco, “lungo il ruscello dell’acqua che corre di contra alla chiesa de’ frati del Carmine”, tra il monastero degli Eremiti e il cimitero ebraico. Carlo, si narra, assisteva seduto su di un trono improvvisato.
Le narrazioni sulla fine dell’ultimo degli Hohenstaufen sono quanto mai varie. Saba Malaspina narra che il giovane sovrano dimostrò coraggio, affrontando la morte da buon cristiano. Bartolomeo di Neocastro si diffonde lungamente sul discorso che Corradino avrebbe pronunciato davanti ad una folla ammutolita, diversamente da quanto accadeva solitamente in occasione di esecuzioni capitali, momento per il popolino di sfogare i propri istinti più bassi.
Quando i condannati sfilavano dinanzi alla folla, o per la condanna a morte o per essere esposti alla gogna, erano spesso oggetto di terribili vessazioni. Nel caso della gogna, se la posizione prona e il blocco degli arti potevano arrecare al massimo scomodità, erano la vergogna pubblica e la reazione della gente la vera essenza della punizione. Benché l’esposizione durasse poche ore o al massimo qualche giorno, il malcapitato poteva infatti subire le peggiori angherie: poteva essere ricoperto di sterco, divenire bersaglio di pietre, subire lacerazioni o ustioni. Qualche volta tale trattamento poteva essere fatale: il lancio di pietre provocò la morte di un ladro spergiuro, John Walker, ancora nel 1732, e di due altri malfattori venti anni più tardi. L’ultimo degli Svevi si dichiarò “figlio dell’innocenza”, giunto in Italia a reclamare quel Regno ereditato di diritto dal padre. Essendogli negato il perdono, Corradino lo implorò almeno per quegli amici che la sua sfortunata stella aveva ingannato. Ma non ottenne soddisfazione. Chiese di morire allora per primo, per non assistere alla triste sorte dei suoi compagni che lo avevano seguito nelle calde terre del Mezzogiorno e anche in quanto principale responsabile di tale tragico destino.
Secondo altri fu invece preceduto sul patibolo dal giovane cugino Federico di Baden, del quale avrebbe baciato il capo ormai reciso. Lo Svevo chiese poi di essere sepolto accanto a lui e ai suoi fedeli compagni.
Prima di chinarsi sul ceppo, Corradino avrebbe levato le mani al cielo, invocando l’aiuto del Signore. E avrebbe ripetuto le parole che furono del Cristo nel giardino degli ulivi: “Si calix iste a me transire debet, in manus tuas commendo spiritum meum”.
Ma non sapremo mai quanto di questo racconto sia legato ai topoi letterari e quanto invece appartenga alla realtà.
In un anomalo, ma rispettoso silenzio, spirava così l’ultimo degli Hohenstaufen. L’Angioino dovette forse stupirsi un poco di quel rispetto con cui la taciturna folla napoletana assistette alla decapitazione di quel garzone biondo.
Al secco colpo della scure sul collo di Corradino fecero seguito le decapitazioni di Federico di Baden, detto, del conte GhAlardo Donoratico da Pisa, dei contie Gualferano e Bartolomeo Lancia e di due figli di quest’ultimo. Poi vennero trascinati sul palco i baroni del Regno accusati di tradimento e, allestite le forche, furono pubblicamente impiccati. Molti altri baroni di Puglia e degli Abruzzi, “ch’erano stati contro allo re Carlo e suoi rubelli, fece morire con diversi tormenti”.
La ricerca dei traditori proseguì ancora a lungo. Sappiamo ad esempio di come nel dicembre del 1268 il re angioino, elogiando Roberto de Cornay per lo zelo mostrato nella cattura dei ribelli, gli ordinò “di far trascinare e poi impiccare Miceliano del Bene di Cava e gli altri ribelli. E lo stesso faccia pure in seguito con quanti ribelli riesca a prendere, senza attendere ulteriori disposizioni”.
Ad un mese esatto di distanza dalla morte del giovane Hohenstaufen, il 29 novembre 1268, papa Clemente moriva a Viterbo. Talvolta questa singolare coincidenza è stata utilizzata per dipingere il papa quasi tormentato dal fantasma di Corradino, consapevole di non aver fatto quanto avrebbe potuto, o dovuto, per evitare una condanna ingiusta, e dunque turbato negli ultimi istanti della sua vita. Dalle fonti coeve non sembra però che questa diceria circolasse, mentre invece, già ai primi del Trecento, come abbiamo visto, si era diffusa la voce di una sua qualche implicazione in una esecuzione anomala e fuori dal diritto e dalla consuetudine. Ma se Clemente IV poteva morire sereno per aver almeno estirpato il rischio di rivendicazioni tedesche sul Mezzogiorno, sarà stato comunque angosciato per aver posto nelle mani di Carlo d’Angiò una serie di poteri e titoli che avrebbero comportato altrettali rischi. A fronteggiare simili timori sarebbero stati i successori di papa Clemente.
A Carlo I, invece, venne attribuita sin da subito l’enorme responsabilità e la volontà di chiudere l’affaire svevo in modo più che determinato, al punto da meritare immediatamente giudizi severi da quasi tutti i suoi contemporanei. Già il 24 agosto, in una lettera al Comune di Padova, l’Angioino annunciò di aver catturato Tommaso d’Aquino e altri traditori e che erano già stati condannati a morte, “iam capitali sententia damnati”. Stesso tragico destino aveva previsto per Corradino e i suoi compagni quando, nel settembre del 1268, e quindi a cattura appena avvenuta, scrisse al Comune di Lucca. In quella lettera, infatti, non vi si scorge appello, e la sentenza è nella sua mente, già stabilita: “iam in capitali sententias condempnatos”, ancor prima di qualsiasi processo. Ed è un indizio tutt’altro che di poco conto il fatto che, solo nelle lettere indirizzate a papa Clemente, l’Angioino non usi un tono così laconico, probabilmente per evitare ulteriori rampogne che già il pontefice aveva indirizzato prima a lui e poi, essendo palesemente inascoltato, a suo fratello Luigi IX, invitandolo a mitigare maniere così feroci. L’ordine di arresto (e talvolta di condanna a morte), infatti, venne talvolta esteso anche ai figli dei milites e di tutti coloro che avevano in qualche modo favorito la discesa dello Svevo. Un poeta toscano, di posizione guelfa, testimone del clima di polizia e di accanimento contro i vinti, ebbe dunque ad apostrofare i ghibellini come “gente folle di chui tale festa, or non sapete come Carllo paga, in uno punto chilglie incontro or intoppa”.
Enorme fu l’impressione suscitata in tutta la Germania per la morte di Corradino: ma nessuno prese l’iniziativa di vendicare lui e la casa sveva. Con Corradino si chiudeva un’epoca, tramontata di fatto con la morte di Federico II, estenuatasi ancora sino al 1268: David Abulafia, in un suo libro pubblicato nel 1990, intitolò argutamente il capitolo dedicato agli eredi di Federico II “I fantasmi degli Hohenstaufen”.
Lo scontro tra Papato e Impero si chiude sulla piazza del Mercato di Napoli e l’esecutore di questa cesura è un nuovo, inedito protagonista della storia d’Italia. Il che già sta a simboleggiare come non si trattasse più di uno scontro bipolare, e quanto si andasse complicando la questione italiana.
Con Corradino si estingue la casa degli Hohenstaufen e con essa le prerogative imperiali in Italia, obiettivo spasmodicamente anelato tanto dal papa quanto da Carlo I. Ma non altrettanto accade con l’idea di Impero, che in Italia fatica a sopirsi.
Di fatto il ruolo svolto da Federico II aveva determinato una bipartizione interna ai Comuni d’Italia, creando una tensione a livello intercittadino. Chi aveva trovato nello Svevo (e quindi nell’Impero) prospettive vantaggiose, fu successivamente portato a mantenere, il più delle volte, quelle posizioni originali.
Le famiglie cosiddette ghibelline, dunque, più che fedeli all’Impero in senso lato, avevano stipulato legami di fedeltà coi sovrani svevi. Ricordiamo che Manfredi o Corradino non furono mai imperatori. Ma l’identificazione della casata sveva con l’Impero aveva oramai assunto, passando dal Barbarossa a Federico II, quasi un senso sinonimico: governare la Svevia significava governare l’Impero. Un anno dopo la morte di Corradino, quando gli eredi di Federico II erano o morti o in catene, il papa si accaniva in una lettera contro tutti i nemici della Chiesa ed in particolare contro i discendenti del fu imperatore Federico. Giocoforza, coloro che avevano sostenuto gli Svevi, trovarono negli Angioini – più che nel Papato – i nuovi nemici.
In nome dell’Impero ci si ribellò a Carlo d’Angiò in Sicilia nel 1282, nel giorno dei cosiddetti Vespri Siciliani. Già dal 1266 Costanza, figlia di Manfredi e sposa di Pietro III d’Aragona, mostrava polemicamente il titolo di regina.
Pochi mesi prima di morire, Manfredi aveva inviato alla corte dell’Aragonese il proprio consigliere Enrico di Ventimiglia per richiedere probabilmente aiuti militari in Italia, e non è da escludere che alcuni soldati catalani si siano uniti alle truppe per combattere l’Angioino. Ma si deve attendere qualche anno perché Pietro appaia “come il rappresentante del ghibellinismo italiano in contrapposizione all’angioino che è il capo del guelfismo. Il primo, anzi, è qualcosa di più: è – e lo dichiara ufficialmente – l’erede della tradizione sveva.
Negli anni in cui si consumano le vicende di Manfredi e Corradino, il legame con la famiglia Hohenstaufen viene studiato e sfruttato in vista di una politica mediterranea e antiangioina. Quando nel 1282 a Palermo esplodono i Vespri, i tempi sono maturi per rivendicare il Regno “pro exaltacionibus predecessorum nostrorum”, ricucendo quel fil rouge svevo, tagliato a Benevento e Tagliacozzo, e ora riallacciato dall’Aragonese.
Il sovrano ebbe un fitto scambio epistolare coi grandi campioni del ghibellinismo italiano, Guido da Montefeltro, Guido Novello, Corrado di Antiochia, sia prima che dopo i Vespri. Già nel 1271 erano giunti alla corte d’Aragona molti nobili legati anche da vincoli di parentela ai signori che avevano servito i sovrani svevi: Bertrando Canelli, parente del vicario in Toscana per conto di Manfredi; Corrado e Manfredi Lancia, parenti della moglie dell’imperatore; Enrico da Isernia, Giovanni da Procida e Ruggero di Lauria. Giunsero ancora Francesco e Nicola d’Aspello, Gentile da Padula, Rinaldo de Sabella, Riccardo Filangieri e Francesco da Trogisio, “miles et familiaris” di Manfredi e podestà di Siena ai tempi del successo di Montaperti. Fu quest’ultimo che venne inviato dal re in Italia per sobillare una rivolta e appurare le eventuali fedeltà su cui poter fare affidamento. Dopo i Vespri, poi, la Sicilia aragonese divenne la meta preferita dei ghibellini d’Italia che vi riconobbero l’ideale continuazione del Regno di Federico II. Giacomo II, subentrato a Pietro, dopo la parentesi di Alfonso III, accolse dunque a Palermo membri delle famiglie fiorentine degli Uberti, dei Rabuffati, dei Soldanieri, dei Ghiandoni, degli Ubriachi.
Si recuperava così, seppure in modo ideologico, la presenza sveva in Italia che avrebbe più oltre trovato in Federico III d’Aragona (1273-1337) un leader, ma anche un omonimo dell’ultimo grande imperatore, guida del ghibellinismo italiano. Pur essendo il secondo sovrano di Trinacria con il nome di Federico, assunse il nome di Federico III, proprio per sottolineare la continuità con la tradizione imperiale con gli Svevi.
Il giovane nuovo sovrano, agli inizi del XIV secolo, in un panorama oramai fortemente mutato, divenne un nuovo catalizzatore. Da un lato convogliò sul Regno di Trinacria le simpatie ghibelline, specie di Genova, rinforzate da una alleanza con Ludovico il Bavaro, e i nemici degli Angiò e del Papato; dall’altro attirò sulla propria figura, e sulla coalizione da lui sostenuta, l’antica propaganda antisveva, che ritrovò in lui un novello Anticristo.
Federico Canaccini
Il libro
Federico Canaccini
1268 La battaglia di Tagliacozzo
Roma, Laterza, 2019, Collana: Storia e Società
184 pp., €18 – Disponibile anche in ebook