La civiltà ottomana

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Una innovativa guida allo studio. E un Medioevo per molti versi inedito: l’ultimo libro di Lorenzo Tanzini e Francesco Paolo Tocco Un Medioevo mediterraneo. Mille anni tra Oriente e Occidente (Carocci editore, 2020) propone una rilettura globale dell’età di mezzo nel segno delle profonde tracce lasciate dalla storia delle civiltà affacciate sul Grande Mare. Pubblichiamo l’estratto di un capitolo dedicato alla nascita e allo sviluppo della civiltà ottomana. Partendo da alcune fondamentali parole: akhi, nöker, devşirme e millet.


L’ascesa dei Turchi ottomani e la loro creazione di un impero destinato a durare nel tempo devono, come sempre, qualcosa al caso – basti pensare all’improvvisa fine dell’impero di Tamerlano che aveva cancellato in pochissimi anni tutte le conquiste ottomane di un secolo – ma si fonda altresì su alcuni elementi strutturali molto peculiari di una società capace di modificarsi plasticamente nel tempo e di arricchirsi degli apporti delle culture con le quali veniva in contatto, anche, e forse soprattutto, quando questo contatto era nel segno della guerra.

Osman I, capostipite della dinastia ottomana

Già agli inizi del Trecento, quando Othman diede inizio al movimento espansivo, il principato era fondato su solidi ordinamenti sociali e civili, come l’istituto dell’akhi, “fratello mio” in arabo, una sorta di affiliazione a corporazioni di mestiere caratterizzate da una prospettiva cavalleresca e mistica.

Questa solidità socioculturale, unita a una ridotta pressione fiscale, consentì a Othman di prospettare alle milizie di frontiera greche, i cosiddetti akrìtai, condizioni di vita migliori di quelle loro imposte dall’Impero bizantino, favorendone il passaggio al fronte ottomano e, in molti casi, la conversione all’islamismo.

Ma l’elemento iniziale della forza militare ottomana deve ravvisarsi nel cosiddetto nöker, un affiatato gruppo di cavalieri devoti al bey e legati a lui da un rapporto esclusivo, in certa misura paragonabile alla trustis germanica. Furono i membri del nöker a rappresentare il bey nelle nuove aree di conquista. Ben presto, però, quando l’espansione iniziò a diventare piuttosto consistente, soprattutto in ambito balcanico, gli Ottomani crearono un istituto oltremodo originale e destinato a costituire la colonna portante della loro società e del loro esercito, almeno per due secoli. Questo istituto era il cosiddetto devşirme, molto probabilmente fondato al tempo del sultanato di Bayezid I, sebbene ci sia chi lo fa nascere più tardi, intorno al 1430, all’epoca di Murad II.

Devşirme è un sostantivo derivato dal verbo devşirmèk, “scegliere”, in greco reso dal termine paidomazoma. La parola greca, che si può tradurre con “leva dei ragazzi”, fa comprendere chiaramente in cosa consistesse il devşirme: era la cosiddetta “decima umana”, un meccanismo di reclutamento tanto caratterizzato da elementi di sopruso e crudeltà quanto formidabilmente efficace nella formazione di un ceto dirigente omogeneo, di estrema competenza e tale da bilanciare validamente i plausibili tentativi autonomistici dei membri del nöker, sempre presenti in gruppi di ambiziosi guerrieri, per quanto obbligati al rispetto del loro signore.

La Tassa di sangue, miniatura ottomana di Matrakci Nasuh dal Süleymanname, 1558

Questa “scelta”, che non era altro che l’applicazione del principio della riserva del quinto del bottino dovuto al sultano, motivo per cui i prescelti erano ufficialmente schiavi di quest’ultimo, funzionava così: con una certa periodicità, che con il consolidamento del meccanismo sarebbe diventata quinquennale, speciali commissioni si recavano nei villaggi cristiani dei Balcani, in particolare in Albania, per scegliere i ragazzi più capaci, per intelligenza e forza, condurli in Anatolia e, dopo averli formati adeguatamente, renderli le colonne portanti dell’amministrazione e dell’esercito ottomani.

L’età dei prescelti variava dagli 8 ai 12 anni, con eccezioni che arrivavano fino ai 20 anni. Sebbene questo istituto sia nato prima della conquista di Costantinopoli, avrebbe visto la sua più efficace realizzazione dopo il 1453. Non appena arrivavano a Istanbul, i giovani ritenuti più intelligenti diventavano paggi al servizio del palazzo imperiale mentre gli altri venivano inviati presso nobili famiglie turche della penisola anatolica per imparare il turco, apprendere i principi islamici e lavorare nei campi. Per tutti le spese di mantenimento erano a carico delle casse statali.

I paggi, che erano detti “ragazzi di dentro”, frequentavano scuole d’élite per imparare l’arabo, che era la lingua della fede, e il farsi, cioè il persiano, che era la lingua della cultura. Studiavano, inoltre, equitazione e scherma, apprendevano il funzionamento dei servizi di corte e a conversare con persone di rango. Dopo essere stati formati, potevano restare a servire a corte, oppure essere addetti a mansioni particolari nell’ambito più ampio del serraglio, ovvero il palazzo, dal turco serray, o anche entrare a far parte dell’amministrazione civile.

I “ragazzi di fuori”, dopo la formazione in Anatolia, tornavano nella capitale, dove i più intelligenti frequentavano scuole equiparabili a quelle preposte alla formazione dei “ragazzi di dentro”, ma finalizzate a impartire un’educazione di taglio più militare. Entravano così a far parte del corpo delle guardie di palazzo ma, soprattutto, erano arruolati tra i giannizzeri, il corpo scelto dell’esercito ottomano, dove venivano addestrati alla guerra in maniera più specifica e tecnicamente raffinata.

Da quanto si è detto, è facile capire che la condizione di “schiavi del sultano” era un meccanismo che invece di deprimere le capacità e l’intraprendenza dei giovani riusciva a formare nella sua totalità l’élite di potere imperiale in un modo che per certi versi ricorda l’impiego degli schiavi, come pure dei liberti, in età imperiale romana e che offriva parecchi vantaggi: creava un fortissimo spirito di corpo tra i prescelti; favoriva una perfetta integrazione culturale tra vinti e vincitori; allontanava dalla povertà bambini capaci destinati a vivere la vita grama dei contadini, benché nello strazio dei genitori che non li avrebbero mai più visti; e, soprattutto, garantiva un’effettiva meritocrazia.

I prescelti facevano carriera nell’amministrazione solo grazie alle loro capacità, garantendo il perfetto funzionamento della macchina statale. Non stupisce dunque più di tanto perché per buona parte del XV secolo, per tutto il XVI e l’inizio del XVII, l’Impero ottomano sia stato il padrone di quasi tutto il Mediterraneo e dell’intera regione balcanica in Europa, e perché, soprattutto in età moderna, in area mediterranea si diffuse con una certa frequenza la presenza di “rinnegati”, vale a dire di cristiani che si convertivano all’islamismo e andavano a servire l’impero, non di rado raggiungendo posizioni di vertice.

L’espansione dell’Impero ottoman (da Enciclopedia Treccani)

Il frutto più originale del devşirme fu probabilmente il già menzionato corpo dei giannizzeri. Era composto in parte dai prescelti e in parte da giovani prigionieri di guerra, questi ultimi in continuità con una tradizione tipica del mondo islamico, quella dei mamelucchi, che in Egitto erano riusciti a prendere il potere intorno alla metà del XIII secolo e creare una dinastia califfale conquistata, come si è ricordato, solo agli inizi del Cinquecento dagli Ottomani.

Disegno di giannizzero, Gentile Bellini (XV sec.)

I giannizzeri costituivano la componente essenziale della fanteria regolare ottomana ed ebbero sempre un ruolo decisivo nelle battaglie che consentirono la nascita e l’evoluzione dell’impero, da Kosovo Polje a Nicopoli, dalla conquista di Costantinopoli, alla battaglia di Mohács nel 1526, nella quale distrussero l’esercito ungherese, alla già ricordata conquista dell’Egitto.
Tra i giannizzeri vigeva un forte spirito di corpo, sostanziato nell’orgoglio di essere schiavi del sultano, cioè di essere alle sue dipendenze senza altri intermediari. Con il passare del tempo si sarebbero trasformati in una setta autoreferenziale, e sarebbero stati tra le cause del declino dell’Impero ottomano, ma per circa due secoli furono l’arma in più che garantì la superiorità ottomana.

Un ultimo elemento, di ordine più sociopolitico, va ricordato per spiegare l’irresistibile ascesa ottomana, l’istituto del millet, già esistente nel mondo islamico, ma efficacemente raffinato dagli Ottomani.
Per meglio comprenderne il funzionamento ricordiamo che quando Muhamad II entrò a Costantinopoli riconobbe immediatamente particolari poteri al patriarca ortodosso, in quanto rappresentante della più consistente minoranza religiosa del suo impero.

All’indomani della conquista di Costantinopoli, Muhamad II creò così a favore dei Greci ortodossi, che costituivano una delle due colonne portanti del suo impero, il sistema dei millet, termine che può tradursi con “nazione religiosa”, il quale non faceva altro che riconoscere il fatto che la popolazione dell’impero si divideva tra due religioni principali. In seguito sarebbero stati creati il millet armeno e quello giudaico, che favorì l’immigrazione nell’impero di molti ebrei che, invece, contemporaneamente, venivano espulsi dai regni europei, e in particolare dalla Castiglia e dalle terre della Corona d’Aragona con il noto Edicto de conversión del 1492.

Anche la comunità della maggioranza musulmana sunnita aveva il suo millet, negato invece alla minoranza sciita. Questa divisione statale in comunità religiose si inseriva nella tradizione, ed era tipica dei molti imperi multinazionali che si erano succeduti nel Vicino Oriente, ma gli Ottomani la innovarono, istituzionalizzandola attraverso precise regole di funzionamento e rendendola un elemento integrante dell’assetto imperiale.
Le altre religioni erano considerate espressione di Stati stranieri e, quindi, non avevano il diritto di costituirsi in millet distinti, e i loro aderenti potevano solo far parte di quelli ufficialmente riconosciuti.

Francesco Paolo Tocco

Estratto dal libro:

Un Medioevo mediterraneo
Mille anni tra Oriente e Occidente

Lorenzo Tanzini e Francesco Paolo Tocco
Carocci editore, 2020

L’impero ottomano – bigliografia essenziale:
F. Babinger, Maometto il conquistatore e il suo tempo, Einaudi, 1967.
Colin Imber, The Rise of the Ottoman Empire (1300-1574), London and New York, Longman, 1988.
J. L. Bacqué Grammont, Storia dell’impero ottomano (a cura di Robert Mantran), Argo, 1999.
R. Mantran (a cura di), Storia dell’Impero ottomano, Argo, 2011.
J. McCharty, I turchi ottomani. Dalle origini al 1923, Ecig, 2005.
F. Franceschi (a cura di), Il Rinascimento italiano e l’Europa. IV, Commercio e cultura mercantile, Colla, 2005.
Donald Quataert, L’Impero Ottomano, Salerno, 2008.
S. Faroqhi, L’Impero ottomano, il Mulino, 2008.
A. Barbero, Il divano di Istanbul, Sellerio, 2015
Lorenzo Tanzini – Francesco Paolo Tocco, Un Medioevo mediterraneo. Mille anni tra Oriente e Occidente, Carocci editore, 2020.

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