La battaglia di Civitate

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Cavalieri normanni raffigurati nell’Arazzo di Bayeux

Nell’anno del Signore 1016, quaranta cavalieri normanni di ritorno dalla Terra Santa sbarcano a Salerno, in quel momento assediata dai saraceni. I cavalieri del nord si presentano a Guaimario IV, signore di Salerno e gli offrono la loro spada. Poi salgono a cavallo e, come racconta il cronista Amato di Montecassino, travolgono i saraceni che assediavano la città. Il signore di Salerno li premia con terre e averi.

Da quel momento fu un susseguirsi di arrivi dal nord Europa di cavalieri pesanti normanni e un lungo elenco di infeudazioni da parte dei duchi longobardi, ben lieti di avere le spade normanne al loro fianco per respingere i saraceni e scacciare i bizantini. Bari, ultima roccaforte greca, cadde nel 1071 quando il sud Italia era, ormai, in mano normanna.

La svolta politica della conquista dell’Italia, però, si può individuare nella battaglia di Civitate tra le forze normanne e un esercito messo insieme da papa Leone IX in risposta alla richiesta di aiuto che giungeva dalle popolazioni del Mezzogiorno.

La conquista del sud Italia e la condizione della popolazione A furore normannorum libera nos Domine è il grido di dolore che, secondo i cronisti del tempo, da più parti del sud Italia si levò alla volta del Pontefice. I cronisti ricordano come già «nel giugno del 1053, poco prima della battaglia di Civitate, si avvicinava il tempo delle messi, ma prima che i contadini le avessero raccolte, quando erano ancora verdi, già i Normanni, mancando di pane, le riscaldavano sul fuoco e le mangiavano tostate». Anche le vessazioni sulla popolazione erano molteplici: «Molti venivano dal Sud, con gli occhi cavati, i nasi tagliati, le mani e i piedi troncati, lamentandosi da far pietà della crudeltà dei normanni».

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I territori normanni nel sec. XII

Le fonti insistono sul «carattere banditesco dell’occupazione normanna in Italia», soprattutto nel periodo in cui i loro comandanti si insediano nei territori di nuova conquista, delineando «una lunga fase iniziale» nella quale «non ci sono dubbi di sorta, poiché Roberto il Guiscardo devastò intere regioni. Fu a questo punto che papa Leone IX, un combattivo alsaziano di circa cinquant’anni d’età, protagonista della grande riforma della Chiesa, decise di impugnare le armi per mettere fine all’anarchia». Il Pontefice, intenzionato a porre fine alle angherie e spoliazioni dei normanni, raccolse «un esercito piccolo, ma di forti cavalieri della sua gente» per andare a combattere i normanni in una battaglia nel corso della quale ci fu «un’immensa strage, molto sangue si sparge dall’una e dall’altra parte» e alla fine «sono vinti coloro che combattono per la giustizia: vincono coloro che combattono la giustizia» secondo Brunone di Segni. Una battaglia che «ebbe un’importanza superiore a quella che si suole ad essa attribuire» e che secondo Gregorovius «è forse la più memoranda che registrino gli annali del papato temporale».

L’avvicinamento alla battaglia Le truppe pontificie, 2.400 fanti longobardi e italici e 700 cavalieri svevi, si muovono da Roma verso Benevento, senza toccare la città, dirigendosi verso il Biferno, vicino Guardia Alfiera. La direttrice di marcia è lungo la vecchia via Traiana-Frentana, con l’intenzione di riunirsi con le truppe del catapano bizantino Argiro, in marcia da Bari con almeno tremila uomini, nei pressi di Civitate.

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Fanti longobardi in una miniatura

I normanni, guidati da Umfredo di Altavilla, Riccardo di Aversa e Roberto il Guiscardo, si mettono in marcia per intercettare le truppe pontificie. La notizia dell’arrivo dell’esercito del Papa, però, induce molte popolazioni a chiudere le porte delle città e negare i rifornimenti ai normanni. «La loro situazione era abbastanza grave. Le popolazioni, che per i loro continui soprusi, avevano invocato l’aiuto del papa, traevano speranze ed incoraggiamento dall’arrivo di Leone IX e chiudevano loro le porte. Si doveva avanzare attraverso una regione decisamente nemica, che per il momento non dava più le vettovaglie, ma che poi avrebbe potuto insorgere a lotta aperta». Per questo i normanni avevano poca intenzione di combattere e pensavano ad incontrare il Papa, inviando un’ambasceria e promettendo obbedienza, purché li lasciasse in pace nelle vicende contro i bizantini. I normanni potevano contare su tremila cavalieri e meno di mille lance appiedate. Girando al largo della città di Troia, fortificata e presidiata dai bizantini, puntarono sulla piana di Civitate e a metà giugno si trovano davanti al nemico.

«L’arrivo dei normanni parve disorientare i piani di guerra del Pontefice. Ma gli avventurieri nordici, ritenendo per fama che i mercenari tedeschi fossero moltissimi, bramavano essi pure evitare il combattimento, il cui esito appariva abbastanza dubbio». Furono, quindi, iniziate delle trattative. Leone IX è, però, mal raccomandato, circondato da pessimi consiglieri, soprattutto quegli «alamanni e teutonici che si facevano beffe, per via della loro statura e della loro complessione, dei normanni, più bassi di loro». Il Pontefice spera nell’arrivo dei bizantini. I 700 svevi sono superbi, il Papa non riesce a farli ragionare, ma che cosa puoi dire a guerrieri che combattono valorosamente e con crudeltà, che «preferiscono morire piuttosto che voltare le spalle» e pur essendo digiuni di tecniche di guerra a cavallo rispetto ai normanni, «sono comunque temibili con la spada: infatti sono specialmente lunghe e acuminate le loro spade, capita spesso che colpendo il corpo dal capo lo dividano in due, e stanno a pie’ fermo, quando smontano dai cavalli». Gli svevi sono fiduciosi del numero soverchiante e non vogliono trattare, anzi, «imposero ai nemici l’andata via, previo disarmo, dall’Italia, o la guerra. Leone IX, benché riluttante, dovè piegarsi alla volontà dei duci tedeschi».

I normanni, dal canto loro, erano stanchi e digiuni da tre giorni, non avrebbero voluto combattere, ma visto il fallimento dell’ambasciata si preparano alla battaglia: Umfredo al centro, Riccardo di Aversa all’ala destra e Roberto il Guiscardo, con i suoi calabresi, all’ala sinistra (di riserva, non avendo un fronte nemico diretto al quale opporsi). L’esercito di Leone IX è disposto su due fronti: quello dei cavalieri svevi, in faccia ad Umfredo e quello della soldatesca italica e longobarda (guidati dal duca Gerardo di Lorena e dal principe Rodolfo di Benevento con reparti provenienti dal Lazio, dalla Campania, dalla Marca Anconitana e dai Marsi), dirimpetto a Riccardo di Aversa.

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Piano della battaglia di Civitate. Rossi: Normanni. Blu: Coalizione pontificia. Verde: collina di Civitate (da Wikipedia.it)

La battaglia Fra i due accampamenti si trovava una collinetta che impediva agli avversari di vedersi direttamente. I normanni, saltata la trattativa, occupano immediatamente quell’altura e guadagnano immediatamente un vantaggio che risulterà favorevole alla vittoria: caricare il fronte nemico a tutta velocità dall’alto verso il basso.

Dall’alto della collina i primi a gettarsi sul nemico sono gli uomini di Riccardo d’Aversa. Una violenta carica di cavalleria, specialità dei normanni, che taglia in due e getta nello scompiglio le forze pontificie volgendole in fuga «per plana, per ardua» scrive il poeta Guglielmo di Puglia. I normanni stringono le fila, serrano gli scudi e pungono con le lance quello che, sempre secondo il poeta, è un «contingente eterogeneo» ed «ammassato senza un minimo di ordine militare, non avendo i soldati nessuna idea di come disporsi in ordine di battaglia». La compattezza della cavalleria normanna trova facile penetrazione nelle forze papali che «mostrano ben presto di non essere altro che una turba fugace disposta a piantare in asso i propri alleati sul campo». I cavalieri di Riccardo di Aversa «giunti di fronte alle fila longobarde, penetrano attraverso le maglie dello schieramento, frazionandolo e rompendone l’ordine, costringendo le unità ad una rotta disordinata», poi si gettano all’inseguimento dei fuggiaschi lungo le sponde del Fortore, compiendo una strage. I fanti gettano le armi e gli scudi, rompono la formazione compatta che poteva significare la salvezza, resistendo alle cariche e cercano scampa nella fuga. Inutilmente. I normanni infilzano alla schiena quanti fuggono, rompono elmi e teste con le spade, molti vengono calpestati dai cavalli.
Umfredo d’Altavilla, al comando del centro normanno, invece, si trova di fronte la forte resistenza dei cavalieri svevi mandati dall’imperatore Enrico III a combattere per il Papa. In questo settore le ripetute cariche normanne non riescono a sfondare i ranghi teutonici. I cavalieri svevi, probabilmente appiedati per lo scontro, menano «fendenti terrificanti che vuotavano d’arcione i normanni o troncavano le gambe dei cavalli». E spingono in avanti la propria posizione. Lo schermo di scudi di apre per falciare i nemici, poi si richiude e avanza di qualche passo. E poi ancora. Tanto che lentamente gli svevi riguadagnano la collina e cacciano indietro le forze normanne.

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Roberto d’Altavilla, detto Il Guiscardo (L’Astuto), in un dipinto ottocentesco nella Reggia di Versailles

È a questo punto che entra in scena l’eroe della giornata, colui che assurgerà a comandante indiscusso dei normanni in Italia: Roberto il Guiscardo. Viste le difficoltà incontrate dal fratello, Roberto d’Altavilla, si lancia alla testa del suo contingente di calabresi contro gli svevi. I quali indietreggiano sotto la spinta del Guiscardo. Indietreggiano, ma non si arrendono, continuano a colpire e uccidere. «Nel furore della battaglia era ormai impossibile chiedere pietà, né il Guiscardo poteva permettersi di lasciare in vita guerrieri così irriducibili. I germanici si sistemarono in quadrato e attesero che i normanni tornassero alla carica solo per falciarli ancora e ancora, fino a che la divisione di riserva, magnificamente controllata dal Guiscardo, desistette dall’inseguimento dei fuggitivi e tornò indietro per annientare l’ultima resistenza. Gli impavidi svevi caddero uno dopo l’altro, dopo aver inflitto perdite terribili ai loro avversari». Come accaduto ad Hattin, il 4 luglio del 1186, ai cavalieri templari e ospitalieri, ben consci del loro destino se presi vivi dei musulmani, «i cavalieri svevi cadono nella loro interezza sotto i colpi dei normanni, non viene data loro la possibilità di resa perché combattono fino all’ultimo uomo, in altre circostanze, altri personaggi vengono fatti prigionieri e poi liberati dietro lauti riscatti. Non si accetta il fatto che dei nobili possano arrendersi a dei mercenari, ci si batte con la convinzione di essere comunque superiori, se non per nascita almeno per arte della guerra. Un’ipotesi plausibile è che la maggior parte dei cavalieri svevi abbia scelto di appiedarsi, ancor prima dell’inizio della battaglia per poi stringersi a cerchio nel tentativo di prolungare la resistenza contro la cavalleria normanna, negandosi ogni possibilità di fuga».

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Quadro politico della penisola italiana tra il 1040 e il 1185. Il Meridione è ancora in gran parte in mano bizantina, a eccezione dei territori di Salerno e Benevento (da Wikipedia.it)

La conclusione L’esercito papale è sconfitto, annientato e lo stesso pontefice viene fatto prigioniero. Lascia le mura di Civitate e si consegna ai normanni, pronto al martirio, quando accade l’inverosimile: «La gente dei normanni inginocchiata davanti a lui lo venera, implorando il suo perdono. Il papa benignamente accoglie questi che sono curvi di fronte a lui; tutti quanti gli baciano i piedi» racconta Guglielmo Apulo. I feroci uomini del nord «si inginocchiarono davanti a lui, ottenendo il riconoscimento delle loro conquiste e trattandolo con cortesia inconsueta e, soprattutto, volgendo la propria sete di conquista verso la Sicilia».

Amato di Montecassino scrive: «Il Papa aveva paura e il clero tremava. E i normanni vincitori gli infusero speranza e promisero che con loro il Papa sarebbe stato sicuro, e lo condussero con tutta la sua gente a Benevento, provvedendolo continuamente di pane e di vino e di tutto ciò che gli poteva abbisognare». È Roberto il Guiscardo a prestare il giuramento feudale al Pontefice, dichiara i titoli di Leone IX, di colui dal quale deriva tutto ciò che possiede «e possedendolo già, il suo signore eminente non avrebbe potuto togliergli» alcunché. Il Guiscardo giura di servire la Chiesa romana in cambio del riconoscimento del dominio sul Sud.
Per John Julius Norwich, la battaglia di Civitate «fu altrettanto decisiva, per i normanni italiani, quanto lo sarebbe stata per i loro fratelli e cugini quella che avrebbe avuto luogo, tredici anni più tardi, a Hastings in Inghilterra: mai più sarebbero stati posti in discussione i diritti basilari dei normanni nell’Italia meridionale; mai più si sarebbe pensato a cacciarli dalla penisola».

Umberto Maiorca

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