Il porco con la cinta

da

Oltre alla nota raffigurazione del maiale cintato condotto da un contadino alla città di Siena nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti sugli Effetti in città e campagna del Buongoverno, l’iconografia medievale ci mostra un’ampia gamma di rappresentazioni di tale tipologia di suino in molte aree geografiche della nostra Penisola ed anche in ambito europeo.

Effetti del Buon Governo in campagna, Ambrogio Lorenzetti (1338-1339), Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena. Il mailae di Cinta senese è visibile sulla sinistra, mentre precede il suo custode lungo la salita verso le mura cittadine

Certo, la rappresentazione senese è la più precisa e ci mostra una fisionomia simile a quella del cinghiale: il maiale ha il pelo scuro avvolto da una fascia chiara all’incirca a metà busto, la Cinta appunto, un corpo abbastanza snello, una testa piccola e ben incassata nel corpo dalla quale sporgono lunghe zanne.

L’uccisione del maiale di Cinta in un bassorilievo della chiesa di Santa Maria della Pieve ad Arezzo

A dispetto di ciò, non esiste alcuna testimonianza scritta dell’epoca che citi tale specie. Ad esempio, non troviamo nessun riferimento nei documenti dello Stato senese che trattano dell’approvvigionamento cittadino, né negli statuti dell’arte dei macellai, né nei registri di gabelle delle merci; neppure la novellistica d’area toscana ne parla, malgrado le storie presentino non di rado il maiale al centro delle vicende narrate.

Ma seppur con minor dovizia di dettagli anche nelle altre rappresentazioni d’età medievale l’aspetto risulta essere assai simile. Si confronti, per citarne alcune, il bassorilievo della chiesa di Santa Maria della Pieve ad Arezzo, il Sant’Antonio del Duomo di Orvieto, finanche gli affreschi della chiesa di Santo Stefano ad Artegna vicino Udine. Insomma, una documentazione iconografica che non lascia alcun dubbio sulla larga diffusione del maiale cintato in età medievale sul territorio italiano.

Perché non troviamo nella documentazione scritta la necessità di specificare quella razza, tanto presente nell’iconografia? La risposta è, a mio avviso, più semplice di quanto si possa immaginare. Le fonti scritte non citano alcuna specificità di razza di Cinta suina, semplicemente perché unica era considerata la specie del maiale autoctono.

L’animale, infatti, da sempre allevato allo stato brado nei boschi e soggetto a incroci con simili e cinghiali, era evoluto in una razza comune, cosicché il mantello cintato non si considerava come elemento di distinzione, ma semplice variazione cromatica del pelo. Troviamo conferma di ciò proprio dall’iconografia che ci mostra numerosi casi di maiali dal pelo scuro o cintati rappresentati insieme e dalle quali non si evidenzia alcuna differenza morfologica.

Cinta senese in un affresco nella chiesetta di Santo Stefano in Clama ad Artegna, Udine

Si veda, ad esempio, il Tacuinum sanitatis, un codice di dietetica medievale illustrato nel XIV-XV secolo, in cui sotto la miniatura riguardante i maiali troviamo rappresentati tre o quattro esemplari indistintamente dal manto scuro e cintato, così come in un affresco presente nella chiesa di Santa Maria Assunta a Vallo di Nera in cui il sant’Antonio Abate è raffigurato insieme a due suini uno dal manto nero e l’altro cintato.

Quindi cercare notizie storiche sull’attuale maiale di Cinta senese equivale a parlare tout court del maiale medievale, presente in ambito toscano e italiano in un’unica razza ancora molto vicina all’epoca, come vedremo più avanti, per le modalità di allevamento in aree boschive, a quella del suino selvatico.

Chiarito questo aspetto, veniamo a parlare del consumo della carne nel Medioevo e iniziamo facendo un lungo salto all’indietro nel tempo.

Anno 776. A Pavia Carlo Magno siede ad un banchetto in suo onore, due anni dopo la conquista della capitale longobarda che lui ha posto sotto il dominio dei Franchi. Adelchi, figlio dello sconfitto re Desiderio, per sfida trova il modo di introdursi anonimamente al convivio in onore del vincitore, grazie all’aiuto di alcuni suoi fedeli ora passati alle dipendenze del nuovo sovrano. A tavola da gran dimostrazione di sé mangiando con foga una gran quantità di carne e sminuzzando con i denti le ossa che, gettate sotto la tavola, vanno a formare un grosso mucchio.

Questo vigore non sfugge a Carlo Magno che ha notato la sua voracità e che, quando il giovane improvvisamente scompare, si affretta a chiedere chi fosse quel soldato e saputa la vera identità non si meraviglia che si trattasse di un valoroso guerriero, proprio il figlio del re longobardo da lui sconfitto. Non deve stupire tale parallelo, in quanto il consumo smisurato della carne era, durante i primi secoli del Medioevo, tra le più riconosciute espressioni di forza dei potenti e abitualmente associata all’appartenenza ad un alto ceto sociale.

Carlo Magno con il globo crucifero e altre insegne imperiali in un dipinto di Albrecht Dürer

Non sorprende, quindi, che nell’888 – come narra in una cronaca del tempo Liutprando da Cremona – la scelta fra due pretendenti al trono dei Franchi vedesse escludere Guido, Duca di Spoleto, perché correva la fama che mangiasse e bevesse poco. Restare privi di carne era talmente intollerabile per i potenti che poteva essere proprio questa la pena inflitta dal Re agli ufficiali che venivano meno al loro dovere, come ci indicano alcune norme dei Capitolari carolingi, le leggi emanate da Carlo Magno per il governo del suo regno, dove tra le pene descritte poteva comparire un certo numero di giorni di astinenza dalla carne. Sempre quella la punizione inflitta dalla Chiesa in seguito a particolari peccati commessi dai potenti, pena che in sostanza significava l’emarginazione dalla società dei forti.

L’età altomedievale fu un’epoca in cui si consolidò il dominio della carne nel sistema alimentare dell’intera società europea, quale prerogativa non solo delle classi sociali superiori, ma anche di quelle subalterne. Questo si dovette ad un favorevole rapporto tra popolazione e risorse del territorio basato soprattutto sullo sfruttamento dei boschi, delle aree incolte, dei pascoli e delle paludi, spazi di fatto accessibili a tutte le categorie sociali.

Nei primi secoli del Medioevo, dunque, siamo di fronte ad un sistema alimentare dominato dal consumo della carne, ma questo rappresentava un elemento di continuità o di rottura del precedente modello d’età romana?

Certamente tra i Romani il consumo della carne era diffuso e apprezzato quale alimento di pregio, sebbene non avesse quel valore dominante che assunse in età altomedievale. Il sistema alimentare romano si basava piuttosto sul consumo di cereali ed ortaggi ed era assai più vario. Questo si doveva ad un sistema agrario consolidato e composito, facilitato dall’ottima posizione climatica della penisola italiana e dalla sua naturale predisposizione alle colture cerealicole ed ortofrutticole.

La società romana, poi, molto più evoluta delle popolazioni barbariche, disponeva di precetti medici basati in gran parte sulla dietetica e conosceva bene i rischi di un eccessivo consumo della carne. Inoltre la cultura greco-romana condannava gli eccessi e si basava su valori quali la sobrietà e l’equilibrio, qualità solitamente riconosciute ai grandi uomini. Ciò si riscontrava anche a tavola, nel linguaggio universale espresso attraverso il consumo del cibo. Così, i banchetti degli aristocratici, quando eccedevano in sfarzo ed esibizione venivano criticati ed erano oggetto di riprovazione.

Al contrario, nelle biografie di Alessandro Magno, di Augusto, di Alessandro Severo, si legge come si facessero sempre servire gli alimenti in misure ragionevoli, facendo onore ai piaceri della tavola senza cadere in eccessi, secondo canoni di eleganza, sobrietà ed equilibrio.

L’imperatore Massimino il Tracio (Tracia, 173 ca. – Aquileia, 238), Musei Capitolini, Roma

Fu quindi con la caduta dell’Impero Romano e l’avvento dei popoli del Nord che tale modello iniziò a mutare. Massimino il Tracio, primo imperatore di stirpe barbarica, si narra bevesse fino a 20 litri di vino e arrivasse a mangiare 40 libbre (circa 18 kg) di carne al giorno e sembra non avesse mai provato in vita sua i prodotti dell’orto.

Tra le carni, quella più consumata in età medievale era senza dubbio il maiale in quanto unico animale allevato esclusivamente per la macellazione. Il suo elevato valore alimentare era dovuto ad una serie di caratteristiche che lo rendevano unico: la rilevanza del suo peso e la facilità con cui venivano impiegate le sue parti, ma anche la speciale predisposizione delle carni alla conservazione. Di norma, infatti, solo una minima parte dell’animale era consumata fresca, mentre il resto veniva preparato per essere conservato mediante la salatura, l’insaccatura o l’affumicazione. Fondamentale poi l’impiego del grasso del maiale, sotto forma di strutto o lardo, consumato sia come cibo a sé stante sia come base di condimento di numero-se pietanze.

L’impiego in tal senso dello strutto andrà via via soppiantando quello dell’olio, usato largamente in età romana, marcando simbolicamente un cambio culturale introdotto dai nuovi dominatori di origine germanica, completamente alieni alla coltura dell’olivo. Che il maiale fosse l’animale da carne per eccellenza lo dimostra il fatto che i suini fossero assunti a principale “unità di misura” della produzione silvo-pastorale. La qualità dei boschi infatti era valutata in base al numero dei capi che vi si potevano allevare “silva ad saginandum porcus” (bosco per ingrassare porci).

Nel Breve della corte di Migliarino, ad ovest di Carpi, in un insieme di norme amministrative risalente al X secolo, leggiamo come un clima favorevole alla produzione di ghiande fosse ritenuto altrettanto importante che l’andamento di cereali e vino. E come poteva essere diversamente se oltre 2/3 del terreno erano a boschivo e tra le attività produttive dominava l’allevamento del maiale, stimato in oltre 4000 capi annui.

Nel consumo di carne in età medievale trovava un posto rilevante anche quella ovina. Nonostante questi animali avessero un ruolo importante nella produzione di latte e lana, le carni di pecora e di agnello, ma anche di capra, erano spesso presenti nelle tavole medievali grazie alla loro qualità e al particolare ruolo che da sempre avevano assunto in ambito simbolico religioso quali animali sacrificali. Molto più bassa era invece la presenza di bestie grosse quali bovini ed equini, troppo importanti come forza lavoro e mezzo di trasporto. Eccetto i capi di vitello, uccisi talvolta per soddisfare le richieste alimentari dei potenti, le carni bovine erano poco apprezzate perché macellate a fine ciclo lavorativo, quindi molto difficili da trattare in cucina.

Una delle raffigurazioni del maiale nei Tacuina sanitatis

Anche il cavallo aveva un limitato consumo alimentare, non solo per la sua utilità all’uomo, ma in età medievale ancor più, a causa del ruolo simbolico che assunse in ambito sociale: emblema e rappresentanza del prestigio del suo cavaliere. Basti pensare agli affronti fatti all’aspetto fisico dell’animale, come il taglio della coda, quando si voleva umiliare il proprietario. Una vera e propria offesa alla dignità dell’uomo, tanto che nell’editto longobardo di Rotari (643 d.C.) tale pratica era oggetto di pesanti condanne.

Addirittura Isidoro di Siviglia (560-636), parla del cavallo più volte nei sui scritti filosofici in toni di umanizzazione dell’animale: «Solius equi est propter homini lacrimari et doloris affectu sentire» (Solo il cavallo è il più vicino agli uomini nel piangere e nel sentire le pene affettive). Importante era il consumo di animali di bassa corte, come galline, oche, anatre, anche se doveva essere contenuto per il loro ruolo nella produzione di uova. L’impiego di tali carni fu comunque prerogativa dei ceti meno abbienti e, in quanto carne umile, ebbe larga diffusione in ambito monastico.

Notevole, era poi, il ruolo della caccia, praticata in età alto medievale sostanzialmente da tutti. Mentre per i potentes aveva una funzione prevalentemente ludico-sportiva, per i ceti popolari rappresentava una parte non secondaria del loro sostentamento. Il cervo, ad esempio, era per re e nobili la preda per eccellenza più prestigiosa, ma ciò non toglie che fosse presente anche nelle tavole dei più umili, in particolare nelle zone a scarsa densità abitativa. Ad esempio nella bassa pianura del Po, verso l’XI secolo, i contadini della zona di Sermide, vicino Mantova, erano tenuti a consegnare ai signori locali una quota degli animali catturati, in particolare “di ogni cervo o cerva la testa fino a metà collo, i lombi, il grasso, il quarto posteriore”.

La caccia ai cinghiali nel bosco (riproduzione di una miniatura medievale)

Importante infine il ruolo del cinghiale che mescolava, abbiamo già detto, le proprie tracce con quelle del maiale allevato allo stato brado, con il risultato di un’effettiva somiglianza fisica delle due specie, dovuta sia alle comuni abitudini di vita che alle numerose occasioni di incrocio. Così come rilevante era il consumo di piccola selvaggina: lepri, fagiani, pernici, quaglie, volatili di ogni tipo, uccelli acquatici. Questi ultimi molto apprezzati e allevati allo stato domestico come ci indica ancora l’editto di Rotari per gru e cicogne.

A partire dall’XI secolo si assistette ad una crescente redditività del sistema agricolo che ebbe come effetto la ripresa dei mercati e la rinascita urbana. L’importante sviluppo demografico che caratterizzò le città italiane andò pian piano a modificare il modello alimentare tipico del sistema feudale basato sul consumo predominante della carne, a vantaggio di un nuovo modello, caratterizzato da una maggior diversificazione dei prodotti.

La crescita della popolazione urbana vide di fatto il mutare delle sue strutture sociali. Città come Siena rappresentano un perfetto esempio di tale evoluzione, in cui, accanto all’aristocrazia, costituita dagli antichi milites incittadinati, si andò formando una stratificazione sociale numerosa e composita, che andò a rappresentare le numerose categorie del sistema produttivo, dagli imprenditori ai professionisti agli artigiani fino ai salariati.

Garantire l’ottimale approvvigionamento di alimenti e materie prime a tutta la popolazione urbana non era un problema semplice e divenne un aspetto di primaria importanza per le autorità cittadine. Da qui la crescente attenzione al territorio e il rafforzarsi di una politica di sviluppo agrario che mirava ad aumentare sia le aree a coltivo che quelle a pascolo, in cui si allevavano animali destinati soprattutto alla produzione di generi alimentari e di materie prime per l’artigianato locali quali pelli e lana. Pare chiaro come tutto ciò avesse un deciso riflesso anche nei consumi alimentari, che videro un netto incremento dei prodotti vegetali in particolare legumi, cereali ed ortaggi.

In questo nuovo contesto, la carne, seppur perdendo il ruolo dominante, mantenne un posto di primo piano nella cultura alimentare. Allo stesso tempo, in seguito alla minor disponibilità pro capite, si assistette ad una rilevante crescita del valore di certe tipologie pregiate. In effetti, nelle città medievali, sebbene tutti consumassero carni macellabiles, molto diversa era la loro presenza sulle mense dei commensali sia per qualità che per quantità.

Maiali Cinturini in un affresco della Chiesa di Santa Maria a Vallo di Nera in Valnerina, Perugia

Cibo del ricco e cibo del povero, quindi, trovavano nella tipologia di carne e nella sua modalità di preparazione un forte elemento di distinzione sociale. Carni giovani e tenere, alla fiamma o arrosto, erano prerogativa di pochi: costavano molto ed avevano una minor resa, certo a vantaggio del gusto. Ai più invece, quando non dovevano accontentarsi delle frattaglie, erano destinate le carni degli animali adulti e la forma di cottura era solitamente il bollito, per la sua resa maggiore e perché capace di “addomesticare” anche le carni più dure.

La selvaggina come abbiamo detto restava prerogativa della classi agiate, nobili ed alta borghesia. Ne è brillante testimonianza una famosa novella di Boccaccio dedicata all’arguzia del cuoco Chicchibio che riesce ad evitare una sonora punizione per aver portato in tavola, durante la cena offerta dal suo signore ad un importante ospite, una gru arrosto senza una coscia, in quanto aveva ceduto alle lusinghe di una ammaliante servetta tanto desiderosa di assaggiare una carne, evidentemente, a lei poco usuale.

A differenza di Firenze, il cui territorio più ristretto e densamente popolato non favoriva l’allevamento, Siena produceva e commerciava carne in grande quantità grazie ai grandi pascoli su cui aveva il dominio, ubicati praticamente nell’intera zona meridionale della Toscana.

A fine Duecento, momento di massima espansione della città, Siena appare come una meta quasi obbligata per piccoli e grandi allevatori toscani in cerca di rifornimenti. I documenti dell’epoca ci segnalano come arrivassero assiduamente da Pisa, Lucca, Firenze, San Miniato, Volterra, Figline, Colle Val d’Elsa, San Gimignano, Mugello. Naturalmente tutto ciò comportava una grande offerta nella città di carni al dettaglio, garantita dai tanti macellai senesi che, tra Due e Trecento, si stima raggiungessero circa le 200 unità.

Il grande mutamento sociale seguito alla rinascita urbana e la grande richiesta di approvvigionamento introdusse, abbiamo detto, una maggior varietà di alimenti e limitò i consumi della carne, ma non corrispose ad una diversificazione nelle tipologie di carni consumate.

Nel 1283, ad esempio, il Consiglio Generale di Siena ordinava, al fine di controllare i prezzi delle carni, la costituzione di un’apposita commissione per la vendita di “carnes, porchie, castratine et bovine”. Un ordine, quello con cui venivano citate le varietà di carni, da osservare bene in quanto si ripeteva ad ogni delibera in modo quasi ossessivo e non affatto casuale, tanto da marcare un dominio di una carne sulle altre. Al tempo, infatti, le parole nei testi scritti avevano un peso e la modalità di elencare le carni necessarie alla città rispondeva ad una gerarchia chiara che, in questo caso, segnalava il dominio delle carne suine e ovine su quelle bovine e sulle altre minori.

La bottega di un macellaio del XIV secolo. Dalla rastrelliera pendono la carcassa intera di un maiale e altri pezzi di carne, mentre il commerciante prepara dei tagli per il cliente

A Siena la vendita era prerogativa dei macellai, detti anche beccai, sui cui banchi si trovavano diversi tagli, da quelli più nobili, come cosce e lombi, alle parti secondarie quali testa, peducci, interiora. Oltre ai macellai, erano poi molto attivi i pizzicaioli, gli addetti alla vendita delle carni essiccate di maiale, molto apprezzate e richieste nel mercato cittadino. Questi commercianti si distinguevano nettamente dai macellai, operavano completamente in proprio e tenevano una loro Corporazione. Erano dediti alla vendita di tutti i prodotti essiccati, comprese spezie e legumi, tanto che il termine pizzicaiolo è rimasto fino ai nostri giorni espressione di tale tipologia di commerciante.

Molti macellai senesi allevavano in proprio i branchi di maiali in numeri che variavano da decine a centinaia di capi. Per tenere a pascolo tanto bestiame era necessario lo spazio boschivo particolarmente adatto all’ingrasso. Pregiati erano quindi all’epoca i querceti ricchi di ghiande caloriche particolarmente apprezzate dall’animale. Se in molte aree italiane la crescita della popolazione urbana mise a rischio lo spazio boschivo, Siena non conobbe mai questo problema, disponendo delle grandi distese boschive della Maremma e dell’Amiata pressoché intatte e selvagge.

Solo l’antica e preziosa foresta della Selva del Lago, prossima alla città, fu murata nel Duecento per limitare gli attacchi di disboscamento. L’area boschiva era talmente importante che i macellai-allevatori investivano volentieri in querceti per non dover dipendere da nessuno nella delicata fase dell’ingrasso, sebbene le autorità comunali, in alternativa alla proprietà privata, garantivano il ricorso alle foreste comunali.

Sui boschi “da porco” pubblici era previsto che gli allevatori potessero mettere all’ingrasso i maiali a partire dall’autunno. La maggior parte di tali selve erano in Maremma, da Roccastrada a Montemassi, da Campagnatico a Roccalbegna, fino alle coste di Talamone, mentre fuori da quest’area l’unico bosco pubblico citato nei contratti era Monte Vasone nella Montagnola senese.

Cinta senese, particolare dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti

A fine Medioevo, nonostante una maggior diversificazione di alimenti introdotti nel mercato cittadino che limitarono il “primato” della carne come nei secoli precedenti, nonostante i precetti dei medici del tempo che ne sconsigliavano l’assunzione alle persone di “complessione umida”, il consumo della carne di maiale, rimase il più importante e potremmo dire il più “democratico”, perché grazie al suo impiego completo nella macellazione e al differente pregio delle sue parti era destinata alle mense di tutte le categorie sociali.

Un po’ ovunque nella Penisola, ma particolarmente i senesi amavano a tal punto le carni del maiale da pagarle tanto quanto quelle pregiate di castrone, e perfino di più se si trattava delle “carnes schenarum quarti tetri porci”, le richiestissime lombate. E così, ancor più chiaro ci appare il significato della presenza nel grande affresco del Buongoverno senese del maiale cintato che in primo piano vediamo condotto alla città, con serena dignità, ignaro di un destino certo che deve aver fatto felice il palato dei nostri gloriosi antenati.

Maurizio Tuliani

error: Tutti i contenuti di questo sito web sono protetti.