Il Libro di Kells, un miracolo su pergamena

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«Questo libro contiene l’armonia dei quattro Evangelisti con quasi ad ogni pagina illustrazioni diverse, che si distinguono per la varietà dei colori. Qui potresti vedere il volto della Maestà, divinamente disegnato, qui i simboli mistici degli Evangelisti, ciascuno con le ali, ora sei, ora quattro, ora due; qui l’aquila, là il bue, qui l’uomo e là il leone, e altre forme quasi infinite. Guardali superficialmente con uno sguardo ordinario, e potresti pensare che sono cancellature e non lavoro curato. La più raffinata abilità ti circonda, e non la noteresti. Guardalo con più attenzione e penetreresti nel cuore stesso dell’Arte, discernendo delle complessità così delicate e sottili, così piene di nodi e di legami, con dei colori così freschi e viventi, che crederesti si tratti dell’opera di un angelo, e non di un uomo». Così Giraldo Cambrense, chierico gallese vissuto a cavallo tra il XII e il XIII secolo, descrive lo straordinario manoscritto che ebbe la fortuna di contemplare in un monastero a Kildare, non lontano da Kells, in Irlanda. Molto probabilmente ricordava male, non certo la sublime qualità del codice, ma il luogo dove lo aveva visto, che doveva essere proprio Kells, nella cui chiesa abbaziale il prezioso volume era a quei tempi custodito.
Prezioso più dell’oro. Si tratta, in effetti, di uno dei grandi capolavori dell’arte manoscritta occidentale: compilato e decorato tra gli ultimissimi anni dell’VIII e l’inizio del IX secolo nel monastero scozzese di Iona, esso contiene i Quattro Vangeli accompagnati da superbe miniature, opera di almeno tre amanuensi ignoti. Il testo, vergato in maiuscola insulare con inchiostro nero, rosso, porpora e giallo, non è completo: il racconto evangelico si interrompe infatti al capitolo 17, versetto 13 del Vangelo di Giovanni. Perché? Probabilmente il codice, in fase di compilazione, fu trasferito da Iona a Kells per metterlo in salvo dall’ennesima incursione vichinga. Ne restano 340 carte, o folia, ma ne mancano una trentina: furono perdute, forse, durante la razzia del monastero perpetrata nel 1006, quando mani sacrileghe strapparono via la pesante legatura in oro e gemme del codice, l’unico elemento giudicato di valore. Invece si sbagliavano, perché il testo rappresenta uno scrigno di meraviglie forse ancora più prezioso.

Una pagina dell'Evangelario

Una pagina dell’Evangelario

L’Evangeliario fu a lungo attribuito alla mano di san Columba, il celebre missionario noto anche come Colum Cille, ma non poteva essere perché morì nel 597, quindi parecchio tempo prima rispetto alla datazione effettiva del codice, stabilita dal puntuale studio paleografico. Oggi il libro rappresenta uno dei vanti del Trinity College di Dublino (che lo conserva con la segnatura IE TCD MS 58), e a ragione: le sue straordinarie iniziali miniate e le illustrazioni a tutta pagina che lo arricchiscono non solo regalano un piacere estetico assoluto per gli occhi a chi, da secoli, lo ammira, ma rappresentano una delle più intense testimonianze della religiosità insulare ed europea, un profondo e preciso modo di vivere il Sacro e trasportarne lo spirito nell’Arte vivificandolo. Per questo, il manoscritto è entrato nel 2011 nel programma “Memoria del mondo” dell’Unesco, che ha lo scopo di censire e salvaguardare il patrimonio documentario dell’umanità dai rischi, sempre incombenti, di una sua sciagurata perdita.
Un’arte raffinata e complessa. Sfogliando il volume, si vedrà che molti fogli presentano iniziali miniate coloratissime e assai ricche di particolari. Un esempio eloquente è dato dal folio 12r, che si apre con una grande “M” sormontata dalla figura di un uomo, san Matteo, del cui Vangelo rappresenta l’incipit. Le illustrazioni “miste”, quelle cioè con immagine e testo, sono numerose, ma sono quelle “pure” a tutta pagina – in tutto solo dieci – a catturare l’occhio con la loro forma labirintica, i colori accesi, le volute ardite che confondono l’occhio, la fattura estremamente elaborata e complessa. Due di esse, 28v e 291v, contengono, rispettivamente, i ritratti di Matteo e Giovanni, tre (27v, 129v, 290v) rappresentano i simboli dei quattro Evangelisti alati, disposti in altrettanti riquadri ripartiti da una croce: un artificio che sembra imitare, con una certa dose di originalità, la copertura dei sontuosi Evangeliari altomedievali (forse proprio quella del codice stesso, perduta), di solito riccamente decorati con inserti in oro e pietre preziose.

Una pagina del Libro di Kells

Una pagina del Libro di Kells

Un’altra pagina (7v) raffigura la Vergine con il Bambino contornata da quattro angeli: secondo alcuni si tratterebbe di una della più antiche rappresentazioni – se non della prima in assoluto – di questo soggetto nell’arte occidentale. Seguono il Cristo in trono (32v), le Tentazioni (202v) e l’arresto (144r): quest’ultima, in particolare, rappresenta un Gesù rassegnato e ieratico mentre viene condotto via da due sgherri; sopra di loro si legge la scritta “Et hymno dicto exierunt in montem olivarum” (E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi). Le figure, che indossano vesti dai colori accesi, sono racchiuse in un’elaborata architettura ad arco – al centro del quale campeggiano due teste di drago affrontate – sorretta da due colonne decorate a loro volta con croci e con i pannelli a intreccio tipici delle chiese altomedievali, di cui innumerevoli esempi sopravvivono nelle romaniche.

Ovunque, in queste pagine di pergamena, trionfa il virtuosisimo grafico, ma esso non è mai fine a se stesso bensì al contrario sempre denso della più profonda e sublime simbologia. Nel folio 124r, ad esempio, si legge, racchiusa ancora una volta in un’elaborata cornice, la scritta “Tunc crucifixerant XPI cum eo duos latrones” (“Allora crocifissero Cristo): la “T” iniziale è a forma di doppio drago-grifone, che rimanda al Maligno sempre in agguato; tuttavia la sua figura stiracchiata, con gli artigli aggrappati alla cornice alla ricerca di un appiglio precario, lascia già presagire che non trionferà ma cadrà di nuovo, perché se anche il Cristo morirà sulla Croce (e l’arresto qui illustrato è infatti prodromico alla Passione), proprio per questo tornerà trionfante dopo la Resurrezione, e ricaccerà il Demonio – e con lui tutti i mostri che turbano l’immaginario medievale e che vediamo immortalati nei capitelli e nelle lunette delle chiese romaniche – al mondo al quale appartengono, ossia l’inferno.
La spettacolare decorazione del folio 188r, che reca l’incipit del Vangelo di Luca, è l’apoteosi dell’horror vacui tipico dell’estetica insulare: la pagina è interamente occupata da intrecci geometrici perfetti, nei cui spazi rigidi le figure umane risultano schiacciate, come imprigionate e impossibilitate a liberarsi; nell’insieme, l’illustrazione trasmette una sensazione di equilibrio, ma anche di angoscia, quasi rimandasse alla dannazione eterna. Ancora, il folio 200r contiene a genealogia di Cristo secondo Luca (in tutto l’elenco conta 5 facciate pergamenacee): si nota in questo caso la decorazione della parola latina “qui”, ad elenco, con i caratteri intrecciati e vivacemente colorati, nei quali si alternano figure umane e animali. Curiosa infine, e tipica ancora una volta della miniatura insulare, è la cosiddetta “pagina tappeto”, un’unica illustrazione tutta costruita su forme geometriche, così definita proprio perché ricorda un tappeto orientale: e in effetti, come è stato suggestivamente notato, tale inedita iconografia potrebbe richiamare proprio l’ambito orientale, e in particolare copto, in cui si originò quel Cristianesimo di marca ascetica che si diffuse, dapprima nelle Isole e poi sul Continente, grazie alla predicazione di legioni di instancabili missionari e fondatori di monasteri, tra i quali Colombano rappresenta, a cavallo tra il VI e il VII secolo, la punta di diamante assoluta.
Antico e moderno. Il Libro di Kells è stato digitalizzato ed è interamente sfogliabile online sul sito della Biblioteca del Trinity College a questo indirizzo: http://digitalcollections.tcd.ie/home/index.php?DRIS_ID=MS58_003v

L'Evangelario

L’Evangelario

Le sue miniature, al pari di quelle di altri manoscritti insulari, fondono dunque sapientemente gli elementi derivati dall’arte classica, come le architetture e le figure umane, con il gusto per l’intreccio e il motivo geometrico tipico dell’arte “barbarica”, retaggio della sottostante e, all’epoca, ancora viva cultura pagana. In effetti, il monachesimo irlandese seppe operare una mirabile sintesi tra le due diverse culture, contribuendo a creare un’arte complessa e squisitamente originale che ha saputo affascinare e suggestionare per secoli. C’è di più. Secondo alcuni studi, i pigmenti usati per decorare le miniature del Libro di Kells sarebbero stati importati dall’area mediterranea, e i preziosi lapislazzuli che servirono per creare il blu addirittura dall’Afghanistan nord-orientale: è l’ennesima riprova, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che oltre alla mobilità religiosa nell’alto Medioevo la circolazione di uomini, merci e idee era molto più frequente, fruttuosa e vivace di quanto una certa immagine falsata, e purtroppo ancora diffusa dell’Età di Mezzo, non induca a pensare.

Elena Percivaldi*

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