Il Barbarossa pietrificato

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Miniatura di Federico I Barbarossa tra i suoi figli, Enrico e Federico

Miniatura di Federico I Barbarossa tra i suoi figli, Enrico e Federico.

Le acque gelide di un fiume dai molti nomi inghiottirono Federico Barbarossa durante la terza crociata, il 10 giugno 1190.

L’imperatore marciava alla testa del suo esercito in Cilicia, lungo un percorso che lo avrebbe portato prima verso il porto di Alessandretta, crocevia dei traffici tra l’Asia e l’Europa e poi a Antiochia. Spossato dal caldo e dalla polvere, lungo le gole del Tauro, volle fare un bagno ristoratore in un fiume che gli arabi chiamavano Salef e i greci Kalikaddanos. Lo invogliò l’acqua, fresca e chiarissima. Non a caso, oggi, i turchi quando parlano di quei gorghi impetuosi, usano la parola Göksu, che si può tradurre con “acque azzurre”.

Forse fu lo shock dovuto al freddo che causò un arresto cardiaco. O forse fu la corrente fortissima a travolgere l’anziano imperatore, fiaccato dal caldo e dal peso dell’armatura. Sulla riva, i comandanti e i soldati assistettero impotenti alla scena. Qualcuno si gettò in acqua per raggiungere l’imperatore. Ma il fiume aveva già trascinato lontano il corpo, che fu recuperato a valle più tardi.

Federico Barbarossa (1122– 1190) chiudeva la sua vita là dove era cominciata la sua avventura di principe, in un’altra lontana crociata. In cento battaglie e quaranta anni di regno, aveva costruito un impero. L’aquila sveva volava sull’Europa, dalle nebbie del Mare del Nord al sole della Sicilia.

L’annuncio della morte portò sgomento e esultanza. I musulmani, increduli, ringraziarono la provvidenza. In un libro intitolato “La perfezione nella Storia”, il cronista arabo Ibn al-Athir lodò il “miracolo” di Allah quando fece notare ai suoi contemporanei che Federico Barbarossa era affogato in acque che a malapena arrivavano ai fianchi. E concluse: ”Il che prova che Dio volle liberarci”.
Il mondo cristiano visse l’evento con costernazione. Il dramma di quelle ore riemerge nelle parole di Ansbert, lo storico della spedizione crociata che con parole accorate si rivolse a Dio: “Perché Tu hai fatto questo? Perché hai fatto morire così presto un così grande uomo? (…). La corona è caduta dalla nostra testa: guai a noi, che abbiamo peccato”.

Il figlio dell’imperatore, Federico, duca di Svevia, guidò l’armata verso Seleucia, Tarso e poi Antiochia. Alla fine solo 5.000 soldati, stremati dalla fatica, dagli attacchi turchi e dalle diserzioni, arrivarono in Palestina.

Quel viaggio tribolato, scandito dai pianti e dalle preghiere, fu accompagnato anche dal macabro rito della riduzione del cadavere a reliquia. La calura dell’estate turca, nonostante l’aceto cosparso in grande quantità, corrompeva le carni di Federico. Il cadavere venne quindi fatto bollire: il cuore e gli intestini furono interrati a Tarso e la carne nella cattedrale di San Pietro a Antiochia. I crociati volevano portare le ossa in Terra Santa per dare al sovrano degna e solenne sepoltura nella basilica del Santo Sepolcro. Ma le reliquie non arrivarono mai a Gerusalemme. I resti di Federico furono seppelliti nei pressi di Tiro, oppure ad Acri o chissà dove. Il giovane duca di Svevia, ucciso pochi mesi dopo dalla peste durante l’assedio di San Giovanni d’Acri (1191) portò con sé il suo segreto. Negli stessi giorni, anche la crociata agonizzava tra gli intrighi dei comandanti e la disfatta delle armi.

Busto in bronzo di Federico Barbarossa datato 1173

Busto in bronzo di Federico Barbarossa, datato 1173.

Senza una tomba certa, anche la morte di Federico si trasformò in una leggenda. Ingigantita dalla gloria imperitura della sua ultima missione in difesa della fede.
Nacque un mito, che negli anni a venire toccò anche il nipote del Barbarossa, il grande Federico II di Svevia, l’imperatore “che vive e non vive” e che forse, un giorno, sarebbe potuto tornare.

Tra Medioevo e Rinascimento, la letteratura europea affrontò a lungo il tema del “ricordo del re”. Un eroe dormiente, una leggenda del passato che riposa all’interno di una montagna che identifica il suo popolo. E che è pronto a risvegliarsi, a tornare, insieme ai suoi guerrieri, in tempi di crisi e di paure collettive.

L’esercito dei morti animò altre leggende: quella dei Nibelunghi, di Teodorico, re degli Ostrogoti, di Carlo Magno addormentato nelle viscere della “montagna di Wotan”, di Re Artù nascosto nell’Avalon o nell’Etna, del pagano Vitichindo, di Olaf di Norvegia e del mitico Ogier di Danimarca, fino a Alberto da Giussano assopito sotto la collina brianzola di Montevecchia e a Guglielmo Tell, pronto a imbracciare ancora la balestra ma intanto impegnato a riposarsi dentro una grotta ben nascosta.

La traccia del fantastico racconto attraversò i secoli come un lungo fiume carsico. Il mito nordico trovò nuova linfa nei racconti dei fratelli Grimm, nel dramma musicale ottocentesco “Peer Gynt” di Ibsen e anche in numerose opere del Novecento di Tolkien. Ma riemerse, con grandissima forza, soprattutto negli anni tumultuosi del Romanticismo tedesco.

Franco Cardini nel suo “Il Barbarossa. Vita, trionfi e illusioni di Federico I imperatore” (Mondadori, 1985), ha scritto: “Federico era la nuova Germania in attesa di risvegliarsi. Cristianesimo, medievismo, culto della tradizione: tutto il romanticismo tedesco dalla lotta di liberazione contro l’egemonia napoleonica in poi convergerà su questo mito al quale nel 1815 il poeta Friedrich Ruckert aveva dato voce narrando in una celebre ballata la leggenda del grande imperatore che non è mai morto”.

Federico nell’Ottocento dorme e sogna, in una grande sala sotto una montagna:

“Il vecchio Barbarossa,/ l’Imperatore Federico,/ riposa incantato/ nel suo castello sotterraneo./
Non è mai morto,/ Egli vive ancora;/ siede addormentato,/ nascosto nel castello./
Ha portato con sé/ la Gloria dell’Impero,/ e un giorno ritornerà,/ quando verrà il tempo./
D’avorio è il trono/ dove Egli siede:/ Di marmo il tavolo/ dove riposa il suo capo./
La sua barba non è di lino,/ ma di bagliori di fuoco;/ è cresciuta sul tavolo/ dove poggia la sua testa./
Egli annuisce come in sogno,/ il suo occhio ammicca/ E dopo molto tempo/ richiama un fanciullo./
Dormendo, parla al giovinetto:/ Va’ al Castello, gnomo,/ E guarda se i corvi girano/ ancora attorno alla collina./
E se i vecchi corvi/ stanno ancora volando,/ allora dovrò ancora dormire/ incantato, per cento anni”.

Barbarossa, l’immortale, rinacque con l’impero tedesco quando Guglielmo I cinse la corona di imperatore del Reich il 18 gennaio 1871, nella Sala degli Specchi di Versailles. Statue e cappelle votive vennero edificate in gloria del nuovo imperatore e di quello medievale in molti luoghi della Germania.

Lo storico bavarese Knut Görich ha spiegato con efficacia la trasformazione del mito di Federico in un riferimento identitario del popolo tedesco: “L’impero nel XIX secolo non aveva alcuna tradizione; per questo era necessario ricollegarsi a un’epoca storica precedente, che fu identificata nel Medioevo. Barbarossa in tale contesto rappresentava la figura ideale”.

La vecchia leggenda trovò presto una nuova casa sotto il porfido dei monti della Turingia: il Kyffhäuser, un enorme monumento alto 81 metri, fu inaugurato nel 1871 per volere del Kaiser, in onore del Barbarossa e di Guglielmo I Hohenzollern, accomunati da una storia che si voleva parallela.

Monument Barbarossa foto  Ijon Tichy

Monumento in pietra a Barbarossa (foto: Ijon Tichy).

La colossale costruzione fu edificata sui resti del Reichsburg Kyffhausen, un imponente castello medievale costruito nel XII secolo proprio durante il regno di Federico. L’opera fu affidata a uno specialista in monumenti, l’architetto Bruno Schmitz. L’alta piramide nacque in sei anni, dal 1890 al 1896 e apparve come la granitica scena di un’opera di Wagner.
Il Kyffhäuser si raggiunge a piedi. Da lontano spicca la figura di Guglielmo I a cavallo. Sotto di lui, nell’ampia nicchia di una roccia, vigila la statua di Federico Barbarossa, che dorme seduto su un trono di pietra.

La leggenda narra anche di grotte profondissime che attraversano la montagna. E della terra che si apre per magia quando musicisti di Erfurt suonano le dolci serenate di mezzanotte. Gli occhi del Barbarossa, mezzi chiusi nel dormiveglia, si riaprono ogni tanto quando l’imperatore chiede a un fanciullo di controllare se i corvi abbiano smesso di volare. Se questo dovesse accadere, l’eroe dormiente si sveglierà e guiderà la Germania alla sua antica grandezza.

Per tutta la seconda metà dell’Ottocento, il ritorno dell’imperatore svevo fu oggetto di racconti, poemi e ballate. Anche Wagner alzò la bandiera del mito: “Quando tornerai, Federico, splendido Sigfrido? Quando abbatterai il drago malvagio che tormenta l’umanità?”.

Molti anni dopo il poeta Heine incrinò tanta passione con versi satirici che parlavano di un Barbarossa che non aveva nessuna voglia di salire ancora a cavallo per vendicare la Germania umiliata e voleva solo finire in pace il suo sonno secolare. Anche Hitler sfruttò il mito di Federico per adornare la follia di un “Terzo Reich” che nelle sue intenzioni sarebbe dovuto durare mille anni. E chiamò “Barbarossa” la campagna di guerra del 1941 contro l’Unione Sovietica che segnò l’inizio della sua disfatta. Ma la propaganda nazista non potette far suo l’imperatore svevo. E nemmeno ci provò fino in fondo. Come spiega Cardini, Federico I “era stato troppo cristiano, troppo ecumenico, troppo mediterraneo per i loro gusti”.

Per ora, il Barbarossa pietrificato si accontenta di mostrarsi ogni giorno ai turisti che affollano quest’area seducente della Turingia che la Germania moderna ha voluto destinare a parco naturale.

Tutto, nei dintorni, si ispira al gigantismo: le rovine del Reichsburg mostrano ancora il pozzo più profondo del mondo che buca il terreno per ben 176 metri. Il vicino lago artificiale di Kelbra è la più grande pista di atterraggio per uccelli di tutta la regione e in autunno offre lo spettacolare scenario di migliaia di gru che qui soggiornano e si rifocillano prima di volare verso il sud. Nella idilliaca località termale di Bad Frankenhausen c’è il campanile più inclinato al mondo e il Panorama Museum conserva un dipinto tondo che è annunciato come il più grande del pianeta.
Nel ventre della montagna, il Barbarossa di pietra riposa. Insieme a un Medioevo immaginario che la fantasia risveglia di continuo.

Federico Fioravanti

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