Personale, quasi intimo, il Libro d’Ore è una delle espressioni editoriali più raffinate del Medioevo. Decorato da grandi maestri della miniatura e più tardi anche da artisti della levatura di Simone Martini, Antonio Pollaiolo e Andrea Mantegna, rappresentò per secoli un vero status symbol, segno di potere, prestigio e sensibilità verso il bello in chi lo possedeva.
È il libro che accompagnava la preghiera quotidiana individuale. Ed era unico, perché veniva confezionato su misura per il cliente che indicava la liturgia da seguire, sceglieva illustrazioni particolari e lo ordinava nelle misure più adatte alle proprie necessità.
Tra il Trecento e il Quattrocento, il periodo di maggiore diffusione, fu l’oggetto di importanti doni di nozze o un lusso che nobili e alti prelati si concedevano per se stessi.
Il nome indica la suddivisione del tempo in momenti canonici, a ciascuno dei quali corrisponde una determinata preghiera. Una liturgia delle ore come nell’odierno disciplinare della Chiesa Cattolica, che raccoglieva tutte le orazioni, le letture e i salmi arricchiti dal salterio, che forniva le indicazioni musicali per i canti e gli inni da intonare nel corso del giorno e durante l’anno.
Di solito iniziava con un calendario e terminava con le preghiere ai santi. All’interno c’erano estratti dai Vangeli, le Ore della Vergine, quelle della Croce e quelle del Santo, ognuna suddivisa in otto tempi canonici, poi i Salmi penitenziali, le Litanie e infine le Ore dei defunti.
Fra il Mattutino, che si recitava a mezzanotte e la Compieta, l’ultima preghiera prima di coricarsi, il tempo liturgico era scandito dalle Laudi, al sorgere del sole, la Prima, circa alle sei del mattino, la Terza, pressappoco alle nove, la Sesta, da recitare all’ora del pasto e la Nona e i Vespri, rispettivamente dopo il pranzo e al tramonto.
Il testo era tradizionalmente in latino ma preghiere particolari, spesso in fondo al libro, potevano essere trascritte anche in volgare e ci sono esempi, soprattutto in area tedesca o olandese, di interi Libri d’Ore compilati nella lingua corrente. Le orazioni, tra l’alto, potevano subire modifiche in base alle indicazioni del committente, che poi personalizzava il volume anche di sua mano, segnando le date importanti della famiglia come nascite, matrimoni e morti.
In ogni Libro d’Ore, inoltre, c’era l’indicazione della liturgia seguita e per specificarla veniva usata la formula “Per l’uso di” a cui seguiva la città o la località di riferimento. Alcune preghiere infatti erano formulate in modo leggermente differente a seconda dell’area di provenienza. C’erano Libri d’Ore “Per l’uso di Roma”, dove ad esempio il primo inno della Vergine recita “Quem terra ponthus”, mentre nell’ ”uso di Parigi” riporta “O quam glorifica luce”. E, in casi meno comuni, Libri d’Ore dedicati ai riti liturgici di luoghi più periferici, come York o Coutances, una città della bassa Normandia.
Le illustrazioni rivestono un ruolo fondamentale. Dal capolettera in oro brunito alla miniatura che occupava una intera pagina, dipendevano essenzialmente dalle disponibilità economiche del committente.
Venivano disposte con un ordine preciso, che aveva lo scopo di arricchire l’inizio delle sezioni più significative. Le Ore della Vergine, le più importanti di tutto il libro, si aprono tradizionalmente al Mattutino con la miniatura dell’Annunciazione. Nelle versioni più elaborate, ciascuna ora canonica può a sua volta iniziare con un’altra miniatura: la Visitazione per le Lodi, la Natività per la Prima, l’Annuncio ai pastori per la Terza, l’Adorazione dei Magi per la Sesta, la Presentazione al Tempio per la Nona, la Strage degli Innocenti o la Fuga in Egitto per i Vespri. La sequenza termina a Compieta con la Dormizione o l’Incoronazione della Vergine. Le Ore della Croce si aprono nella maggior parte dei casi con la scena della Crocifissione e quelle del Santo Spirito con la Pentecoste. Nei Salmi Penitenziali è frequente la scena di Davide, mentre l’Officio dei defunti è decorato con un rito funebre o l’episodio di Giobbe che incontra i fratelli.
La sezione dedicata al calendario riporta spesso i segni zodiacali, ai quali potevano essere associate anche scene di vita nobiliare o attività agricole stagionali, come la mietitura, la vendemmia o l’uccisione del maiale.
E chi se lo poteva permettere, sceglieva anche di farsi immortalare in una miniatura accanto al proprio santo protettore.
Anche le bordure intorno al testo acquistarono una grande importanza. Nei Libri d’Ore più antichi sono in stile gotico, con tralci di foglie d’edera in oro brunito tra i quali spuntano figure grottesche, i cosiddetti “grilli gotici”, mentre le scenette comiche o satiriche che si dipanano lungo i margini delle pagine sono chiamate drôleries. Entrambi i generi derivano dalla glittica, l’arte di incidere gemme e pietre dure per produrre cammei, sigilli e statuette, propria della cultura classica, ma anche dalla libera interpretazione di motivi dell’arte islamica, indiana e cinese con cui la cultura europea venne a contatto nel Medioevo.
Nel corso del tempo, gli sfondi luminosi delle miniature, con paesaggi scarni, radi alberelli su frammenti di roccia stilizzati e le figure essenziali con volti appena tratteggiati e quasi senza volume, vengono sostituite da pennellate più precise che delineano tratti somatici e aspetti più corposi. I panneggi si ammorbidiscono, compaiono le prime ombre e i volti dei personaggi si arrotondano. I fondi in oro vengono lentamente abbandonati in favore di cieli e paesaggi più nitidi e sempre più ricchi di vegetazione. Anche le bordure si trasformano, con tralci di foglie d’acanto dai colori brillanti costellate da elementi floreali e animaletti vivaci e curiosi, eredi dei più antichi “grilli gotici”.
Ma chi furono gli artefici di queste splendide opere d’arte? Il nome della maggior parte dei miniatori è sconosciuto, ma il tratto delle loro creazioni li ha resi comunque immortali. A volte vengono ricordati con il nome della città dove lavorarono, come il Maestro di Troyes, oppure attraverso il committente per il quale eseguirono opere significative, come il Maestro del Duca di Bedford, quello del reggente inglese di Francia o il Maestro del Maresciallo Boucicaut, o ancora con il nome dell’opera più importante a loro attribuita, come nel caso del Maestro della Cronaca scandalosa o grazie a particolari caratteristiche stilistiche che li distinguono, come il Maestro degli occhi piccoli.
Di qualcuno però, il nome ci è stato tramandato. Jean Pucelle, ad esempio, fu un grande maestro francese della metà del Trecento che applicò le innovazioni pittoriche di Giotto all’arte della miniatura. In Francia riscossero un enorme successo anche i fratelli Limbourg, di origine fiamminga, che intorno al 1413 realizzarono per il duca di Berry un vero capolavoro: Les Très Riches Heures, Le ricchissime Ore. Si tratta di uno dei più importanti tesori artistici del settore e rappresenta il culmine nell’arte della miniatura francese. Insieme a loro vanno ricordati il Maestro di Boucicaut e il Maestro di Bedford praticamente contemporanei dei Limbourg e Jean Fouquet, massimo esponente della pittura francese di pieno Quattrocento.
In Italia, la miniatura come forma artistica autonoma ebbe grandi esponenti in Pietro Cavallini, attivo alla fine del XIII secolo, Neri da Rimini e, nel periodo di transizione fra Tardogotico e Rinascimento, Giovanni Belbello da Pavia, autore di parte dell’Offiziolo di Gian Galeazzo Visconti, Michelino da Besozzo e Attavante degli Attavanti, che lavorò alla Bibbia di Federico da Montefeltro. A Ferrara, uno tra i maggiori centri di produzione libraria del XV secolo, furono attivi Guglielmo Giraldi e Taddeo Crivelli, autore della celeberrima Bibbia di Borso d’Este.
Anche alcuni celebri artisti dell’affresco e della pittura su tavola si cimentarono come miniatori. Simone Martini ad esempio, che alla metà del XIV secolo soggiornò a lungo ad Avignone, dove morì. Ma anche Lorenzo Monaco, il Beato Angelico, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Pinturicchio e Francesco di Giorgio Martini, ingegnere e architetto.
Dal Quattrocento, in stretto collegamento con la comparsa della stampa tipografica e con la sempre più grande utilizzazione della carta come supporto, in sostituzione della costosa pergamena, nei Libri d’Ore fanno la loro comparsa anche le incisioni. Alle radici di questa tecnica si collocano esperienze risalenti all’Antichità e al Medioevo. Da un lato, la pratica di incidere una superficie è presente nella preistoria, con i graffiti. In seguito, a seconda delle modalità e dei materiali impiegati, darà luogo a opere d’arte autonome, come quelle che fanno capo alla glittica, alla lavorazione dei metalli e all’oreficeria. Matrici incise riutilizzabili per la riproduzione di un’immagine sono invece impiegate nell’arte del sigillo e del conio per la monetazione.
Nel caso dell’incisione, il prodotto finale è dato dall’inchiostratura della matrice e dalla successiva stampa su carta, che si fa con il torchio. L’incisione può riprodurre in più copie l’idea dell’artista, con il conseguente annullamento del concetto di unicum dell’opera d’arte. Sotto questo aspetto, risponde alla necessità di divulgazione di immagini tipica della cultura moderna e la sua storia fin dagli esordi si intreccia con quella del libro stampato e illustrato, del quale sostituisce la preziosa miniatura. Ma, per un certo tempo, i rapporti con la miniatura rimangono molto stretti: molte incisioni di fine Quattrocento, e non solo i fogli concepiti per la decorazione libraria, presentano una impaginazione simile alla miniatura, sia per la presenza della coloritura a mano, sia per l’uso di inquadrare le raffigurazioni dentro cornici, i cui motivi ornamentali sono affini a quelli miniati. E in molti casi, i mestieri del miniatore e dell’incisore sono svolti dallo stesso artista.
Ai suoi esordi l’arte incisoria, sia che utilizzi matrici di legno (xilografia) o di metallo (calcografia), è opera di anonimi artigiani legati alle botteghe di orafi e intagliatori di gemme. Solo in un secondo momento, con artisti come Martin Schongauer e Albrecht Dürer in Germania, Antonio Pollaiolo e Andrea Mantegna in Italia, la personalità dell’incisore, grazie all’interesse che cominciano a manifestare i pittori verso queste tecniche, si svincola dalle pratiche artigianali e conquista autonomia ed elevata dignità artistica. Dal Cinquecento in poi sarà una tecnica alla quale i pittori si rivolgeranno spesso, sia come mezzo espressivo autonomo che come sistema per riprodurre e diffondere attraverso la stampa le loro opere dipinte.
Giulia Cardini