I maiali con un santo in paradiso

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Cinta senese, particolare degli 'Effetti del Buongoverno in campagna' di Ambrogio Lorenzetti

Cinta senese, particolare degli ‘Effetti del Buongoverno in campagna’ di Ambrogio Lorenzetti

Da animale immondo a migliore amico dell’uomo. È il percorso del maiale nel Medioevo. Poi, dal Rinascimento, si rivaluterà il cane che diventerà la bestia domestica preferita.

La strada del porco, per la verità, è stata tutta in salita. Animale impuro per antonomasia nelle antiche civiltà. Tanto che nell’Antico Testamento l’attività del guardiano dei maiali era proibita agli ebrei. Le tribù arabe, anche prima dell’Islam, si astenevano dal mangiarne la carne. E nel Nuovo Testamento, il figliol prodigo, protagonista della famosa parabola, dopo aver dilapidato il proprio patrimonio si abbrutisce agli occhi del mondo nell’umiliante lavoro di chi segue i maiali al pascolo.

Pure nel Medioevo al porco viene associata ogni tipologia di vizio. Basta dare un’occhiata ad alcuni capitelli romanici dove emerge in allegorie in cui è cavalcatura del peccato e compagno di perdizione. Fu anche usato come attribuito dell’antigiudaismo. Michel Pastoureau, uno dei più autorevoli esperti mondiali di colori e animali, nel suo “Il maiale, storia di un cugino poco amato” (Ponte alle Grazie, 2014) ricorda la Judensau, l’immagine nata in alcune zone d’Europa fra il XII e il XIII secolo, in un momento in cui la cristianità “tende a ripiegarsi su se stessa o a chiudersi alle culture vicine”: rappresenta alcuni ebrei, spesso dei bambini, che poppano da una scrofa e ne ingeriscono gli escrementi. Il quadro denigratorio fu dipinto, scolpito, inciso e poi anche stampato. E riemerse con virulenza nel XX secolo con la tragedia del nazismo.

Ma per i cristiani esiste anche un maiale buono. Il più famoso è quello raffigurato in mille e più immagini insieme a Sant’Antonio, considerato il padre del monachesimo e di quel “pregare e lavorare” che ispirò la regola di San Benedetto.

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Sant’Antonio Abate nel Libro d’Ore di Catherine de Cleves, (ca. 1440), The Morgan Library Museum

Figlio di una nobile famiglia egiziana, il futuro santo nacque nel 255 dopo Cristo. Quando i suoi genitori morirono, vendette tutti i suoi beni per ritirarsi nel deserto, Nell’aspra vita eremitica affronto più volte e respinse le tentazioni del demonio che voleva sedurlo sotto le sembianze di bellissime donne nude oppure terrorizzarlo travestito da bestia selvaggia e pericolosa. Quando poi il culto del santo si trasferì in Europa, le tentazioni del deserto si spostarono nei boschi selvaggi. E nelle immagini le bestie diventarono soprattutto due: il lupo e il cinghiale.

Dal XIII secolo il cinghiale si trasformò nel maiale. E il feroce nemico diventò un amico fedele. La sorprendente mutazione arrivò poco alla volta. E gran merito del cambiamento venne dalla fama miracolosa dell’abbazia di Saint Antoine en Viennos. Nell’edificio costruito dagli antoniani nell’accogliente valle del Rodano, i maiali trovarono il loro santo in paradiso.

Le reliquie di Sant’Antonio furono trasferite da Costantinopoli in Provenza nella seconda metà del secolo XI. Il monastero originario che le accolse era gestito dai benedettini. Ma accadde che in quella regione si diffondesse proprio in quegli anni una epidemia terribile, chiamata “fuoco sacro”: una forma acuta di epilessia che in seguito fu chiamata “fuoco di Sant’Antonio” e che nulla ha a che fare con l’infezione pruriginosa causata nei tempi moderni dal virus della varicella.

La gravissima malattia era l’ergotismo: una intossicazione prodotta dalla segale usata per il pane che si mangiava in molte zone d’Europa e che era prodotto con farine contaminate.

L’avvelenamento bloccava gli arti dei malati fino ad arrivare alla gangrena e provocava allucinazioni e impressionanti convulsioni. Gli abitanti di tutta la regione e anche di altre zone del Vecchio Continente, cominciarono ad accorrere nell’abbazia provenzale per pregare e chiedere la grazia davanti alle sacre reliquie. Antonio diventò un santo guaritore. E una compagnia di nobili laici fece nascere, in nome della misericordia, un ospedale per seguire i malati. Furono costruiti i primi alberghi per i pellegrini che accompagnavano quei poveretti. Il pellegrinaggio a Saint Antoine en Viennos diventò popolarissimo.

Così papa Bonifacio VIII d’imperio, come gli era abituale, trasformò i laici in un ordine di canonici regolari.

Il santo, nei secoli successivi, divenne il protettore da invocare per ogni genere di grave infiammazione. Oltre all’ergotismo, anche l’erpes zooster, ma anche la sifilide e poi la terribile peste.
E il maiale? Diventò indispensabile per via di un balsamo che curava, in un modo che apparve miracoloso, il terribile “fuoco di Sant’Antonio”: la medicina mescolava abilmente il grasso del porco con altre sostanze. Di conseguenza, gli antoniani iniziarono ad allevare i maiali in gran quantità. Venivano nutriti da tutti per poi essere riaccompagnati all’inizio dell’inverno nei conventi per il rito sacrificale della macellazione e per la benedizione del lardo che doveva curare le orribili ferite dei malati.

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Sant’Antonio Abate in un codice miniato

I porci di proprietà dell’Ordine pascolavano in libertà, come quelli di proprietà di molte famiglie, che li allevavano nei boschi e nelle campagne.
Ma a differenza degli altri, i maiali di Sant’Antonio erano protetti dalla fede e dalle leggi: non si potevano prendere né uccidere. In qualche modo, diventarono degli animali sacri: per distinguerli dagli altri porci, vennero fatti girare con una campanella appesa al collo.

L’Ordine antoniano intanto cresceva: si diffuse in Europa. I monaci presto aprirono ospedali in molte città. E i maiali con il campanello, come del resto i loro fratelli meno nobili, grufolavano liberamente tra i rifiuti delle strade.

I porci fungevano da spazzini: si nutrivano dei rifiuti gettati per le vie, degli scarti delle botteghe e degli avanzi lasciati durante le fiere e i mercati. Erano gli omnivori netturbini del Medioevo. Dalla fame insaziabile, tanto da grufolare anche tra le tombe, allora spesso non protette da recinti in muratura.

Dagli inizi del Duecento fino a tutto il Trecento e anche agli inizi del Quattrocento in molte città europee si ordinò la costruzione di alte mura che proteggessero i cimiteri e impedissero ai maiali che circolavano liberamente di dissotterrare i cadaveri. Agli inizi del XIII secolo, il re di Francia Filippo II Augusto, fece edificare una corte intorno al cimitero degli Innocenti di Parigi. Lo stesso fecero i municipi di York (1243), Bruges (1337), Nancy (1385) e Norimberga (1416). Le multe ricorrenti e una infinità di leggi non fermarono gli incidenti, le denunce, i processi e le liti causate dal libero vagabondare dei porci.

Fece scalpore il 13 ottobre 1131 l’incidente di cui rimase vittima il giovanissimo principe Filippo di Francia (1116 – 1131) primogenito di re Luigi VI detto il Grosso: mentre avanzava a cavallo con il suo seguito, venne disarcionato per colpa di un maiale che attraversò la strada. L’erede al trono, che aveva solo 15 anni, morì per la fatale caduta. Suger, l’abate di Saint Denis, amico e consigliere del re Luigi VI, definì “diabolico” quel maiale domestico.
Tutti i cronisti dell’epoca si associarono al commento. Con qualche ragione, visto il drammatico evento cambiò il corso della storia di Francia: il 25 ottobre, dodici giorni dopo l’incidente, con la corte ancora in lutto, papa Innocenzo II incoronò a Reims erede al trono il figlio minore del sovrano, che come il padre si chiamava Luigi. Il giovane, che era destinato alla vita ecclesiastica, non era preparato al difficile mestiere di re. Ma diventerà comunque il contestato e longevo Luigi VII (1120-1180): regnò 43 anni nei quali il trono di Francia dovette affrontare prove terribili. Il sovrano verrà ricordato soprattutto per il fallimento della seconda crociata e per il clamoroso divorzio da Eleonora d’Aquitania che poco dopo si risposò con Enrico II re d’Inghilterra. Luigi, salito al trono controvoglia per via di un porco regicida, fu anche l’ultimo sovrano francese a farsi chiamare “Re dei Franchi”.

Alla fine del XII secolo in molte città europee si intensificarono i provvedimenti contro i proprietari dei maiali che venivano lasciati vagabondare per le strade. A Parigi, solo gli Antoniani mantennero il privilegio di far pascolare liberamente i loro animali identificati dal campanellino. La cosa suscitò molte gelosie da parte degli altri ordini religiosi, anch’essi proprietari di maiali in gran quantità e da parte di molti cittadini che se infischiarono dei divieti.

Così, ancora nel XVI secolo, per le vie parigine si incontravano “maiali spazzini” un po’ ovunque. A Parigi il privilegio per gli Antoniani fu mantenuto fino alla prima metà del Cinquecento. E nella cattolica Baviera scomparve addirittura soltanto agli inizi dell’Ottocento.

Maiale, Tacuinum Sanitatis

Il maiale raffigurato nel Tacuinum Sanitatis

I maiali medievali non erano certo come quelli di oggi. Somigliavano molto di più ai loro antenati cinghiali con i quali del resto si accoppiavano di frequente. E avevano i canini che a differenza dei tempi moderni non venivano tagliati.
Il cinghiale era il porco delle selve, silvestres (in francese sanglier). Un animale abituato a stare da solo nel folto del bosco. I porci singulares vennero quindi chiamati cinghiali. Anche i maiali venivano allevati nei boschi, allo stato brado: si muovevano molto e quindi erano abbastanza magri con zampe lunghe e sottili. Pesavano dai 40 ai 70 chili, almeno tre volte in meno di adesso. E quindi di rado venivano uccisi durante il primo anno di vita: si aspettava il secondo o terzo anno, quando pesavano un po’ di più.
Il pelo dei porci medievali era più scuro, come emerge dalle miniature e dagli affreschi. Il grifo non era a tappo ma piuttosto appuntito, la testa più grande e più lunga e le setole più dritte sulla schiena. I maiali di campagna, a differenza degli omnivori “netturbini di città” venivano nutriti con le ghiande, le faggiole e i frutti del sottobosco. Quando terminava il raccolto si nutrivano anche delle stoppie dei campi coltivati che provvedevano a pulire in vista della nuova semina.

La storia del maiale, per tutto il Medioevo è comunque quella di un animale che pascola in libertà. E a partire da Carlo Magno si comincia a valutare la grandezza del bosco dal numero dei maiali che è in grado di ospitare. Quando dal XII secolo in poi le selve furono meno estese, il pascolo venne regolamentato con apposite leggi. E per evitare che il maiale distruggesse i semi e le radici delle piante e impedisse la ricrescita si pose il problema di sorvegliare gli animali.

Nacque così la professione del porcaro, che era molto considerata. Anche perché il consumo della carne di maiale era di gran lunga il più diffuso e l’animale di cui “non si butta via niente” rappresentava una preziosa riserva di cibo per l’inverno. Era indispensabile per la sopravvivenza delle famiglie. Tanto che la legislazione ne vietava anche il pignoramento perché vivere senza maiale voleva dire cadere nell’angoscia della fame e della miseria.

Il mastro porcaro (magister porcarius) era quindi paragonabile per importanza solo a un maestro artigiano. E la sua vita, secondo la legge, valeva almeno due volte e mezzo quella di un semplice agricoltore e molto più di quella di altri “gestori” di animali. Nel mondo longobardo, lo testimonia con chiarezza l’editto di Rotari del 643 dopo Cristo: “… se qualcuno avrà ucciso un porcaro altrui, paghi soldi 50, mentre per quanto riguarda uno dei sottoposti si paghino soldi 25. Per l’uccisione di un pecoraio, capraio o bovaro, si paghino soldi 20 se è il capo”.
Il porcaro era il responsabile della incolumità dei maiali. Procurava loro le ghiande percuotendo con lunghe pertiche i rami delle querce. Nella gestione del branco veniva aiutato dal verro dominante al quale veniva applicata una campanella al collo. Il porcaro dormiva in un capanno nel bosco, vicino alle sue bestie.

Le mandrie di suini potevano raggiungere anche grandi dimensioni. Un esempio significativo ci arriva da un documento del X secolo: in Emilia gli abitanti della selva di Migliarina, nei pressi di Carpi, pagavano 400 maiali come decima al monastero bresciano di Santa Giulia: questo voleva dire che il totale delle bestie allevate nel bosco era di ben 4000 capi. I boschi con i maiali valevano di più: le selve, secondo la legislazione, erano divise in in silva ad incrassandum porco e in infruttuose, quando non c’erano piante di querce.
Nel periodo più freddo dell’inverno gli animali venivano radunati all’interno dei porcili, nei pressi dei centri abitati.

Il santo amico dei maiali diventò per estensione il patrono anche di tutti gli animali domestici. Per questo il 17 gennaio, giorno della sua festa, sui sagrati di molte chiese si benedicono gli animali: cani, gatti, cavalli, asini. Ma anche usignoli e tartarughe. La cosa sorprese molto Goethe che nel suo “Viaggio in Italia” fu testimone del rito a Roma nel gennaio 1787.
Sant’Antonio combatte il diavolo che rappresenta la malattia e la morte. Lo ricorda ancora, in molte zone del sud d’Italia la celebre filastrocca: “Sant’Antonio, sant’Antonio lu nemico de lu dimonio…”.

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Le tentazioni di San’Antonio, Hieronymus Bosch, Museo del Prado

Le fiamme rievocate in tante località italiane nel giorno della festa, ricordano la lotta continua contro il demonio. I cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di Sant’ Antonio” avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera: un rito pagano cristianizzato, come accade anche a novembre con i fuochi di San Martino e a metà marzo con il falò per la festa di San Giuseppe.

Le demoniache “tentazioni di Sant’Antonio” nel deserto della Tebaide sono state raffigurate dagli artisti di ogni epoca. Viene subito in mente il meraviglioso dipinto del pittore fiammingo Hieronymus Bosch conservato nel Museo del Prado di Madrid. La figura del santo ha sempre ispirato gli artisti, da Matthias Grünewald al Pisanello, dal fiorentino Buonamico Buffalmacco al Sassetta. Fino a Lorenzetti, Jan Brueghel il Vecchio, Velázquez, Cézanne, Redon, Max Ernst e Salvador Dalí.

Per la devozione dell’uomo medievale Sant’Antonio rimase però l’eremita che camminava appoggiato al bastone a forma di T, la “tau”, lettera finale dell’alfabeto ebraico che allude alle ultime cose del mondo e al destino. Un santo capace di guarire malattie che sembravano invincibili. Annunciato da un maialino con la campanella.

Federico Fioravanti

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