Lo scrittore Charles Perrault (1628-1703) deve la sua fama letteraria a I racconti di mia madre l’Oca, pubblicati in Francia nel 1697. Si tratta di undici fiabe che comprendono alcuni tra i più celebri esempi di letteratura per bambini e ragazzi. Chi non conosce infatti – foss’anche solo nella versione della Disney – Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Il gatto con gli stivali o La bella addormentata nel bosco? Con questi racconti Perrault inaugurò il genere della fiaba che in Francia non aveva alcun precedente letterario.
Tra gli undici racconti vi è anche quello di Barbablù che, forse a motivo della sua efferatezza, non fu ridotto in versione disneyana: vi si narra la vicenda di un sadico assassino che uccide, in una stanza degli orrori, sette donne, dopo averle prese in moglie.
Purtroppo nella trama che Perrault aveva intessuto c’era un tragico fondamento di verità e una serie infinita di dettagli che conduceva in un’area ben delimitata della Bretagna del ‘400. Tutto convergeva sulla vicenda storica di Gilles de Rais (1404-1440), compagno d’arme di Giovanna d’Arco, maresciallo dell’esercito regio, uomo ricco e raffinato, divenuto – dopo la parabola della Pulzella – un omicida seriale di oltre 140 bambini, condotti con l’inganno nei propri castelli e, con l’aiuto di alcuni complici e sedicenti maghi, abusati e fatti morire di atroci tormenti nella speranza di recuperare, grazie a questi folli riti, le ricchezze perdute.
Per una serie di coincidenze Gilles si sarebbe ritrovato ad ereditare una delle più grandi fortune di Francia, risultato di tre patrimoni: quello del padre, Guy de Laval-Montmorency, quello del nonno materno, Jean de Craon e quello dei Rais, da cui ottenne il nome, nella persona di Jeanne Chabot de Rais.
Suo padre Guy dapprima circuì la anziana Jeanne, senza eredi maschi, poi, ripiegò sposandone la figlia, unica ereditiera. Nel 1404 furono celebrate le nozze e, per propiziare la nascita di un maschio, gli sposi si recarono in pellegrinaggio a Saint Gilles du Cotentin, promettendo di battezzare il nascituro col nome del santo. Alla fine dell’anno un maschietto nasceva a Champtocé, nel maniero dei Craon: era Gilles de Rais.
Di nobile famiglia, il piccolo Gilles leggeva i classici latini, per crescere educato alle imprese dei Cesari: ma di quei condottieri, il giovane ammirava più le efferatezze e le stramberie che il valore e la magnanimità. Da Svetonio apprese che Caligola amava far morire lentamente le proprie vittime, che sperperava il denaro in spese folli, che commetteva eccessi di ogni sorta, giacendo con la moglie, con amanti, con le sorelle. In un’epoca come quella del ‘400, funestata da carestie, pestilenze, dalla Guerra dei Cent’anni, il giovane Gilles associò l’idea di potenza a quella di infliggere la morte ai propri rivali: non era certo il solo.
Il 1415 fu un anno decisivo per la crescita di Gilles: nei primi mesi dell’anno perse la madre e a settembre anche suo padre, sbudellato da un cinghiale durante una battuta di caccia. Dopo una lunga agonia, il padre pose Gilles e il suo fratellino René, sotto la tutela di un cugino, evitando l’influenza del nonno materno, Jean de Craon, uomo torbido e senza scrupoli. Un mese dopo, ad Azincourt, cadeva Amaury, figlio del Craon, lasciando Gilles unico erede di tre patrimoni e sotto la tutela del nonno, un vecchio cinico e avaro che lasciò crescere il piccolo senza porgli alcuna restrizione. Sarà lo stesso Gilles de Rais a dichiarare nel processo che “a causa del cattivo governo che v’era stato della sua infanzia, essendo stato lasciato senza freno (…) perpetrò grandi ed enormi crimini, principalmente nella sua giovinezza, cinicamente contro Dio e i suoi comandamenti”.
Il Craon si preoccupò di combinare le nozze per Gilles che nel 1422 impalmò sua cugina Catherine de Thouars che gli avrebbe portato in dote il famigerato castello di Tiffauges, quello che diverrà, nell’immaginario collettivo, il castello di Barbablù. Giunto alla maggiore età il nobile si distinse per le spese folli: con una smania da perenne insoddisfatto, Gilles acquistava in modo compulsivo stoffe preziose e pietre rare, arazzi e reliquiari, gemme antiche e cappelli bizzarri. Nel 1425 incontrò per la prima volta il Delfino Carlo VII, costretto a ritirarsi a Bourges dopo essere scampato alla morte per mano del duca di Borgogna suo rivale. Il Borgogna morirà a sua volta nell’ennesimo scontro tra rivali, riaccendendo la guerra civile e lasciando sempre più spazio agli Inglesi. La Francia tocca il suo punto più nero: Carlo VI, il re folle, dichiara il Delfino “parricida” e nel 1420, a Troyes, viene firmato un trattato con cui si sancisce che, alla sua scomparsa, la corona sarebbe passata ad Enrico VI Lancaster.
Gilles viene introdotto alla corte del “re di Bourges”, come veniva ironicamente soprannominato dagli avversari: il giovane si fece notare subito per la sua prodigalità, per lo sfarzo del suo contingente, per il rigore dei suoi soldati ma anche per il coraggio in battaglia e la freddezza con cui assisteva alle tante esecuzioni che ordinava contro i collaborazionisti o i traditori. Ovviamente non era visto di buon occhio dagli altri comandanti e neppure a corte. La sua ricchezza e il suo sfarzo provocavano l’invidia nei più, in una corte, come quella di Chinon, che spesso somigliava più ad una mensa comune che ad una regale. Per salvare la Francia sarebbe servito un miracolo, e quel miracolo apparve nel marzo del 1429, sotto le spoglie di una giovane vergine: Giovanna d’Arco. Le vicende della Pulzella sono note: una fanciulla lorenese, assecondando delle “voci”, si presenta a Carlo VII con l’obiettivo di liberare Orléans, condurre il Delfino a Reims e consacrarlo re di Francia.
Gilles de Rais era a corte quando la Pulzella si inginocchiò davanti al Delfino e vide con i suoi occhi la Vergine che avrebbe salvato la Francia dall’abisso. Su incarico del sovrano Gilles la scortò a Poitiers, dove fu sottoposta ad un’inchiesta per appurarne la bontà. Superata brillantemente la serie di domande Giovanna fu dotata di un’armatura su misura, di paggi e di dodici cavalli. A Blois si incontrarono i nobili con i contingenti destinati al soccorso di Orléans: Gilles fu nominato comandante delle truppe reali e fu a fianco di Giovanna per tutto il tempo delle operazioni. Sicuramente i due avevano dei punti di contatto: l’autorevolezza, l’amore per l’azione ma anche per le stoffe preziose e le cose belle. Di Giovanna il condottiero ammirava la durezza con cui trattava le prostitute che giravano tra le truppe e che proibì per tutto il tempo che durò l’assedio, proponendo invece ai soldati preghiera e raccoglimento. Era questo misto di rigidità e misticismo che doveva affascinare il violento ma raffinato Gilles. Seguendo l’esempio della carismatica eroina, il contingente liberò in meno di due settimane Orléans, stretta d’assedio da otto mesi. Alla liberazione seguì il successo di Patay, dove il Rais si guadagnò la gloria militare: il re lo ricompensò col titolo di Maresciallo, con l’onore di portare l’arme reale e con uno stipendio di mille lire.
Giovanna era arrivata a Chinon il 6 marzo; Orléans era stata liberata il 6 maggio; il 17 luglio Carlo VII veniva incoronato a Reims. All’incoronazione seguì immediatamente l’azione della diplomazia che sia Giovanna che Gilles non amavano. Il signore di Rais doveva obbedire al generale La Trémoille, a cui aveva prestato giuramento; la Pulzella pagò con la cattura e la prigione, l’ennesimo colpo di mano, stavolta a Compiégne (maggio 1430). Venduta dai Borgognoni agli Inglesi per 10.000 lire, questi ultimi ne decretarono la morte sul rogo con l’accusa di stregoneria.
Alla morte della sua eroina, arsa a Rouen nel maggio del 1431, Gilles compie ancora alcune azioni militari, tra cui la battaglia di Lagny: un successo. Fu uno degli ultimi episodi di guerra a cui partecipò il condottiero. In cinque anni di guerra il giovane nobile, orgoglioso e raffinato, aveva scoperto quanto fosse inebriante uccidere: si avvicinava a passi veloci il momento del suo declino e della sua follia.
Per sua stessa ammissione, come si legge nelle pagine del processo, fu dal 1432 che iniziò ad uccidere per suo piacere, l’anno in cui il nonno materno morì. Senza più il modello religioso della Pulzella, senza più il freno dell’autorità patriarcale incarnata dal ruvido nonno, Gilles si trovò libero; persino il signore a cui aveva giurato fedeltà, La Trémoille, era stato estromesso. Gilles era libero, ma anche profondamente solo, senza una mèta e in compagnia di molte ossessioni.
Come ammetterà nel processo “non c’era nessun’altra causa, nessun altro fine né intenzione (…); aveva seguito la sua immaginazione e il suo pensiero, senza il consiglio di alcuno e secondo i propri sensi, soltanto per il suo piacere e diletto carnale, e non per altre intenzioni o fini”. A partire dal 1432 iniziarono a sparire fanciulli e fanciulle dalle campagne vicine ai castelli del signore di Rais: a Machecoul, a Tiffauges a Champtocé, a Pouzages. Alcuni ragazzi venivano addirittura richiesti impudentemente dagli aiutanti del barone, altri, semplicemente, svanivano. Alle richieste dei genitori sulla sorte dei figli, di volta in volta, si accampavano scuse o si proponevano ipotesi fantasiose: sarà andato in un altro castello, un nobile lo avrà preso con sé, sarà caduto da un ponte, sarà stato rapito dai briganti.
Il loro destino era sempre uguale: se scarne sono le informazioni sulla vita quotidiana di Gilles de Rais, le carte processuali hanno fatto spietatamente luce in modo minuzioso sulle violenze, gli abusi e le morti cruente inflitte alle decine di giovani vittime. Con l’aiuto e la complicità dei suoi aiutanti Sillé, Briqueville e Poitou, il barone di Rais accoglieva i fanciulli nel suo castello invitandoli a pranzi luculliani durante i quali “un’avidità insaziabile di cibi delicati, e il frequente assorbimento di vini caldi, provocarono principalmente in lui uno stato di eccitazione che lo portò a perpetrare tanti peccati e crimini”.
Tutti a corte sapevano delle perversioni del loro oscuro signore: erano però legati da un misto di fedeltà, paura e omertà essendo coloro che, sprofondando nelle latrine, vi occultavano i cadaveri dei poveri innocenti. Una volta assaggiata l’inebriante, bacata potenza derivante da tutto ciò, la mente di Gilles de Rais si spezzò per sempre. Privo di freni inibitori, conscio o inconscio del proprio potere, il maresciallo scatenò la propria furia contro chi meno poteva difendersi: i bambini.
La sua mente iniziò poi a percorrere con sempre maggiore compiacimento, la via dello sdoppiamento: di giorno il nobile raffinato e devoto, di notte lo spietato assassino. Nel 1435 spese cifre da capogiro per la fondazione dei Santi Innocenti (cioè i bambini uccisi al posto del bambino Gesù) a Machecoul “per il bene e la salvezza della propria anima”. Nella prima metà del XV secolo il culto macabro per i Santi Innocenti conobbe un successo strepitoso: era l’epoca in cui il sangue, la morte, l’orrore erano associati – oltre che alla quotidianità – in un modo bizzarro, anche alla pietà e alla religiosità. Per Gilles era un connubio perfetto. Nello stesso anno giunse a corte Roger de Briqueville che Gilles nominò subito proprio sosia, dandogli il nome di “Rais-le-Héraut”, l’araldo di Rais. Due anni dopo gli conferì enormi poteri tra cui persino occuparsi del futuro matrimonio della piccola Marie, sua figlia. Non a caso il teatro divenne la più grande passione del mostro: la finzione, il doppio, l’apparenza, l’inganno scenico. Tutto questo non faceva che assecondare la devianza che piano, piano si allargava nella mente del signore di Bretagna.
Fu infatti per uno spettacolo teatrale che il nobile signore impegnò gran parte delle proprie sostanze. Dalla vittoria di Orléans, ogni 8 maggio si festeggiava con solennità la liberazione della città. Un ignoto autore aveva composto il Mystère du Siège d’Orléans, un’opera di ventimila versi la cui rappresentazione richiedeva 500 attori. La città stessa diveniva palcoscenico e tra i protagonisti vi era naturalmente anche il signore di Rais: il Delfino annuncia in un passo alla Pulzella che avrà “il maresciallo di Rays, e un valoroso gentiluomo, Ambroise de Loré. (…) Garantiscano la vostra spedizione!”. Gilles poteva assistere seduto su uno scranno al proprio sogno-incubo: rivedere l’uomo felice, campione ad Orléans, allontanando così la sua condizione attuale di sadico, inseguito dai creditori, deriso a corte per il suo infantile scialare. Il miraggio di questo labile godimento temporaneo lo consumò: Gilles curò in ogni dettaglio la messa in scena del Mystère, facendo ricavare persino i cenci dei mendicanti da stoffe nuove, stracciate a bella posta. In poche settimane dilapidò una cifra stimabile attorno ai 2-3 milioni di euro attuali. Il signore impegnò castelli, terre, persino oggetti personali: Gilles era oramai preda della sua ossessione.
Le spese folli, il raptus omicida, la confusione sessuale, il degrado psichico, le pressioni dei creditori gettarono Gilles in uno stato crescente di frustrazione e disperazione da cui non si sarebbe più liberato. Un tentativo di sciogliere quel laccio, in realtà, vi fu, ma aggravò la situazione: il nobile, infatti, rivolse le proprie attenzioni alla magia e all’alchimia, nel tentativo di risollevare le proprie fortune. Non era certo il solo Gilles l’unico signore attorniato da sedicenti maghi e alchimisti. Ma il depravato non ebbe scrupoli a rivolgersi al Diavolo pur di uscire da quell’incubo, sprofondando in uno ancora più nero.
Inviò i propri servitori a caccia di maghi in grado di evocare demoni e quando Blanchet, amico di Gilles, incontrò il chierico Francesco Prelati, di Montecatini, trovò in lui l’uomo adatto alle esigenze del suo signore. Per evocare il demone Barron, il Prelati richiese a Gilles di sacrificare di volta in volta una colomba o una gallina: non ottenendo alcun risultato soddisfacente, per ottenere qualcosa di considerevole dal demone, il Prelati suggerì di fargli omaggio di membra di un giovane.
Gilles aveva già da tempo intrapreso la via dell’omicida seriale: la complicazione di sacrificare a Satana le proprie vittime fu un ulteriore passo nell’abisso. Nel suo delirio, infatti, Gilles si riteneva ancora un buon cristiano, temeva ancora il Dio della misericordia, aveva addirittura progettato un pellegrinaggio di espiazione a Gerusalemme. Cedere alle profferte del Demonio significava perdere anche quel labile freno inibitorio: alla mancata apparizione del demone davanti al sacrificio umano, anziché cessare, la mattanza aumentò.
Nel frattempo iniziarono a circolare voci sulle oramai incalcolabili sparizioni dei bambini: si diceva che Gilles uccideva e faceva uccidere fanciulli e col loro sangue scriveva un libro nero. Alcuni dei suoi aiutanti dovettero farsi scappare qualche parola di troppo, qualcuno vide qualcosa e le voci si fecero più insistenti.
Ma fu il suo carattere borioso e violento a tradirlo. Tra i vari acquirenti a prezzi stracciati dei suoi beni, vi era anche Geoffroy le Ferron, tesoriere di Bretagna, che aveva dato in custodia Saint Etienne de Mermorte al fratello Jean, un chierico protetto dall’immunità. Le lamentele dei contadini, vessati dai nuovi signori giunti “in casa” di Gilles de Rais, arrivarono alle sue orecchie e smossero la suscettibilità del barone. Gilles, alla luce del sole, prese le difese di quei contadini di cui, nell’oscurità delle tenebre, seviziava i figli: ma lo fece contravvenendo i privilegi ecclesiastici e infrangendo il patto che aveva stipulato con il duca di Bretagna, di cui le Ferron era tesoriere. Si fece infatti restituire, ob torto collo, il maniero e gettò in prigione il chierico. Dell’episodio approfittò il vescovo di Nantes, Jean de Malestroit, il quale – sfruttando questa violazione come pretesto – avviò un’inchiesta privata riguardo alle voci sui delitti attribuiti al maresciallo.
Nel luglio del 1440 Gilles dovette compiere uno degli ultimi suoi macabri omicidi: moriva tra le mani del brutale cavaliere il figlio di Jean Lavary. A fine mese il vescovo inviò lettere in cui non si parlava dell’episodio di Saint Etienne, ma si leggeva che “il nobil uomo monsignor Gilles de Rais, signore del detto luogo e barone, con taluni suoi complici aveva sgozzato, ucciso e massacrato in modo odioso numerosi giovani innocenti; che aveva praticato con tali fanciulli lussuria contro natura e vizio di sodomia; che aveva spesso fatto e fatto fare l’orribile evocazione dei demoni, aveva sacrificato e fatto patti con essi e perpetrato altri crimini entro i confini della nostra giurisdizione”. L’accusa era stata lanciata, ma Gilles, ignaro, proseguì: il piccolo figlio di Macée de Villeblanche, di soli nove anni, fu l’ultima vittima del mostro.
Il vescovo agì in sinergia col duca di Bretagna e col signore di Richemont: il castello di Tiffauges fu conquistato e il chierico lì detenuto, immediatamente liberato. Al gesto riparatore circa l’affaire di Saint Etienne, seguì l’accusa che il vescovo aveva mosso e che fu fatta propria anche dal braccio secolare. Il 14 settembre del 1440 gli uomini del duca di Bretagna si presentarono al castello di Machecoul per arrestare Gilles de Rais e molti dei suoi complici, tra cui i suoi camerieri e Prelati. Non vi fu resistenza: Gilles associò al solo episodio di Saint Etiénne il trambusto e l’arresto. Il processo, invece, si aprì il 19 settembre con l’accusa generica di “eresia dottrinale” che Gilles accolse con calma, rassicurando la corte che si sarebbe volentieri sottoposto a interrogazioni tenute da inquisitori. Gilles ignorava che il giudice aveva incontrato decine di parenti di bambini spariti e che tutti gli indizi conducevano ai suoi castelli da cui le vittime non facevano più ritorno.
Alle accuse enormi il sire di Rais rispose respingendole e non riconoscendo il potere giuridico della corte presieduta dal vescovo. Ma nelle sedute seguenti, alla lettura di innumerevoli articoli e capi d’accusa, e soprattutto al monito di dover riconoscere la corte, in quanto presieduta da un vicario del papa, e quindi di Cristo, Gilles de Rais cedette: fin tanto che Gilles era libero di scegliere tra Dio e Satana, era sempre lui l’attore. Con la scomunica, gli veniva preclusa la possibilità di scelta: la sua forza cedette. Sommessamente riconobbe la giurisdizione dei suoi giudici: poi, tra le lacrime e in ginocchio, si rivolse al vescovo per essere assolto dalla sentenza di scomunica. Solo dopo questa rassicurazione riconobbe tutti i crimini che gli erano stati imputati.
La corte rimase sbalordita di fronte all’ammissione di colpevolezza e di fronte alla portata dell’orrore e alla mancanza di un movente: Pierre de L’Hôpital, presidente di Bretagna, non comprendeva come tutto ciò fosse stato possibile senza un perché. Gilles, abbandonando il latino informale dell’interrogatorio, rispose in francese: “Invero, non c’era nessuna altra causa, nessun altro fine né intenzione, se non quelli che vi ho già detto: vi ho già detto cosa assai più grandi, abbastanza da far morire diecimila uomini”.
Nella udienza finale, il 22 ottobre 1440, Gilles rese piena confessione – e volle farlo in volgare, al fine di essere compreso da tutti – davanti a una folla enorme. Da mostro si trasformò in vittima e esortò “quanti avevano dei figli ad istruirli nelle buone dottrine e ad inculcare loro l’abitudine alla virtù sin dalla primissima infanzia”.
Gilles si poneva come critico della corrotta società di cui lui era un piccolo ingranaggio. Implorava i genitori a vegliare sui figli, a non tollerare l’ozio, a non comprar loro vestiti troppo costosi: era tutto questo che lo aveva portato alla rovina. La sua confessione si concluse con la sua richiesta della “misericordia e il perdono del suo Creatore e Santo Redentore, come pure dei genitori e degli amici dei fanciulli così crudelmente massacrati, e di tutti coloro di cui aveva leso i diritti, domandando a tutti i fedeli adoratori di Cristo il soccorso delle loro devote preghiere”.
Il mostro si era trasformato in un santo e come tale si avviò al patibolo: ottenne di essere ammesso ai sacramenti e si confessò. Fu condannato all’impiccagione assieme a due servitori e poi al rogo: questo oltraggio fu a lui però risparmiato, a motivo della sua profonda contrizione. Gilles ottenne addirittura di essere sepolto nella chiesa del monastero di Notre Dame des Carmes.
Ma quando nel corso della Rivoluzione Francese, anche Nantes fu travolta, la chiesa di Notre Dame fu saccheggiata e la tomba di Gilles de Rais, come quella di altri, fu profanata, distrutta per sempre, e i suoi resti gettati nella Loira.
Federico Canaccini
Questo articolo è stato pubblicato nel n. 248 del mensile MedioEvo (settembre 2017)