Giustiniano I ci parla ancora oggi, con le parole di Dante: “d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano…” (Paradiso, VI, 10-12).
L’imperatore bizantino (482–565) ha lasciato contrastanti ricordi della sua opera di governo. Ma anche una straordinaria eredità: il “Corpus iuris civilis”, una compilazione omogenea della legge romana che ancora oggi è alla base del diritto civile.
Un’opera gigantesca, caposaldo della scienza giuridica di ogni tempo, che rimane l’ordinamento giuridico più diffuso al mondo. È composta da 4 parti: il Digesto, il Codice, le Istituzioni e le Novelle.
Il Digesto fu promulgato il 16 dicembre 533. La parola viene dal latino “Digestus”. E’ il participio al passivo del verbo “digerere” che vuol dire disporre, separare e classificare gli argomenti in modo ordinato.
Le vaste trattazioni complessive del diritto romano furono chiamate anche con un’altra parola, di origine greca: “Pandette”, che spiega la completezza delle norme contenute in quei volumi, “onnicomprensive e riguardanti qualsiasi materia”.
La premessa al Digesto fu scritta da Giustiniano in persona. L’imperatore spiegò che l’opera nacque non perché le leggi mancassero ma perché erano troppe.
Fu un lavoro colossale, trascritto sia nella lingua greca che in quella latina. Durò appena tre anni: un record, soprattutto se lo valutiamo attraverso i parametri della modernità.
L’imponente impresa, seguita passo passo dall’imperatore, ebbe un protagonista assoluto: Triboniano, “questor sacri palatii”, ministro della Giustizia dell’impero. Fu lui a suggerire a Giustiniano di riprendere l’idea di Teodosio II di codificare i testi della giurisprudenza classica. E fu sempre lui a scegliere la commissione che portò a termine il progetto. Insieme a Triboniano facevano parte della squadra di lavoro il ministro del Tesoro Costantino (“comes sacrarum largitionum”), i professori di Bisanzio Teofilo e Cratino, i professori di Berytus (l’odierna Beirut) Doroteo e Anatolio, e undici avvocati: Stefano, Mena, Prosdocio, Eutolmio, Timoteo, Leonide, Leonzio, Platone, Giacomo, Costantino e Giovanni.
La “banca dati” utilizzata per la gigantesca ricerca fu fornita in buona parte dalla biblioteca personale del giurista di Giustiniano: Triboniano, ricordato dai suoi detrattori anche per il suo sconfinato amore per il lusso e la venalità, possedeva infatti molti libri, preziosi e rarissimi.
Poco prima del disfacimento dell’impero romano, nel 410, quando Alarico, re dei Visigoti, assediò, espugnò e saccheggiò Roma, non esisteva ancora nessuna raccolta ufficiale dei materiali giuridici. Il diritto romano, come ricorda Lucio De Giovanni (“Il Medioevo, Barbari, Cristiani, Musulmani”, Encyclomedia) non ebbe caratteri unitari e nella sua lunghissima storia non fu mai codificato.
Per raccogliere in un’unica opera la secolare produzione della giurisprudenza romana, la commissione di esperti formata da Triboniano consultò 1528 libri di quaranta autori diversi, dall’età repubblicana al III secolo dopo Cristo. Da questa montagna di norme bisognava estrarre una raccolta logica e armoniosa di saggezza giuridica, che potesse essere usata con comodità da parte dei giudici e degli avvocati dell’impero.
Dopo una accurata analisi di più di 3 milioni di righe, si arrivò a riclassificare ben 9950 iura. Così, vennero fuori i 50 libri del Digesto, divisi in titoli, frammenti e paragrafi. Ogni frammento è preceduto dall’indicazione, con i riferimenti del giurista e del volume citato.
L’opera si compone di sette parti. La prima è chiamata “Prota”, che in greco significa “principi”. Comprende i libri 1-4 che contengono le posizioni generali del diritto e del processo studiate dagli studenti del primo anno insieme alle Istituzioni di Giustiniano.
La seconda parte “Dei giudizi” (“De iudiciis”) arriva fino al libro 11. La terza parte “Delle cose” (“De rebus”) è composta dai libri 12-19. La quarta parte è chiamata “Umbilicus”, che significa “mezzo” e la quinta, “Dei testamenti” (“De testamentis”). La sesta parte (libri 37-44) e la settima (libri 45-50), non hanno invece un nome particolare. Nel libro 50, emerge una vera e propria perla del diritto: “Del significato delle parole”, una specie di dizionario dei termini giuridici usati nell’antica Roma.
Il Digesto venne utilizzato sia per la pratica forense sia per la scuola giuridica: diventò infatti oggetto degli studi degli studenti di diritto dal secondo al quarto anno. L’imperatore fu entusiasta dell’opera. Scrisse che “il Signore stesso” aveva aiutato i giuristi nella sbalorditiva impresa. E presentò i 50 libri come le basi del “tempio della Giustizia”.
Un testo unico e coerente, munito di forza di legge: Giustiniano lo impose alla prassi per la risoluzione di qualsiasi controversia. Dal quel fatale dicembre del 533 il sovrano bizantino impedì che i giuristi ricorressero alla consultazione diretta delle fonti antiche. E nel giro di 15 giorni dalla promulgazione dell’opera, dispose che fossero eseguite settanta copie del Digesto: la grande mole di documenti fu quindi trascritta in due lingue e in tempi rapidissimi, grazie a un sistema di distribuzione dei singoli fascicoli a vari gruppi di amanuensi.
Giustiniano assimilava le sette parti del Digesto ai sette pianeti del sistema solare, la cui ascensione sulla volta celeste era osservata dagli antichi astrologi. Così, nel descrivere una delle parti dell’opera, l’imperatore usò il verbo “exoriri”, quasi ad indicare un virtuoso percorso di innalzamento verso le stelle. Appassionato giurista, l’imperatore bizantino presentava il Digesto proprio come la musica delle sfere: un’opera perfetta.
Non furono dello stesso parere molti altri giuristi del Cinquecento e del Settecento. In particolare i Culti, esponenti della scuola di diritto che si sviluppò in Francia nel XVI secolo che arrivarono a descrivere Triboniano come un “malefico architetto”, colpevole di avere manipolato e “in parte distrutto (…) il grande patrimonio giuridico della romanità classica”. L’illuminista milanese Pietro Verri lo bollò come un ministro “ignorante e venale”.
Sotto accusa, con il senno di poi, venne messa la scelta di Giustiniano che ordinò la distruzione di tutto il materiale originario che era stato elaborato.
I compilatori del Digesto, per adeguare i testi al diritto vigente, apportarono modifiche ai documenti giuridici. Per esempio, in tutti i testi la parola mancipatio, che indicava il negozio solenne del diritto romano fu sostituita dal termine tradizio (trasferimento). E siccome i giuristi classici erano pagani, il ricorrente nome di Giove e le citazioni delle altre divinità, furono cancellate oppure sostituite con la parola “Dio”. Cambiamenti e cancellazioni di sicuro contestabili. Ma l’antica sapienza giuridica fu salvata comunque dalla rovina.
Il manoscritto originale del Digesto è scomparso. Per fortuna però disponiamo di un altro manoscritto, quasi contemporaneo all’età di Giustiniano, composto tra il VI e il VII secolo: è la Littera Florentina o Codex Florentinus. Nel XII secolo era conservato a Pisa, repubblica marinara che aveva stretti rapporti con Bisanzio. Dopo la presa di Pisa (9 ottobre 1406) diventò parte del bottino di guerra di Firenze e oggi è ospitato nella Biblioteca Medicea Laurenziana.
Federico Fioravanti