“Cosa fatta capo ha”

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Dietro il celebre detto c’è una storia di sangue e intrighi da cui nacque la guerra infinita tra i guelfi e i ghibellini.
Fatta una cosa, non ci si pensa più. Il modo di dire “Cosa fatta capo ha” conosce da secoli una grande fortuna. Ai giorni nostri, il proverbio serve a rassicurare chi lo cita. Indica anche uno stato d’animo: il sospiro di sollievo che si tira di fronte al buon senso di una decisione ormai presa. E sulla quale è meglio non tornare più indietro.

Nasce però da un fatto di sangue che fece scalpore nella Firenze del Duecento. Così importante e ricordato da sancire, in modo convenzionale, la data di inizio di una guerra che segnò l’Italia medievale: quella tra i guelfi e i ghibellini.

La storia è raccontata da cronisti d’eccezione.
Il primo è Dante Alighieri che nella Divina Commedia (Inferno, XXVIII, 103-111) presenta il protagonista della vicenda da cui tutto nacque: Mosca dei Lamberti, nato a Firenze alla fine del XII secolo e morto a Reggio Emilia nel 1243. Appartenne a una importante famiglia ghibellina, alleata degli Uberti di Farinata. Fu protagonista della vita politica fiorentina della prima metà del Duecento e anche podestà di Viterbo (1220) e Todi (1227) oltre che capitano in armi delle truppe fiorentine nella feroce guerra contro Siena.

inferno-XXVIII-Bertran-e-Mosca dei LambertiNell’Inferno dantesco appare nella bolgia dei seminatori di discordia, con le mani mutilate, tenute in alto: “Levando i moncherin per l’aura fosca, / sì che ‘l sangue facea la faccia sozza”.
L’orribile punizione ricorda la colpa del dannato: Mosca dei Lamberti decretò l’uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti, un giovane che Giovanni Villani quasi fotografa in una pagina della sua “Nova Cronica”, storia in 13 libri della città di Firenze, spiegando ai suoi lettori “ch’era molto leggiadro e bello cavaliere” .

Questo Buondelmonte era fidanzato in modo ufficiale con una fanciulla della potente casata degli Amidei, politicamente molto vicina ai Lamberti. Ma il giorno delle nozze non si presentò al matrimonio. La promessa sposa, i parenti e i tanti invitati lo aspettarono invano nella chiesa di Santo Stefano. La sorpresa diventò irritazione e poi sconcerto. E la rabbia si trasformò presto in furore e voglia di vendetta. Anche perché, quello stesso giorno, il 10 febbraio 1216, alcuni testimoni videro passare l’incauto e sfrontato giovanotto lungo le vie adiacenti alla chiesa, dove la famiglia Amidei aveva molte case di proprietà: Buondelmonte andava a giurare amore eterno a un’altra ragazza fiorentina, figlia di madonna Gualdrada e di Forese Donati il Vecchio.

I cronisti medievali, Villani in testa, specificano che fu proprio Gualdrada a convincere il giovane a disertare il matrimonio con la forse poco avvenente Amidei e a proporre in cambio al giovane Buondelmonte la mano della sua bellissima figliola.

Lo scandalo fu enorme. A Firenze non si parlava d’altro. I parenti della sposa abbandonata sull’altare volevano lavare l’onta di quel gesto clamoroso.
Anche perché l’ingiuria era doppia. Quel matrimonio doveva infatti essere “riparatore” di un’altra offesa, nella quale, appena un anno prima, erano state coinvolte le più importanti famiglie della città. Oggi potremmo dire che tutto iniziò per futili motivi.
Di certo, i fatti precipitarono senza che nessuno riuscisse a guidarli.

Nel 1215 il podestà Corrado Orlandi aveva organizzato una festa nel suo castello di Campi Bisenzio per celebrare il passaggio in società di Mazzingo dei Mazzinghi, un giovane che con la maggiore età diventava un cavaliere. Come era consuetudine, erano state invitate tutte le famiglie più importanti di Firenze.
Durante il ricco banchetto, un giullare fece sparire per scherzo un piatto ricolmo di carni sotto il naso di Uberto degli Infangati, che era seduto vicino al suo amico Buondelmonte.

Uberto non accettò la burla e si lamentò ad alta voce con gli altri commensali. Un terzo convitato, Oddo de’ Fifanti, abituale protagonista di risse, accusò a sua volta Uberto di aver fatto sparire quel piatto succulento. Lo fece con particolare insolenza, spalleggiato da altri invitati. Uberto replicò insultando a sua volta Oddo, che rispose lanciando un tagliere ricolmo di carni in faccia all’avversario. Si scatenò una rissa, che fu domata a stento dal padrone di casa. Poco dopo, finito il banchetto, mentre si sparecchiava, quando tutto sembrava finito, accadde il fattaccio: Buondelmonte aggredì Oddo a tradimento e lo ferì con un coltello. La lite fu bloccata. Ma non finì lì.

Con il sangue di mezzo, non si trattava più di una rissa. Le usanze del tempo prevedevano che si dovesse tutelare prima di tutto l’onore dei contendenti.
Per evitare guai peggiori, serviva una ricomposizione pubblica e formale.
Nella chiesa di Santa Maria sopra Porta venne convocato d’urgenza un consiglio di alcune famiglie legate da vincoli di sangue e di interesse: Fifanti, Gangalandi, Uberti, Lamberti e Amidei.

le_nozze_di_Buondelmonte_olio su tela di Saverio Altamura, 1858-1860 ca.Trovarono una soluzione riproposta spesso nelle liti tra le famiglie illustri: fu deciso che la questione si sarebbe potuta risolvere soltanto con un matrimonio riparatore. Così, fu proposto a Buondelmonte di sposare una ragazza di cui nessuna cronaca ci ha tramandato il nome: era la nipote di Oddo de’ Fifanti, figlia di una sua sorella e di Lambertuccio degli Amidei.

La proposta fu accolta. Venne stipulato anche un contratto da un notaio che prevedeva una forte penale in caso di mancata celebrazione del matrimonio. Sembrava quindi che il conflitto tra i maggiorenti fiorentini fosse appianato.
Ma Gualdrada Donati, che voleva a tutti i costi Buondelmonte come genero, accusò il giovane di aver paura dei potenti Fifanti e dei loro tanti amici. Ironizzò anche sull’aspetto fisico della giovane Amidei. E propose al ragazzo di sposare sua figlia. D’accordo con il marito, si offrì anche di pagare la penale prevista insieme alla ricca dote della fanciulla.

Così Buondelmonte cambiò volentieri idea. Ma lo fece tardi e male. In spregio alla forma e in modo plateale. L’insulto pubblico del matrimonio saltato all’ultimo momento, senza scuse, chiarimenti o spiegazioni, non poteva essere dimenticato. In ballo, insieme a quello degli Amidei, c’era l’onore di molte altre famiglie. I maggiorenti fiorentini vicini alla famiglia della sposa abbandonata sull’altare, si riunirono per decidere quali provvedimenti adottare.

Erano tutti d’accordo nel dare una lezione esemplare a Buondelmonte. Alcuni proposero di bastonarlo, altri di umiliarlo in pubblico, altri di sfregiarlo in modo permanente. Mosca dei Lamberti tagliò ogni discussione con quella frase che diventò una sentenza: “Cosa fatta capo ha”. Buondelmonte doveva morire.

Come teatro dell’imboscata venne scelto Ponte Vecchio, luogo simbolo della città. L’omicidio avvenne la mattina di Pasqua, proprio il giorno nel quale Buondelmonte aveva fissato le nuove nozze con la bella figlia di Forese Donati.
Il giovane stava andando in chiesa a cavallo, vestito di bianco e con una corona di fiori sulla testa. Una bastonata dell’Uberti lo disarcionò. Amidei e Mosca lo pugnalarono. E Fifanti, come colpo finale, gli tagliò le vene quando già agonizzava.

Villani scrisse: “E questa morte di messere Bondelmonte fu la cagione e cominciamento delle maledette parti guelfe e ghibelline in Firenze”.
All’inizio, in ballo, più che il papato e l’impero c’era quella che lo storico Davidsohn chiamò “una guerra civile per il controllo del consolato”, cioè del comune, tra gli opposti gruppi familiari.

Le prime menzioni dei due termini apparvero 23 anni dopo la morte dello sventurato Buondelmonte negli “Annales Florentini”: nel 1239 “guelfi” e nel 1242 “ghibellini”.

Guelfi_e_ghibellini

I guelfi e i ghibellini, dipinto novecentesco di Ottavio Baussano

Non fu un fatto solo toscano o fiorentino. Tra la fine del XII secolo e la metà del secolo successivo, all’interno dei comuni di quasi tutte le città italiane, si formarono due “partes” che si schierarono nella secolare contesa tra papato e impero.

A Firenze, le guerre locali trovarono una nuova ragione di scontro nella lotta che segnò la successione a Enrico V e che all’inizio vide protagoniste la casa di Baviera (Welfen), rappresentata da Ottone IV, e quella di Svevia (originaria del castello di Waiblingen), a cui apparteneva l’imperatore Federico II.
Nella Divina Commedia, Dante ci descrive Mosca dei Lamberti che si allontana tra i dannati dell’Inferno come persona “trista e matta”, consapevole del danno fatto alla città di Firenze, segnata dagli scontri feroci tra le opposte fazioni politiche.

Ma Dante è ancora più severo con la condotta scriteriata di Buondelmonte.
Cacciaguida, trisavolo del poeta, nel XVI canto del Paradiso, condanna la stirpe del giovane assassinato con gravi parole:

“La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v’ha morti,
e puose fine al vostro viver lieto,
era onorata, essa e i suoi consorti”.

Tra l’altro, Buondelmonte fu distratto dagli “altrui conforti” della famiglia Donati, il casato fiorentino da cui poi discesero anche Gemma Donati, moglie del Poeta e suo cugino Forese, amico di Dante e fratello di Corso Donati, capo dei guelfi neri.

Poche terzine dopo, nello stesso canto del Paradiso, Cacciaguida ricorda che il giovane fu ucciso all’altezza di “quella pietra scema che guarda ‘l ponte”.
La pietra mutilata (“scema”) era una statua di Marte, dio latino della guerra, primo protettore di Firenze al tempo in cui la città era ancora soltanto un castrum romano edificato sulle rive dell’Arno.

La scultura fu trasferita sul Ponte Vecchio quando i fiorentini si convertirono in modo pieno al Cristianesimo. Il nuovo patrono della città diventò allora San Giovanni Battista. Ma le guerre, d’armi e di parole, continuarono a dilaniare la città.

Federico Fioravanti

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