Era l’agosto del 1455. A Bologna era in corso un lavoro piuttosto inconsueto. L’ingegnere comunale Aristotele Fioravanti (1420 ca. – 1486?) stava spostando una torre campanaria in muratura.
Tante persone, udendo ciò, non avranno creduto alle proprie orecchie. Spostare una torre? Chi avrebbe mai avuto l’ardire di compiere un’impresa del genere? Molti avranno pensato che si trattasse di una panzana piuttosto risibile. Magari era in corso solo e semplicemente un’opera di demolizione e ricostruzione.
La curiosità però poteva essere più forte dell’incredulità, e sulla Strada Maggiore si formarono gruppi delle più varie persone, di ogni cultura e di ogni ceto sociale, tutte assiepate ad assistere a quello spettacolo.
Era vero! Questo Fioravanti si era messo in testa di spostare per una lunghezza di oltre 13 metri una torre campanaria di 4 metri di lato, con uno spiccato di quasi 25 metri, a cui si aggiungevano quasi 5 metri di fondazione, traslati in blocco insieme alla muratura soprastante.
Uomini e cavalli dettero forza motore a una batteria di argani, e come per incanto la Torre della Magione prese a muoversi sul serio. Tutti erano sbalorditi e ancora facevano fatica a credere ai loro occhi. Gli stessi operai impegnati trattenevano a stento il loro scetticismo, pronti a unirsi al coro di risate generali che sarebbe sicuramente esploso non appena la torre fosse caduta a terra.
Quella fatale conclusione sembrava inevitabile. Durante il tragitto, d’altronde, si era scatenata una pioggia violentissima che aveva fatto finire un mucchio d’acqua nel canale predisposto per la straordinaria impresa. E proprio mentre la torre compiva la sua lentissima traslazione, lungo quel canale, vi fu un cedimento.
Ecco, il momento della catastrofe è arrivato, tutti si dissero, chi con spavento, chi con malcelata esultanza. Ma Fioravanti non si perse d’animo e prese tutte le contromisure necessarie. La torre si riassestò, e continuò il suo tragitto, fino alla fine.
Fu allora che un boato di gioia e di esultanza fece piazza pulita di ogni paura e di ogni perplessità. Dal momento in cui la torre aveva lasciato la sua antica collocazione, erano trascorsi quattro lunghissimi giorni.
I contestatori più tenaci, quelli che fino in ultimo furono impegnati a coniare gli epiteti più maligni per quel Fioravanti che di Aristotele aveva solo il nome, dovettero essere i primi a salire sul carro del vincitore, dispensando lodi a non finire.
Non solo fu tributata all’architetto-ingegnere la mercede pattuita, ma egli ottenne un premio per la sua audacia e per il suo ingegno, sia dal committente, sia dal coltissimo Basilio Bessarione (1409-1472), eminente cardinale (quasi papa nel conclave di quell’anno) che teneva il Fioravanti in pianta di mano.
L’eco della sua impresa giunse in ogni dove. Una lettera con un resoconto dettagliato dell’evento fu immediatamente inviata a Francesco Sforza, duca di Milano (1454-1466). Moltissime città italiane si contesero i servigi dell’abile bolognese, visto che sembrava in grado di fare ogni cosa e di risolvere ogni problema. E ben presto anche illustri sovrani di Paesi lontani si fecero avanti per averlo nelle proprie corti.
L’impresa su cui Fioravanti giocò la carta del proprio successo, nacque da una situazione alquanto banale. Achille Malvezzi, commendatore dell’ordine gerosolimitano di San Giovanni (il futuro ordine dei cavalieri di Malta), era rettore della chiesa di S. Maria del Tempio. Egli abitava nel palazzo contiguo alla chiesa. La facciata del palazzo prospettava sulla Strada Maggiore. Sul fianco della chiesa, lungo la stessa direttrice, si imponeva l’isolata torre campanaria, nota come Torre della Magione. Ebbene, il Malvezzi, affacciandosi dalle finestre della sua casa, era infastidito dalla mole di quella struttura trecentesca, che gli negava la prospettiva della strada sino alla porta urbica. Non solo. La torre incriminata sorgeva proprio presso all’androne del suo palazzo e, trovandosi rasente alla strada, occupava spazio prezioso.
Il cavaliere si rivolse così al Fioravanti con l’intento di demolire la struttura e di ricostruirla in fondo alla chiesa, di presso a un vicolo. L’ingegnere fece però una controproposta, che comportava un notevole risparmio di tempo e di denaro. Si poteva spostare la torre direttamente sul luogo prescelto. Fioravanti stesso si assumeva la direzione e la responsabilità del lavoro, predisponendo tutti i macchinari necessari. Il Malvezzi, di certo sensibile all’aspetto economico dell’operazione, fu entusiasta. Si fidò ciecamente dell’ingegnere e gli dette carta bianca.
Ma come si faceva a dare seguito a un’idea così stravagante? Non esisteva alcun precedente in merito, e non solo a memoria d’uomo, a parte quella casa in legno (non in muratura!) che alcuni anni prima, nel 1418, fu spostata a Braunschweig (Bassa Sassonia).
Qualsiasi storia che raccontasse delle glorie degli antichi non offriva nulla di paragonabile. Certo, le meraviglie dell’architettura antica, come le piramidi egizie, il colosso di Rodi o il tempio di Diana a Efeso, erano spesso celebrate come opere somme di ingegno per la tecnica che le rese possibili. In tali casi, era facile trovare riferimenti ai conci giganteschi o alle colonne monolitiche (ricavate cioè da un singolo «macigno» di pietra) che necessitavano per il trasporto e la posa in opera un gran numero di accorgimenti e di macchinari.
Gli stessi obelischi dell’antica Roma meravigliavano da sempre ogni spettatore, visto lo sforzo eccezionale che dovettero richiedere per essere trasportati e per essere issati. Ma nel caso di Bologna non si trattava di spostare un obelisco, un fusto di colonna o un enorme concio: il trasporto riguardava un edificio intero del peso di migliaia di tonnellate.
Quali garanzie offriva Fioravanti? In primo luogo era un ingegnere che si era guadagnato la stima di tutti grazie allo scrupolo e alla dedizione con cui seguiva i lavori più impegnativi. Non cercava di consegnare il proprio nome alla storia con progetti architettonici di bello stile. Era interessato in modo viscerale al puro esercizio della tecnica edile, con particolare riguardo alla risoluzione dei problemi e alla realizzazione delle infrastrutture.
In una lettera del 1459 dichiara esplicitamente che gli impedimenti che è chiamato ad affrontare nel corso delle sue imprese, non sono in alcun modo motivo di fastidio o di preoccupazione, ma sono un incentivo a trovare e a inventare soluzioni. Ideare il «marchingegno» o scovare il metodo per raddrizzare un edificio, spostare un grosso peso, imbrigliare l’acqua o fondere una campana: è qui che si afferma il genio del Fioravanti.
Assunto in pianta stabile dal comune di Bologna nel 1453, in precedenza si era segnalato come addetto al trasporto e alla posa in opera di colonne monolitiche al cantiere di S. Pietro a Roma (1451-52), e nella sua città si era cimentato in due occasioni nel trasporto e nella posa in opera del «campanazzo» del Palazzo del podestà, tuttora presente nella torre che campeggia su Piazza Maggiore.
Nel 1453 sfoggiò abilità e intraprendenza nell’allestire un argano potenziato da ingranaggi a ruota, grazie a cui si poté issare agevolmente quel bronzo di grosse dimensioni.
Tutto questo, ovviamente, era qualcosa, ma di per sé non bastava. Il Malvezzi di certo si fidò del Fioravanti non solo per l’attività svolta, ma per le sue capacità persuasive. Energico e inventivo, risoluto, integerrimo e oltranzista, doveva suscitare al tempo stesso soggezione e gran senso di sicurezza. Se lui diceva che una cosa si poteva fare, doveva essere difficile prenderlo sottogamba.
Non abbiamo purtroppo testimonianze grafiche dell’impresa. La stessa Torre della Magione è stata abbattuta in modo del tutto insensato nel 1825.
Rimane sul luogo, all’angolo tra Strada Maggiore e Vicolo Malgrado, un’epigrafe commemorativa in latino (poi riassunta in italiano, in una lapide sottostante) dove si afferma erroneamente che Fioravanti fu chiamato Aristotele per il suo ingegno, quando era in realtà il suo nome di battesimo, peraltro non unico nella Bologna dell’epoca (è attestata persino una famiglia Aristoteli con diversi membri di nome Aristotele).
Per avere un quadro dell’impresa occorre fare affidamento sulle testimonianze dei cronisti, come pure sulle idee e sulle elaborazioni grafiche di tutti quei teorici e professionisti del settore che si soffermarono sul tema del trasporto di un edificio in muratura.
Un prezioso disegno basato su un originale di Francesco di Giorgio Martini, coevo del Fioravanti, mostra proprio una torre in fase di spostamento e, al di sotto, descrive la leva utilizzata al momento di svellere l’edificio dalle fondazioni, quando inizia la sua traslazione.
Forse il Martini si ispirò proprio alla torre bolognese. Lo stesso Leonardo da Vinci ebbe di sicuro in mente l’impresa del Fioravanti quando progettò di rialzare il battistero di Firenze, per porlo al sommo di una monumentale gradinata. Seguendo la ricostruzione proposta in base alle fonti da Sandra Tugnoli Pattaro, Aristotele procedette verosimilmente in questo modo. Mise alla luce le fondazioni della torre per un buon tratto e, giunto a un certo livello, scavò un grosso canale che andava fino al punto di arrivo.
All’interno della torre eliminò il pavimento di pianterreno e scavò fino al livello del canale. A quel punto pavimentò il fondo della torre e tutto il canale con uno strato di pietrame, per compattare la superficie. Inserì sul fondo della torre dei rulli di legno, cerchiati in metallo, e sopra a quei rulli, forando le fondazioni a intervalli regolari, costruì una piattaforma di assi trasversali. A quel punto dovette demolire il diaframma che intercorreva tra i pali della piattaforma e le fondazioni. Così facendo, la torre era “tagliata” dal suo supporto originale, poggiando sulla piattaforma e sui rulli sottostanti. Per spingerla fuori dalla sua sede fu forse necessaria una leva, mentre sul lato opposto una serie di argani collegati alla piattaforma iniziava la sua opera di trazione con l’ausilio di grosse viti senza fine.
La piattaforma di legno, che era tutt’uno con la struttura muraria, scorreva come una slitta sopra ai rulli di legno collocati dentro alla torre, e sopra ai rulli che poi venivano collocati lungo il percorso, man mano che la torre avanzava. La struttura fu infine ancorata alla nuova fondazione, più ampia di quella originaria.
Dopo l’impresa bolognese, Fioravanti si cimentò subito su altre torri. Il mese dopo raddrizzò la torre della pieve romanica di S. Biagio a Cento, oggi scomparsa. A Venezia, nel dicembre successivo, raddrizzò il campanile di S. Michele Arcangelo, ma questa volta le cose non andarono per il verso giusto, e la torre rovinò su un convento adiacente pochi giorni dopo, o addirittura il giorno dopo la conclusione dei lavori.
Nonostante questo incidente di percorso, la fama di Aristotele rimase indiscussa. Cosimo de’ Medici (1389-1464), nel 1458, voleva che si recasse a Firenze per traslare un campanile, dietro compenso di mille fiorini d’oro, ma forse il lavoro non fu mai attuato.
Su incarico di Ludovico Gonzaga, marchese di Mantova (1444-1478), rimise in sesto la torre di un ponte levatoio alla Porta Ceresio della città, sul corso del Mincio (1459), oggi non più esistente. Si trattava di un importante intervento di recupero su una strada di accesso a Mantova, in vista del solenne concilio che lì doveva essere celebrato da papa Pio II (1458-1464) dopo la traumatica caduta di Costantinopoli (1453), nella speranza di organizzare una crociata contro la potenza ottomana.
Per avere al suo servizio l’uomo «che move le torre» (sono le parole del suo ambasciatore a Milano), il marchese della città lombarda aveva dovuto perorare la concessione di una licenza a Francesco Sforza. Il duca di Milano, infatti, si era assicurato nel 1458 i servigi del Fioravanti, dopo che l’ingegnere si era impelagato in una fastidiosa vicenda giudiziaria. Mentre era intento a sistemare le difese di Bologna, penetrò in un terreno privato dove era impiantata una vigna insieme ad alberi da frutto, e, senza alcuna autorizzazione, fece piazza pulita in modo che le piante non impedissero una buona visione dagli spalti. Aristotele, una volta di più, aveva dato prova del suo carattere spiccio e risoluto, ma mal gliene incolse. Il proprietario del terreno lo citò in giudizio e lo fece condannare a una pena pecuniaria e al bando, pena la forca.
La condanna fu poi revocata d’autorità, ma l’ingegnere, evidentemente stizzito, decise di trasferirsi a Milano.
Egli operò moltissimo sulle fortificazioni del territorio ducale, ed ebbe anche modo di progettare il consolidamento del famoso ponte coperto sul Ticino a Pavia (1458).
Nella stessa Milano fornì un parere sulla copertura a capriate dell’Ospedale Maggiore (1461), capolavoro del celebre architetto Antonio di Pietro Averulino detto il Filarete (1400 ca. – 1469), che si rivelò un ammiratore entusiasta di Aristotele.
Nel suo poderoso Trattato sull’Architettura, dedicato a Francesco Sforza, e una cui versione latina fu richiesta da Mattia Corvino re d’Ungheria (1458- 1490) – che amava immensamente l’ingegno italiano –, il Fioravanti appare nascosto dietro due curiosi anagrammi, «Letistoria» (Aristotile) e «Segnelobo» (Bolognese). Emerge come massima autorità nello spostamento dei pesi, e il Filarete gli assegna un progetto da par suo: l’innalzamento di un obelisco per giunta rialzato alla base da un ordine di statue-cariatidi. L’opera doveva essere dedicata al mitico re Zogalia (anagramma di Galiazo, ossia Galeazzo, figlio dello Sforza), nell’antica città di Plusiapolis, le cui vestigia sono nascoste sotto la città ideale, Sforzinda.
E nella sfera reale il Fioravanti doveva sul serio adagiare, spostare e issare nella nuova sede un obelisco, nientemeno che l’obelisco Vaticano.
Dopo che era tornato a Bologna, accolto con grande onore (1464), fu convocato a tal fine da papa Paolo II, nel 1471, e forse già il suo predecessore Niccolò V (1447-1455) lo coinvolse nel proponimento di sistemare di fronte alla basilica il gigantesco monolite «di Giulio Cesare», all’epoca «relegato» sul fianco del complesso, vicino alla rotonda di S. Andrea. Ma Paolo II morì all’improvviso, proprio la notte che fece seguito alla prima discussione del progetto. Aristotele non si dette per vinto, e fece pressioni sul successore Sisto IV (1471-1484) affinché l’idea non finisse accantonata, ma il papa aveva altre priorità.
Molti anni dopo, un altro papa Sisto, il vigoroso Sisto V (1585-1590), riprese in mano il progetto, e l’obelisco fu così sistemato nella collocazione attuale da Domenico Fontana, il suo architetto di fiducia (1586). Egli svolse il compito egregiamente, avvalendosi di un gigantesco castello di legno con argani di tipo tradizionale, e con abbondante ricorso a quelle funi di semplice cordame che erano vivamente sconsigliate dagli ingegneri del Quattrocento.
I più sicuri collegamenti metallici e i dispositivi di potenziamento che il Fioravanti avrebbe senz’altro utilizzato, anche se erano assai più avanzati, sembravano paradossalmente appartenere a una stagione di grande fervore ormai conclusa.
Furio Cappelli