Arista, il sapore di una parola

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arista-di-maialeArista. Per gli amanti della carne, basta la parola. La schiena del maiale cotta in forno o arrosto allo spiedo, con il grasso usato come intingolo per rosolare le patate di contorno o insaporire le erbette, è un piatto della tradizione contadina toscana che è diffuso anche in altre regioni italiane. L’arista ha conosciuto un grande successo anche perché si può consumare pure fredda, molte ore dopo la cottura, senza che perda di sapore.

Ma qual è la vera origine della parola? Il termine risale di certo al Medioevo e è stato usato per la prima volta nell’area fiorentina.

La leggenda, accreditata da Pellegrino Artusi, massimo gastronomo dell’Ottocento, vuole che il piatto sia nato a Firenze in un giorno tra il 15 e il 27 gennaio del 1439, durante il concilio ecumenico della chiesa romana e greca. Papa Eugenio IV, per la verità, aveva convocato vescovi e cardinali a Ferrara. Ma in quei giorni nella città degli Estensi c’era il pericolo di una epidemia di peste. Cosimo il Vecchio, signore di Firenze, nonno di Lorenzo il Magnifico, da uomo pragmatico qual era, convinse il pontefice a spostare l’incontro nella sua città.
Anche perché l’avvenimento si presentava come un grande appuntamento non solo religioso ma anche capace di muovere l’economia. Basti pensare che la delegazione bizantina era composta da quasi 700 persone. Altrettanto numerosa era la parte latina.

Sul tavolo della trattativa, c’era il tema cruciale della riunificazione delle Chiese latina e ortodossa. Si trattava di provare a ricomporre uno scisma che durava dal lontano 1054.
L’imperatore Giovanni VIII Paleologo (1425-1448), sedeva vicino a suo fratello Demetrio, il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II. Tra i tanti dotti, vescovi e teologi, spiccavano le figure di Basilio Bessarione, Isidoro di Kiev e Marco Efesio. Almeno a parole, si respirava un clima di unione. Il papa, come segno di umiltà, non volle sedere al centro ma si accomodò nel posto che spettava al primo della lista nella fila dei religiosi latini.

In discussione c’era il primato del pontefice romano, la dottrina sul Purgatorio e altre spinose questioni teologiche. Al basileus di Costantinopoli, riconciliazione a parte, premeva però soprattutto che gli occidentali aiutassero dal punto di vista militare l’impero bizantino, ormai assediato dai turchi ottomani.

L’accordo fu trovato. Venne siglata la sospirata riconciliazione. Ma durò poco perché almeno due terzi dei dignitari e degli alti religiosi bizantini, appena tornarono in patria, rinnegarono l’intesa. A conti fatti, a parte gli aiuti militari, di cui avevano un reale bisogno, non avevano nessuna voglia di sottomettersi alla tiara papale. Quasi quasi preferivano il “turbante” degli ottomani. E infatti, qualche anno dopo, il 29 maggio 1453, l’impero romano d’Oriente cadde per non rialzarsi più.

Ma in quei giorni di trattative più o meno ufficiali, Firenze visse con entusiasmo l’atmosfera delle grandi occasioni. Il corteo degli ospiti orientali migliorò le già ottime finanze di Cosimo il Vecchio e ebbe un effetto benefico anche sulla vena creativa di artisti come Benozzo Gozzoli (“La cappella dei magi”) Filarete e Piero della Francesca.

E l’arista? Cosa c’entra? La leggenda narra che durante uno dei tanti banchetti, di fronte a un saporitissimo arrosto di maiale, il cardinale greco Bessarione volle esclamare ad alta voce tutto il suo irrefrenabile entusiasmo. Si voltò verso gli altri commensali e ripeté più volte: “Ariston! Ariston!”. In lingua greca, la parola vuol dire “il migliore”. Ottimo boccone insomma. E anche abbondante, visto che di fronte all’autorevole giudizio, tutti applaudirono con convinzione. I fiorentini furono conquistati da quel superlativo esotico. E con quel nome che suonava così bene battezzarono l’ottima lombata di maiale.

Ma forse non andò così. Anche sull’origine dell’arista fu confezionata una bella versione ufficiale che in quel momento potesse piacere a tutti ma che poi, alla prova dei fatti, non resse. Perché già alla fine del Trecento, in un suo racconto, il novelliere fiorentino Franco Sacchetti scrisse una frase che non dà adito a dubbi: “Io scrittore ne potrei far prova, che avendo mandato uno tegame con uno lombo, e con arista al forno…”. Quel piatto, a Firenze, già esisteva da più di cinquanta anni.

Tutto risolto? Forse no. Perché altri documenti, risalenti addirittura al 1287, citano una “arista di porcho”. Una prova che sembra inconfutabile. Perché, come si dice, “carta canta”.
Allora, possiamo dire che l’origine della parola, che vuol dire “il migliore” oppure “ottimo”, ha un’altra nascita: è certamente greca e il significato, alla fine, è quello. Ma non riguarda l’entusiasmo di un cardinale bizantino a tavola quanto altri greci, cittadini che vivevano a Firenze fabbricando profumi, almeno tre secoli prima del famoso concilio ecumenico. Tanto che il loro quartiere si chiamava, allora come oggi, Borgo dei Greci. Si integrarono così bene che già nel Duecento erano una delle più importanti famiglie della città, citata anche da Dante, per bocca del saggio avo Cacciaguida, nel Canto XVI del Paradiso.

Greci diventati fiorentini che, come i vescovi incerti del concilio ecumenico, non amavano la tiara papale: nel Trecento caddero in disgrazia proprio a causa della loro incrollabile fede ghibellina.
Alla fine, sull’origine della parola, anche l’autorevole dizionario Treccani non si sbilancia. E a alla voce “arista”, specifica: etimo incerto.
Di sicuro, tra tante ipotesi, seppure convergenti, sappiamo con certezza una cosa: che il tipico arrosto di maiale toscano è proprio buono. Anzi, ottimo. Forse, il migliore.

Virginia Valente