Andare a Canossa

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Matilde e Hugo di Cluny

Matilde e Hugo di Cluny intercedono per Enrico IV.

“Andare a Canossa”: una frase così famosa tanto da diventare una specie di proverbio. Anche in lingue diverse dall’italiano. Gli inglesi dicono ”Go to Canossa”. I tedeschi “Nach Canossa gehen”. E i francesi “Aller à Canossa”. L’espressione è entrata nell’uso comune con un chiaro significato: indica un passo umiliante, una penitenza, un perdono da implorare quando non c’è più una via d’uscita.

L’affermazione però non nacque nel Medioevo. Né risuonò sui monti dell’Appennino. Fu Bismarck, primo ministro prussiano dal 1862 al 1890, a scandire bene le fatali parole, davanti al Reichstag, il 14 maggio 1872: “Non preoccupatevi, a Canossa noi non andremo, né col corpo né con lo spirito”. Era la vigorosa risposta, nello stile del personaggio, al gesto di papa Pio IX che si era rifiutato di accreditare l’ambasciatore del neonato impero tedesco presso la Santa Sede.

Bismarck voleva affermare un principio di autonomia: la Germania non accettava nessuna interferenza politica né religiosa. E nemmeno culturale.

Il “cancelliere di ferro” in quel discorso citava un altro imperatore e un altro papa. Pensava a un fatto accaduto 795 anni prima: il 27 gennaio 1077 l’imperatore Enrico IV di Franconia (1050-1106), a piedi nudi e vestito soltanto di un saio, si umiliò come penitente per ottenere la revoca della scomunica papale. Attese tre lunghi giorni e tre gelide notti sotto la neve prima di essere ricevuto e perdonato dal pontefice Gregorio VII (1025-1085).

Le cronache raccontano che fu determinante l’intercessione di Matilde di Toscana, la più ardente alleata del papa, aiutata nell’occasione dall’abate Ugo di Cluny, che era stato padrino di battesimo dell’imperatore.

Per uso e anche per convenzione, l’atto di penitenza comportava il perdono. E la scomunica venne revocata.

Ma come si arrivò al plateale gesto di Enrico IV a Canossa? L’episodio va inquadrato nella cosiddetta “lotta per le investiture”: una serie di conflitti combattuti per quasi cinquanta anni (1075-1122) tra la Chiesa e l’Impero per il conferimento dei ricchi beni ecclesiastici.

Da chi dovevano essere nominati i vescovi e gli abati? Chi doveva dare forma e direzione alla società cristiana? Il problema divenne di cruciale importanza per definire i limiti dei poteri di Papato e Impero.

L’episodio di Canossa è giunto sino a noi ingigantito dall’aneddotica.

Negli atti di un convegno di studi dedicati all’insigne storico Ovidio Capitani (Cisam, Bologna, 15-17 marzo 2013) Paolo Golinelli, ordinario di Storia medievale all’Università di Verona e massimo studioso di Matilde, ha riepilogato le riflessioni di molti medievisti sull’argomento.
Lo storico Gioacchino Volpe, già nel 1904 descriveva la vicenda di Canossa come un “comodo arnese di guerra per tanti fantasiosi scrittori di storia medievale”.
Giuseppe Fornasari, docente di Storia medievale all’Università di Trieste, in un convegno gregoriano a Salerno (1986) parlò di “un mito storiografico duro a morire e di cui la storiografia non sembra essersi ancora liberata del tutto”.
Ovidio Capitani, uno dei massimi studiosi del Medioevo, spiegò a tanti suoi colleghi che a Canossa non ci fu nessuna umiliazione dell’imperatore. Anzi, quella forse fu “la più grande vittoria di Enrico IV”.
Paolo Golinelli ha sottolineato la capacità politica di Enrico IV nello “giocare d’anticipo” rispetto alle mosse del papa.

L’incontro di Canossa fu voluto in realtà dall’imperatore che interruppe il viaggio di Gregorio VII verso Augusta, dove avrebbe dovuto essere eletto un nuovo re di Germania.

Glauco Maria Cantarella, già ordinario di Storia medievale all’Università di Bologna, nell’eccellente saggio “Manuale della fine del mondo” (Einaudi Storia, 2015) ricorda che il papa trovò l’imperatore sul suo cammino. Gregorio VII era ormai troppo lontano da Roma e affrontare Enrico IV non era consigliabile.

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I resti del Castello di Canossa, sull’Appennino Reggiano (Reggio Emilia).

Così il pontefice si rifugiò nel munitissimo castello di Matilde. Iniziò una trattativa simile a una partita a scacchi. Ma secondo la maggioranza degli storici, nonostante le apparenze, fu il penitente Enrico a condurre gli avvenimenti.

Sui monti dell’Appennino emiliano andò in scena la pubblica rappresentazione di un peccatore famoso che non poteva non essere perdonato. Come ha ben spiegato Paolo Golinelli “quello di Enrico IV non fu nulla più di un atto penitenziale, secondo una prassi consolidata che durò ancora almeno un secolo, per ottenere l’assoluzione”. E assoluzione fu.

Canossa, come scrisse Capitani, rappresentò soltanto un momento di pausa in una crisi che doveva ancora continuare a lungo.

In apparenza poco cambiò: Enrico IV, liberato dalla scomunica, appena due settimane dopo la sua “umiliazione” incontrò i vescovi che gli erano fedeli e provò a catturare il papa in una imboscata. Gregorio scampò al pericolo e per sei mesi si rifugiò nelle fortificazioni di Matilde.

I nobili tedeschi non riconobbero la revoca della scomunica e elessero re Rodolfo di Svevia (marzo 1077). L’inevitabile guerra si concluse con la morte dell’anti re (ottobre 1080). Per Enrico arrivò una seconda scomunica. Ma l’imperatore convocò a Bressanone un sinodo di vescovi tedeschi e lombardi che depose il papa.

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Gregorio VII fu sepolto in un sarcofago romano del III secolo. Nel 1954, Papa Pio XII lo fece traslare per pochi giorni a Roma dove fu esposto al pubblico. Poi fu risistemato nella Cattedrale salernitana in una teca d’argento, dove si trova tuttora.

La rottura diventò insanabile. Enrico IV forzò la mano con la soluzione militare: conquistò Roma e si fece incoronare imperatore dall’antipapa Clemente III (1084). L’anno dopo Gregorio VII, morì in esilio a Salerno. Sulla sua tomba furono scolpite le sue ultime parole: ”Ho amato la giustizia e ho odiato l’iniquità: perciò muoio in esilio”.

Un altro pontefice, Urbano II, ricostruì una alleanza antimperiale intorno al matrimonio tra Guelfo V di Baviera e Matilde di Canossa che Enrico aveva deposto e privata di quasi tutti i suoi beni.

Nel 1090 l’imperatore tornò in Italia con i suoi soldati: fu sconfitto (1092) e tornò in Germania solo nel 1097. Provò a cercare un accordo con il papa ma fallì nel suo disegno. I nobili tedeschi si ribellarono. E insieme a loro, anche suo figlio, il futuro Enrico V che per paura di perdere il trono imprigionò suo padre e lo costrinse all’abdicazione (1104-1105). L’indomabile Enrico IV si liberò e affrontò e sconfisse il figlio (marzo 1106). Ma poco dopo morì.

In una sua celebre tragedia, Luigi Pirandello ha raccontato le lotte, le nevrosi e anche la solitudine di Enrico IV. La storia invece lo ricorda soprattutto come l’imperatore che “andò a Canossa”.

Eppure nel Medioevo di quella famosa penitenza si parlò poco. Paolo Golinelli (Atti convegno su Ovidio Capitani – Cisam, Bologna, 15-17 marzo 2013) ci ricorda quanto l’avvenimento, per molto tempo, sia stato considerato poco importante da un punto di vista storico.

Dante, per esempio, non scrisse di Canossa e nemmeno di Gregorio VII e Enrico IV. Niccolò Machiavelli nelle sue “Istorie Fiorentine” (I, XV) parlò in modo fugace della penitenza del re senza nominare Matilde e il suo castello.

Di Canossa non c’è traccia nemmeno nella “Storia d’Italia” di Francesco Guicciardini. Furono gli storici protestanti a resuscitare l’episodio, soprattutto in un libello molto diffuso in età luterana (“Passional Christi und Antichristi”, 1521) dove il bacio dell’alluce “gottoso” del papa da parte dell’imperatore, disegnato da Lucas Cranach il Vecchio, è messo in parallelo con la lavanda dei piedi, che Gesù fece agli apostoli, durante l’ultima cena”.

Poi, la polemica antiromana fece il resto.

Federico Fioravanti