Dal nome scientifico di Artemisia absinthium, l’assenzio è in realtà una varietà di artemisia, da cui si differenzia per il fusto e le foglie di colore argenteo.
Il suo nome deriva dal latino absinthium e dal greco apsìnthion, ossia “privo di dolcezza, amaro”. Infatti si tratta di un’erba amarognola, dal gusto sgradevole, anche se aromatica nell’odore.
Petrarca, nel Canto CCXV del Canzoniere, parlando della sua donna e dell’amore che è in lei, afferma che questo può “addolcir l’assenzio”, proprio a sottolineare la forza dell’amore in contrapposizione al sapore amaro di quest’erba.
Proprio per il suo gusto divenne sin dall’Antichità sinonimo di amarezza anche in senso metaforico, di punizione, di dolore e nella Bibbia viene nominato più volte proprio legato a significati di sciagure e sofferenze.
Nel Purgatorio Dante, durante l’incontro con l’amico Forese Donati, riprendendo la lirica aulica del tempo parla di “dolce assenzio”, per indicare la dolcezza e l’amarezza del dolore e del pentimento.
Ma le sostanze amare che rendono sgradevole il gusto di quest’erba sono e sono state anche princìpi utili in fitoterapia per combattere malattie e disturbi vari, sin dai tempi più antichi.
La pianta è un antisettico, un febbrifugo, ma anche un tonico e un digestivo. Dioscoride, erborista del I secolo, lo consiglia anche contro le tarme, le cimici, le pulci e i topi, uso che rimase anche in epoche successive, quando con l’assenzio veniva preparato un olio utile a uccidere cimici e pulci.
In territori celtici, la pianta veniva usata per offerte agli dèi, ma anche per combattere i reumatismi, cingendosene i reni. I Druidi, inoltre, lo utilizzavano anche per le proprietà antiemetiche, ossia per combattere gli ossiuri, i temibili parassiti intestinali.
Santa Ildegarda lo considerava rimedio fondamentale per ogni tipo di esaurimento, ma lo consigliava anche da prendere a giorni alterni, triturato e mescolato con vino e miele, per risanare molte malattie fisiche e soprattutto per combattere la malinconia.
Anche Oddone di Meung lo riteneva utile a tutta una serie di affezioni più o meno importanti: lo consigliava come vermifugo, emmenagogo, purificante, ma anche contro le zanzare, cospargendo il corpo con un trito di erba mescolata a vino inacidito (sarebbe stato l’odore a scacciarle). Secondo l’erborista medievale, l’assenzio era in grado di contrastare il veleno dei funghi o quello della cicuta, così come di prevenire il mal di mare, favorire il sonno se annusato o posto sul cuscino, scurire i capelli, eliminare le tarme dagli armadi, e anche, se macerato nel vino e mescolato con l’inchiostro, preservare le pergamene dall’attacco dei topi.
L’assenzio può quindi essere considerata un’altra delle erbe dai mille usi e dalle molte proprietà, utile a garantire benessere e salute. E forse proprio per questi motivi i Romani solevano dare del succo di assenzio ai vincitori delle corse con le quadrighe, come simbolo di massimo premio.
Nell’Ottocento si diffuse la moda del liquore d’assenzio, preparato col succo della pianta. A piccole dosi era utile come tonico e stimolante, ma date le caratteristiche tossiche dell’erba, il suo abuso fu causa di gravi intossicazioni e per questo in molti Paesi dovette essere proibito.
Oggi quest’erba è ancora usata in fitoterapia, ma viene decisamente sconsigliata nell’uso casalingo, proprio per la sua tossicità. Meglio allora rimanere ai significati simbolici, e identificare l’assenzio con il dolore che va comunque vissuto fino in fondo.
Rosella Omicciolo Valentini