Steve Jobs, il calligrafo

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Il morso di una mela ha cambiato la storia del mondo. Da Adamo ed Eva fino a Steve Jobs, il geniale e visionario co fondatore di Apple. Le sue stupefacenti invenzioni hanno segnato l’era di internet, la grande rete globale che nel giro di appena tre decenni ha rivoluzionato il modo in cui comunichiamo, ascoltiamo la musica e condividiamo le informazioni.

Tecnologie che fin dalla loro apparizione più che macchine calcolatrici parevano vere e proprie opere d’arte: dall’Apple II (1977), il primo personal computer alla portata di tutti, al Lisa (1983) battezzato con il nome della figlia di Steve in cui apparve la prima versione semplificata di un mouse. Fino al Macintosh (1984) prototipo di un pc con mouse e tastiera e una interfaccia grafica arricchita da icone, finestre e menu a tendina. E poi, via via, altri capolavori: l’iMac (1998), capace di unire in un corpo unico monitor e computer; l’iPod (2001) e l’iTunes (2003), protagonisti di un cambiamento radicale nell’ascolto della musica; l’iPhon, un mini pc con telefono incorporato dal design minimale (2007) e l’iPad (2010), il tablet che ha riscritto dalle fondamenta la storia dell’informatica.

Piccole finestre dalle quali, ogni giorno, possiamo guardare il mondo. Segnate da un marchio, quello della mela morsicata, diventato in fretta un brand planetario. Nato da un ricordo: quello di uno dei tanti lavori occasionali del giovane Jobs, impegnato come “stagionale” nelle campagne dell’Oregon. Quel “frutto proibito” lo ossessionava. Tanto che chiamò la piccola azienda partorita in un garage di Cupertino, come la sua marca preferita di mele: McIntosh, il nome da cui poi scaturì l’Apple Macintosh, la famiglia allargata di computer commercializzati a partire dal 1984.

L’evoluzione del logo Apple

Il logo originale risale al 1976. All’inizio nacque come un disegno a china, pensato come un esplicito omaggio a Isaac Newton: il padre della scienza moderna era raffigurato seduto sotto un albero di mele, pronto ad essere colpito sulla testa dal frutto che gli avrebbe poi ispirato la sensazionale scoperta della legge di gravità (1665). Ma quel marchio, troppo elaborato, somigliava ad un quadro da appendere in salotto e non funzionava per il marketing. Così fu sostituito in fretta. E poi rimodellato, anno dopo anno, fino ad arrivare all’immagine elegante, semplice e potente dei nostri giorni.

Steve Jobs morì nel 2011, stroncato da un male incurabile. Aveva 56 anni. Oggi la Apple è l’azienda tecnologica di maggior valore al mondo. Uno studio ha calcolato che nel 2021 la società capitalizzava ben 2,1 mila miliardi di dollari. Se fosse equiparabile al PIL di un paese, l’azienda fondata nel 1976 dentro un garage da Steve Jobs, Stephen Wozniak e Ronald Wayne supererebbe in ricchezza il 97% delle nazioni e avrebbe diritto ad un tavolo del G8. Prima dell’Italia, del Brasile, del Canada e della Russia.

Una eredità stupefacente, in un mondo nel quale il denaro è ormai diventato la misura di tutte le cose.

Ma c’è un altro testamento, trasmesso solo dalle parole. Quelle che Steve Jobs scandì in un memorabile discorso tenuto il 12 giugno 2005 davanti ai neolaureati dell’Università di Stanford. Un invito ad affrontare con coraggio i tempi difficili che la vita inevitabilmente ci riserva. Concluso con una esortazione ormai celebre: «Stay Hungry. Stay Foolish». Siate affamati, siate folli.

Un incitamento a chi vive il dono della giovinezza a non buttare via la propria esistenza: «Il vostro tempo è limitato, per cui non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro. Non fatevi intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui offuschi la vostra voce interiore (…) E, cosa più importante di tutte, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione».

Una confessione passionale, a volte ruvida. Un “elogio della follia” nel quale trovarono spazio anche alcuni accenni alla sua vita privata, ricca di imprevisti e difficoltà affrontati con incredibile determinazione e con una fiducia senza limiti nei propri mezzi.

Steve Jobs e Stephen Wozniak in una foto del 1977

Steve Jobs era nato a San Francisco da uno studente siriano e da una studentessa di origini svizzere e tedesche. Fu dato in adozione alla famiglia Jobs che risiedeva a Mountain View, nella contea californiana di Santa Clara. I suoi nuovi genitori, un meccanico e una contabile, lo fecero studiare con grandi sacrifici, mantenendo la promessa che avevano fatto alla madre biologica. Jobs si diplomò in una high school pubblica, l’istituto Homestead di Cupertino.

Nell’autunno del 1972, quando ancora infuriava la guerra del Vietnam ed era già esploso lo scandalo Watergate, Steve si iscrisse al costoso e qualificato Reed College di Portland, nello stato dell’Oregon. Ma non si laureò mai. Lasciò gli studi dopo appena sei mesi. Non aveva abbastanza soldi per pagare la retta da cinquantamila dollari l’anno. E in fondo era anche poco interessato alla maggior parte dei corsi. Ma non lasciò il Reed e continuò a frequentare il campus per un altro anno e mezzo, in realtà senza saper bene cosa fare.

Fu proprio in quei giorni che conobbe Stephen Gary Wozniak, il geniale studente di informatica ucraino-polacco di cinque anni più vecchio di lui, con il quale appena quattro anni dopo fonderà la Apple.

Lo stemma del college, un fiammeggiante grifone, simbolo dei uno degli atenei più spietatamente meritocratici degli States, passava tutti i giorni sotto gli occhi del giovane Steve. Ma quasi tutti lo consideravano alla stregua di un eccentrico vagabondo. Jobs viveva nella povertà più totale: dormiva sul pavimento nelle camere degli altri studenti; per comprare qualcosa da mangiare, raccoglieva le bottiglie vuote di Coca Cola e le riportava ai venditori in cambio di cinque centesimi di dollaro; per consumare l’unico pasto completo della sua settimana, ogni domenica, camminava per dieci chilometri per raggiungere un tempio Hare Krishna dove si poteva pranzare gratis.

La sua dieta quotidiana, a parte qualche occasionale invito, era a base delle amate e succose mele dell’Oregon.

Affamato e sognatore, cercava comunque una sua strada. Si iscrisse a un corso di danza. Frequentò un ciclo di lezioni dedicate a Shakespeare. E alla fine trovò, quasi per caso, la sua stella polare: lo studio della calligrafia.

Robert Palladino al Reed College

Più tardi raccontò che il suo innato senso estetico era stimolato in modo particolare dall’elegantissimo arredo degli spazi dentro e fuori il campus: ogni cartello, poster ed etichetta era scritto a mano, con calligrafie meravigliose. Tutto merito degli studenti di un corso allora molto in voga, tenuto da Robert Palladino, uno dei più raffinati maestri dell’arte della scrittura a mano: un frate trappista, nipote di Gaetano Palladino, uno scalpellino italiano che era emigrato in America per la costruzione della cattedrale di Santa Fe.

Jobs rimase folgorato dal carisma di quel monaco cistercense che studiava l’alfabeto fenicio ed ebraico, le epigrafi greche e romane e le scritture medievali. Lo conobbe fuori dalle aule e conservò con cura il suo elegante biglietto da visita: il nome era seguito soltanto da altre due parole, «sacerdote & calligrafo», sintesi degli unici, veri interessi di un uomo che usava a malapena il telefono e pareva vivere fuori dal mondo.

Il geniale e sregolato ragazzo di San Francisco da allora si tuffò in modo ossessivo nello studio degli stili calligrafici. Partecipò come oratore alle lezioni di Palladino, che aveva ereditato la cattedra di calligrafia da Lloyd Reynolds, un professore anticonformista che predicava una immersione totale nella cultura dalla quale le antiche scritture nascevano.

Uno dei suoi migliori studenti del Reed, il disegnatore di caratteri Charles Bigelow, riassunse la filosofia che permeava il corso: «Quando scrivi in ​​corsivo, stai facendo lo stesso tipo di movimenti che faceva la regina Elisabetta I quando, da adolescente, praticava chancery cursive; gli stessi moti di Poggio Bracciolini, cancelliere fiorentino del Quattrocento; gli stessi movimenti di Michelangelo. E se scrivi di mano carolingia, fai le stesse mosse dei notabili scribi che Carlo Magno radunò alla sua corte alla fine dell’VIII secolo: Alcuino di York, Pietro di Pisa, Teodolfo il Visigoto, Paolo Diacono e Dungal l’Irlandese».

Nelle sue lezioni Robert Palladino ricercava quella «Divina Proportione» che nel 1497 un altro frate, il toscano Luca Pacioli, conterraneo di Piero della Francesca, aveva definito in un trattato insieme all’amico Leonardo Da Vinci.

Ai giovani laureati di Stanford, il 12 giugno del 2005, Jobs spiegò quanto quei giorni con Palladino siano stati fondamentali per la sua vita futura: «Fu lì che imparai dei caratteri serif e sans serif, della differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, di che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era artistico, bello, storico e io ne fui assolutamente affascinato. Nessuna di queste cose però aveva alcuna speranza di trovare una applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo tutto per il Mac. È stato il primo computer dotato di una meravigliosa capacità tipografica. Se non avessi mai lasciato il college e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o font spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità».

Al Reed College, il giovane Jobs, seppure solo come semplice “oratore” non acquisì solo una abilità calligrafica ma una forma mentis. Fece della armonia delle forme, dell’attenzione grafica, della ricerca continua di equilibrio e semplicità la sua ossessione quotidiana. E la trasferì nelle sue creative innovazioni tecnologiche, anche nei minimi particolari. Come ad esempio quando scelse di usare nei suoi pc dei caratteri senza grazie, consapevole che sullo schermo, a causa della minore risoluzione rispetto alla stampa, i caratteri sans serif, chiari, netti e contrastati, sono molto più distinguibili dal cervello umano. Ancora oggi i dispositivi di Apple, usano un sans serif, l’Helvetica Neue, come carattere di visualizzazione del testo.

Il maestro calligrafo Robert Palladino insegnò al Reed College fino al 1983. Dopo una crisi religiosa lasciò la tonaca e sposò una clarinettista dell’orchestra sinfonica di Portland dalla quale ebbe un figlio. Quando la moglie morì, nel 1987, chiese di essere riammesso al sacerdozio e riprese ad insegnare in altre università dell’Oregon. Seguì però solo da lontano i successi planetari di quell’allievo affamato di conoscenza che lo bloccava nei corridoi per chiedergli lumi sui caratteri tipografici e i segreti degli scriptoria.

Steve Jobs presenta il computer Lisa, nel 1983

Intanto era già nato il Mac. Ma il monaco calligrafo confessò di non avere sviluppato nessuna passione per i computer. E di non averne mai comprato uno: «Ho solo le mie mani e uso quelle».

Il paradosso è che negli stessi anni Jobs, ormai guru per eccellenza dell’high-tech, dichiarava in una intervista il suo amore per la filosofia: «Baratterei tutta la mia tecnologia per una serata con Socrate».

In un’altra occasione pubblica, nel 1995, spiegò ai giornalisti: «Le cose di cui sono più orgoglioso in Apple è il punto in cui la tecnica e le scienze umanistiche si sono unite e hanno consentito alle persone di utilizzare le tecnologie senza dover comprendere i comandi arcani del computer».

Questa è forse la vera lezione che ci lascia Jobs. L’arte e la scienza possono e debbono convivere. E spesso, in un mondo nel quale dobbiamo misurarci di continuo con aggiornamenti tecnici, è proprio il matrimonio tra la tecnologia e le arti liberali a fare la differenza, la stessa promossa dalla Apple nella campagna pubblicitaria del 1997: «Think different» invitava a non temere il futuro e le sue innovazioni, ad uscire dai canoni conosciuti e a non aver paura nel percorrere strade nuove e inesplorate.

Quanto al destino individuale di ciascuno, Steve Jobs ripeteva ai figli, gli amici e i collaboratori la sua convinzione più intima: «L’unico modo per fare un ottimo lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare».

Federico Fioravanti

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