Sanremo, in realtà, è San Romolo

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Sanremo, la città dei fiori, è celebre anche per il festival della canzone italiana

La città dei fiori, del casinò, del ciclismo e del più celebre festival della canzone al mondo porta il nome del fratello sbagliato. Già, perché Sanremo, in realtà, è San Romolo.

Non c’entrano – badate bene – i due gemelli allattati dalla lupa che hanno fondato Roma, quanto piuttosto il patrono dal quale la città ligure ha preso il nome. San Remo, infatti, semplicemente non esiste: il suo vero nome era Romolo ed è stato vescovo di Genova dopo un altro santo passato alla storia per “meriti sportivi” più che religiosi: San Siro.

Nato nel IV secolo, Romolo è ricordato per essere stato un uomo molto buono e particolarmente portato a dirimere discordie.
Divenuto vescovo di Genova, era morto il 13 ottobre di un anno imprecisato (agli inizi del V secolo) durante un viaggio pastorale in Liguria, mentre si trovava nella città di Villa Matutiæ: la quarta più grande della regione.

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San Romolo, vescovo di Genova e patrono di Sanremo (13 ottobre) ritratto nella concattedrale di San Siro (edificio romanico del sec. XII, Sanremo)

La tradizione sanremese sostiene che il santo fosse originario proprio di Villa Matutiæ, dove era cresciuto ed era vissuto fino all’elezione a vescovo.
Per sfuggire alle invasioni longobarde, Romolo sarebbe tornato nella terra natale, rifugiandosi in una grotta nel monte Bignone, dove avrebbe vissuto in romitaggio e penitenza i suoi ultimi anni.
Il romitorio era divenuto in poco tempo un importantissimo punto di riferimento per la città: ogni volta che veniva attaccata dai nemici, ma anche in occasione di carestie e calamità, i matuziani si recavano in pellegrinaggio presso la grotta dove viveva il santo, chiedendo la protezione del Signore e ricevendo conforto.

Alla sua morte Romolo era stato sepolto nella città, ai piedi di un piccolo altare usato per le prime celebrazioni cristiane, e qui era stato venerato per molti anni.

Intorno al 930 il suo corpo fu riportato a Genova, per il timore delle numerose scorribande saracene, e venne sepolto nella Cattedrale di San Lorenzo.

Intanto a Villa Matutiæ la venerazione nei confronti del vescovo eremita cresceva sempre di più, tanto che nel 980 la cittadinanza decise di cambiare il nome del paese in Civitas Sancti Romuli. E’ stato poi il dialetto locale, a trasformare “San Romolo” in “San Rœmu”, per arrivare – intorno al Quattrocento – a San Remo.

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Scorcio della città medievale di Sanremo (foto: www.sanremonews.it)

Esiste, in realtà, anche un’altra teoria per giustificare la metamorfosi onomastica: la città non prenderebbe infatti il nome direttamente dal santo, quanto piuttosto dal “Santo eremo” in cui aveva vissuto ed era morto. Una teoria che, nonostante la fortuna goduta in passato, oggi è poco accreditata perché in nessun documento ufficiale si parla in realtà di “Santo Eremo”; peraltro, mentre la città è diventata San Remo il nome dell’eremo è rimasto proprio “San Romolo”, divenuto oggi una frazione “filologica” della città dei fiori.

D’altra parte, a venire in soccorso della teoria fonetica, ci sono al contrario numerosi documenti che – tra il Trecento e Seicento – vedono convivere la dizione “Civitas Sancti Romuli” e “Civitas Sancti Remuli”, a volte addirittura nello stesso documento (in un rogito del 1359 compare Civitas Sancti Romuli e poco dopo l’aggettivo Remoretus, mentre in un atto della Repubblica di Genova del 1681 troviamo sia Civitas Sancti Romuli sia Magnifica Comunità di San Remo).

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Il Trio Marchesini Solenghi Lopez al Festival di Sanremo del 1986

Dopo tutto, che quello della città ligure sia un nome ancora in evoluzione lo testimonia anche la grafia, mai chiarita definitivamente: se a partire dagli anni ’20 c’è stato il tentativo di formalizzare la dizione “San Remo” con precise disposizioni governative, oggi la forma ufficiale è diventata “Sanremo”.

Con buona pace del santo, che trent’anni fa – in uno sketch del Trio Marchesini Solenghi Lopez che fece scandalo – sul palco del teatro Ariston fu rappresentato con un remo al posto del bastone pastorale.

Arnaldo Casali