Quante risate alla messa di Pasqua.
Barzellette, battute oscene, satira, imitazioni, parodie e travestimenti hanno caratterizzato per secoli il momento più solenne e sacro della vita cristiana: la liturgia delle liturgie, quella che celebra la Resurrezione di Cristo di cui ogni domenica dell’anno fa memoria. E tutto questo accadeva per iniziativa dei preti e con l’autorizzazione ufficiale del Vaticano, nell’epoca più “buia” e seriosa – almeno stando ai luoghi comuni – della storia dell’umanità: il Medioevo. E non solo: perché il risus paschalis, ampiamente attestato in molte chiese cattoliche a partire dal XIII secolo, è durato per secoli, arrivando fino alle soglie del Novecento.
Il fenomeno è stato studiato approfonditamente dalla teologa e antropologa Maria Caterina Jacobelli, che ne ha fatto il punto di partenza per una riflessione sul fondamento teologico del piacere sessuale.
Lo studio della Jacobelli – pubblicato dalla Queriniana – prende le mosse da una testimonianza risalente alla Germania del 1518: si tratta di una lettera di tale Wolfgang Capito diretta a un certo Candido, a cui viene acclusa un’altra lettera di Giovanni Ecolampadio, diretta allo stesso Capito. Ecolampadio viene criticato perché contrario al risus paschalis, che invece Capito difende, adducendo come motivazione il fatto che “altrimenti i predicatori parlerebbero in templi vuoti. Il volgo, infatti, è talmente privo di giudizio, che ascolta soprattutto quel predicatore che eccita la gente con parole sconce o facendo il buffone sfacciato”.
Nelle sue linee essenziali si tratta di questo: la mattina di Pasqua, durante la messa della risurrezione, il predicatore suscitava il riso dei fedeli con ogni mezzo, ma soprattutto con gesti e parole in cui era predominante la componente oscena. Tra i vari sistemi che il predicatore adottava per far ridere l’assemblea, c’erano l’imitazione di animali e di personaggi grotteschi, ma anche quello di far entrare in chiesa laici vestiti da sacerdoti, racconti di barzellette, gesti irriverenti, parole senza senso o sconce, offese al pudore, mimo di atti sessuali, comportamenti onanistici.
Il risus paschalis, spiega la Jacobelli, era fortemente radicato nella cultura cristiana, tanto da essere difeso dai teologi e persino dai vescovi, e da essere utilizzato – dopo la Riforma – sia dai protestanti che dai cattolici, che lo usavano anche per schernirsi a vicenda.
L’uso di far ridere da parte del sacerdote durante la messa è attestato a partire dall’anno 852, quando Incmaro vescovo di Reims mette in guardia i propri sacerdoti proprio da comportamenti scurrili e troppo ilari in chiesa. Anche Dante nella Commedia testimonia questi usi già molto diffusi nella Firenze del Trecento, mentre la prima testimonianza del vero e proprio risus paschalis risale al 1209, quando il Concilio Avernionense stabilisce che nelle vigilie dei santi non si facciano nelle chiese balletti di saltimbanchi, gesti osceni, balli, né si recitino poesie d’amore o canzoni amorose.
La “mappa” del risus paschalis è quindi vastissima, sia a livello geografico che cronologico. Lo troviamo in Germania, Spagna, Sicilia, Firenze, Basilea, Reims, regioni danubiane, praticamente in tutta Europa, a partire dal basso Medioevo fino all’epoca contemporanea. L’ultima attestazione risale al 1917, in Puglia: anche le caratteristiche sono sempre le stesse: rappresentazioni comiche, l’uso di far vestire dei bambini da vescovo, l’apologia del mangiar bene, gesti connessi alla sensualità e al piacere nel luogo e nel momento sacro e da parte del sacerdote o del predicatore con lo scopo di divertire e intrattenere l’assemblea.
Con il passare dei secoli il risus paschalis perde i suoi caratteri più scurrili, restando però sempre tributario della sfera sessuale. Quanto sia radicato e accettato nella Chiesa è testimoniato dal fatto che alcuni di questi racconti scherzosi furono anche stampati in un manuale ad uso dei predicatori che ottenne persino l’imprimatur della Chiesa cattolica. Ci sono, ovviamente, anche teologi e sacerdoti contrari. Erasmo di Rotterdam definisce “la cosa più vergognosa che ci sia” il fatto che nelle feste di Pasqua “alcuni provochino al riso la gente, secondo il desiderio del popolo, con racconti palesemente inventati e il più delle volte osceni, tali che neppure in un convivio un uomo onesto potrebbe ripeterli senza vergognarsi”. Erasmo sottolinea anche che non è “in nessun modo il salmo pasquale a invitare a questo genere di allegria quando dice: “Hic est dies quem fecit dominus, exultemus et laetemur in eo”.
Se Erasmo sente il dovere di fare questa precisazione è perché, evidentemente, questa forma di umorismo era stata legittimata anche da un punto di vista teologico, anche se la motivazione più addotta era che fosse l’unico modo per trattenere la gente in chiesa senza annoiarla.
Nel giorno di Pasqua, infatti, non è considerato opportuno che il predicatore sia troppo serio. È interessante notare come una sorta di risus paschalis sia presente anche nella religione ebraica: nella tradizione rabbinica esistono infatti una serie di scherzi e giochi che il predicatore inserisce nel commento per divertire il pubblico, che altrimenti sarebbe annoiato. Questa parentela con la tradizione rabbinica confermerebbe il fatto che funzione del risus paschalis non sia quella di spiegare misteri, bensì di esilarare l’uditorio.
Secondo la Jacobelli, però, che non fa cenno alla tradizione rabbinica, non si può ridurre questo rituale ad una forma di “intrattenimento” dell’assemblea; non può essere un caso, d’altra parte, il fatto che questo riso sia legato alla gioia della risurrezione e rappresenti quindi anche una valvola di sfogo dopo il lungo e triste periodo quaresimale. Joseph Ratzinger la considera “una forma superficiale e primitiva di gioia cristiana”. “Ma non è forse splendido – spiega il futuro papa – e perfettamente in sintonia che il riso sia diventato simbolo liturgico?”.
Il risus paschalis rappresenterebbe allora un modo – degenerato – di esprimere la gioia per la vittoria di Cristo sul diavolo.
La Jacobelli sottolinea anche il legame del riso con il piacere sessuale, notando come sia collegato alla nascita e propiziatorio della morte. Il riso è simbolo di pienezza di vita, non a caso lo stesso nome di Isacco, il padre di Giacobbe-Israele, è connesso con il riso, e attraverso numerosi miti e fiabe di popoli diversissimi appare un’idea fondamentale: il riso è proprio dell’uomo, di colui che è vivente. Chi ride dimostra di essere vivo: non a caso in polacco esiste un modo di dire che suona come: “Perché ridi? sei vivo?” (“Dlaczego się śmiejesz, żywy jesteś?”).
Il riso stesso assume una valenza salvifica, e a questo proposito l’autrice ricorda una serie di leggende nelle culture più antiche. Il risus paschalis rappresenterebbe quindi il trionfo della vita sulla morte, anche se espresso con forme degenerate, proprio a causa della secolare condanna del cristianesimo nei confronti della sessualità, della corporeità e, appunto, del riso.
Arnaldo Casali