La medicina medievale

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Nel 1913 William Osler, autore del libro The Evolution of Modern Medicine, chiude il capitolo dedicato alla medicina medievale con queste parole:

La medicina del Medioevo rappresenta la riaffermazione di secolo in secolo dei fatti e delle teorie dei Greci, modificati qua e là dalla pratica araba. Per dirla con Francis Bacon, molta iterazione e poche aggiunte. Le scuole si sono piegate in umile e servile sottomissione a Galeno e Ippocrate, traendo ogni cosa da essi, eccetto lo spirito.

Questa visione molto negativa della medicina medievale è stata a lungo condivisa nei decenni successivi e anche oggi non è raro riscontrarla nella cultura popolare. Questo perché, non ostante il Medioevo sia stato ormai rivalutato in molte delle sue forme espressive, limitata è stata l’attenzione rivolta alla medicina, né sono comparsi testi a essa dedicati, basati sulle più moderne acquisizioni.

Monaci e monache si prendono cura dei pazienti all’Hôtel Dieu, Parigi, XV secolo

Quando si cerca di tracciare la storia della medicina in un determinato periodo, si può fare riferimento ai risultati pratici ottenuti o alle idee che sono state sviluppate. La medicina però, quale arte e scienza nel contempo, è un aspetto della cultura generale e il miglior modo per presentare quella medievale è evidenziarne la collocazione nell’ambito della storia della civiltà. Si potrà così constatare che non è solo una mera riedizione della medicina greca o l’emersione tardiva di quella ellenistica, ma una nuova forma di espressione tra le tante che hanno avuto luogo in una civiltà viva e cangiante come quella medievale.

Per amore di semplicità, si può dire che la medicina medievale ha avuto due centri di sviluppo: l’Impero musulmano e il mondo cristiano.

Nelle Mille e una notte si racconta che un giorno la giovane schiava Tawaddud (“Amorevolezza”) fu portata al cospetto di Harun al-Rashid per essere venduta e così rispose al califfo che le aveva domandato quali scienze conoscesse meglio: “Signore, conosco la grammatica, la poesia, il diritto, l’interpretazione del Corano, la filologia; conosco l’arte musicale, la dottrina religiosa, l’aritmetica, geometria, geodesia, le leggende degli antichi. […]. Mi sono occupata di scienze esatte, filosofia, medicina, logica, retorica, composizione […]”.

Il califfo, meravigliato che una donna così giovane affermasse di essere competente in ogni parte dello scibile, convocò esperti nei vari settori per esaminarla. Quando un eminente medico le chiese di parlare dell’uomo e della sua struttura, la ragazza rispose che Iddio “creò Adamo composto dei quattro elementi, i quali sono acqua, terra, fuoco e aria. La bile gialla ebbe la natura del fuoco, essendo calda-secca; la bile nera ebbe la natura della terra, essendo fredda-secca; la pituita ebbe la natura dell’acqua, essendo fredda-umida, e il sangue la natura dell’aria, essendo caldo-umido”.

Il racconto, mentre dimostra attraverso la cultura di una giovane schiava quanto elevato fosse il grado di istruzione raggiunto dagli Arabi, ci informa che la conoscenza medica traeva le basi dalla tradizione greca. Come questa, a sua volta, sia arrivata nel lontano Oriente diventando la radice che ha nutrito la medicina islamica, si può riassumere in un mito e un sogno.

Nel 431 d. C. il Concilio di Efeso aveva condannato la dottrina del patriarca di Costantinopoli Nestorio, secondo cui la natura umana e la natura divina di Cristo sono separate (difisismo). Nestorio e i suoi seguaci si ritirarono a Edessa, dove fondarono una Scuola. Mezzo secolo dopo l’imperatore Zenone la chiuse e disperse i Nestoriani, che trovarono asilo in Persia. Essi portavano con sé i testi della tradizione medica ellenistica e crearono un centro intellettuale a Gondeshapur, dove le scienze mediche fiorirono attorno a un ospedale e un’accademia. L’evento, per la mancanza di sicure evidenze, è oggi definito “il mito di Gondeshapur”.

Il sogno, secondo la leggenda, fu quello di al-Ma’mun (813-833), figlio di Harun al-Rashid, l’illuminato califfo contemporaneo di Carlo Magno, che aveva creato a Baghdad un clima culturale che consentiva a una società multietnica di esprimersi liberamente. Mentre dormiva gli era apparso Aristotele incitandolo a promuovere la conoscenza scientifica.

Rappresentazione europea di Rhazes, secolo XIII

Così, durante il suo regno, favorì il movimento di traduzione in arabo di testi scientifici antichi, al quale molto deve anche la scienza del mondo occidentale. Nella seconda metà del secolo VIII e durante il IX secolo furono tradotte le opere di Galeno e dei suoi successori, gli scritti ippocratici e il De materia medica di Dioscoride: la fonte dello scibile medico dominante sia in Oriente che in Occidente. Maestro nel settore, con più di novanta discepoli, fu Hunayn ibn Ishaq, che si aggirava per le vie di Baghdad recitando ad alta voce Omero in greco.

Numerosi medici arabi arricchirono le conoscenze mediche sia in campo clinico che terapeutico. Tra questi Rhazes, forse il più grande clinico musulmano. Molto noto in Occidente, è ammirato non tanto per il Liber continens, un compendio di medicina a lungo usato come testo di riferimento, quanto per i casi clinici personali accuratamente descritti e per alcuni brevi trattati in cui ha identificato nuove malattie. Famoso è il Trattato del vaiolo e del morbillo, in cui le due malattie sono per la prima volta descritte come processi infettivi distinti, indicando gli elementi che consentono di fare una diagnosi differenziale.

Avicenna rappresenta la realizzazione nel mondo islamico dell’ideale galenico del filosofo-medico. È stato il primo a creare una sintesi completa della filosofia in arabo e a codificare tutte le conoscenze mediche attraverso un rigoroso percorso logico in cui anatomia, fisiologia, clinica, diagnosi e terapia sono riportate con esemplare accuratezza. Il suo Canone, arricchito dall’esperienza personale e da quella di secoli di medicina islamica, costituisce un sistema non più greco, ma espressione del pensiero medico e filosofico musulmano. D’altronde, era così bene strutturato ed esposto che ha dominato in medicina per sei secoli sia in Oriente che in Occidente.

In un’altra sfera della cultura medievale troviamo il medico-filosofo ebreo Maimonide (1135-1204), il grande rabbino noto anche come Rabbi Moses. Gli Aforismi di Mosè sono una raccolta di 1500 massime mediche tratte in gran parte dalle opere di Galeno, ma anche da altri grandi predecessori. Il libro però non è una semplice esposizione delle dottrine galeniche, poiché le scelte operate e i commenti sono espressione della sua autonomia di pensiero. Anzi, nell’ultimo capitolo, contesta le tesi galeniche giudicandole contraddittorie e filosoficamente infondate, e critica in primo luogo il rifiuto della cosmologia biblica a favore di quella aristotelica.

A contestare Galeno fu anche Ibn al-Nafis al-Qurashi (1213-1288). Nel Commentario all’anatomia del Canone, rigetta la concezione galenica del passaggio del sangue dal ventricolo destro del cuore direttamente in quello sinistro attraverso pori invisibili presenti nella parete divisoria, e descrive correttamente per la prima volta il piccolo circolo polmonare (1245) ben tre secoli prima di Michele Serveto (1553) e Realdo Colombo (1559). Se si legge la sua descrizione del tragitto percorso dal sangue per giungere dal ventricolo destro a quello sinistro, ancora oggi si resta ammirati:

Dalla camera destra del cuore, il sangue deve arrivare a quella sinistra, ma tra le due non esiste un passaggio diretto. Il setto spesso che le divide non è forato, non ci sono pori visibili, come pensavano alcuni, né pori invisibili, come pensava Galeno. Il sangue fluisce dalla camera destra attraverso la vena arteriosa (l’arteria polmonare) verso i polmoni, si diffonde nella loro sostanza, mescolandosi con l’aria, imbocca l’arteria venosa (la vena polmonare) e raggiunge la camera sinistra del cuore.

Innovazioni non si riscontrano solo in campo medico. Albucasis (c. 936-1013), il più grande chirurgo dell’Islam, è l’autore del primo trattato di chirurgia illustrata, con molte figure di strumenti medici da lui stesso inventati e disegnati. Era fautore dell’uso della cauterizzazione in numerose forme morbose, comprese le neoplasie superficiali di piccole dimensioni, per le quali correttamente applicava il cauterio perifericamente e non al centro della neoformazione per evitare che si ulcerasse. È stato anche l’inventore della siringa che così descrive:

Quando nella vescica si produce un’ulcera, un coagulo di sangue o un deposito di pus, e volete inocularvi una lozione o una medicina, potete farlo servendovi di uno strumento che si chiama siringa. É fatto di argento o di avorio, cavo, e termina con un tubo lungo e sottile, sottile come uno specillo; interamente cavo eccetto la parte finale, che è solida e contiene tre fori: due da un lato e uno dall’altro. La parte cava, dove scorre lo stantuffo, ha le dimensioni corrette perché quest’ultimo possa otturarla perfettamente, in modo che qualsiasi liquido, venendo aspirato, resti all’interno per essere espulso con un getto quando spingete lo stantuffo verso il basso.

Albucasis ha avuto il merito di rinnovare la chirurgia sistematizzandola in modo da farla uscire dall’empirismo e con la sua Chirurgia raggiunse un’autorità tale da essere citato dai medici e dai chirurghi europei più spesso dello stesso Galeno.

Albucasis cauterizza un paziente all’ospedale di Cordova mentre gli studenti osservano

Un aspetto innovativo della medicina islamica fu il contributo dato allo sviluppo della farmacologia. L’opera dioscoridea era molto nota nel mondo allora conosciuto, tuttavia la vasta estensione delle aree geografiche dominate dall’Islam, caratterizzate da condizioni climatiche diverse e quindi da flora e fauna differenti, fece sì che i medici islamici venissero a conoscenza di numerose nuove sostanze farmacologiche in essa non riportate. Farmaci nuovi provenivano anche dai paesi remoti con i quali gli Arabi venivano a contatto per motivi commerciali: Cina, Asia sud-orientale, Himalaya, India meridionale e Africa. C’era anche la necessità di riportare farmaci sostitutivi, poiché sostanze presenti in una determinata area geografica (per es. in India) erano difficilmente reperibili in altre aree (per es. in Nord Africa), oltre al fatto che talora era richiesto l’uso di ingredienti meno costosi.

In base alla teoria, un farmaco poteva essere sostituito da un altro se possedeva lo stesso temperamento e grado del primo. Nel passato, già Paolo di Egina aveva fornito elenchi di sostanze medicinali interscambiabili, ma il ricorso a questo genere di farmaci aumentò considerevolmente nella medicina islamica.

Secondo i bibliografi medievali sono oltre cento gli Autori di opere scritte in arabo riguardanti la materia medica e, inoltre, tutti i più noti trattati di medicina riservano una sezione alla trattazione dei medicamenti semplici.

Bezoar in una montatura di oro filigranato

Nel secolo IX spiccano le figure di Mesuè il Vecchio, noto anche come Giovanni Damasceno, e di Serapione il Vecchio, medico cristiano di origine siriana. Quest’ultimo riporta diverse innovazioni tra cui la prima descrizione del crotontiglio e del “seme santo”. Del primo, nel XII secolo, fu usato l’olio come purgante. Il seme santo (capolini floreali della Schea o Santonica) era ritenuto più efficace dell’assenzio comune contro i vermi intestinali e fu successivamente importato in Europa, dove divenne noto col nome Wormecrut o Wormedrude, per essere usato fino agli inizi del secolo XX come antielmintico, soprattutto contro l’Ascaris lumbricoides.

Anche Rhazes apportò un notevole contributo allo sviluppo della farmacologia e al ruolo dell’alchimia in medicina. Introdusse l’uso della canfora (qafur) cui attribuiva proprietà anti-afrodisiache perché considerata un farmaco “freddissimo”. Per tale motivo, nella Scuola salernitana, i frati usavano portarne un sacchetto appeso alla cintola per essere aiutati a mantenersi casti.
Descrisse anche le proprietà del bezoar (dall’arabo bezahar = antidoto) e della mumia. Il primo era formato da concrezioni trovate negli organi di animali, in genere ruminanti, ed era molto apprezzato come antiveleno. Si racconta che il califfo di Cordova, salvatosi da un grave avvelenamento per opera di tale pietra, regalò il suo palazzo a chi gliela aveva fornita. Per contro Napoleone, che aveva ricevuto in dono dallo scià di Persia tre preziosi bezoar orientali, quando seppe dal chimico Claude-Louis Berthollet che erano solo calcoli di animali, li gettò nel fuoco.

La mumia era un composto a base di bitume, originario dalla Persia, usato nel trattamento di ferite, contusioni, tosse, asma e altre condizioni morbose. Poiché era simile alla materia usata dagli Egizi per l’imbalsamazione dei cadaveri attirò l’attenzione sulle mummie per usarle a scopo terapeutico. Quando fu introdotta in Europa, la richiesta di mumia andò sempre più aumentando al punto che nel XVI secolo era fiorente l’acquisto di corpi imbalsamati per ridurli in polvere da vendere nei mercati occidentali.
Alcuni medicamenti hanno rappresentato una vera e propria innovazione: il “fuoco greco”, una specie di nafta ricavata dal mare; il crocus ferri, ottenuto dal ferro incandescente immerso nell’acqua; la ferropirite e il vetriolo; l’arsenico per via interna e il mercurio introdotti da Avicenna; l’elettuario di Mesuè a base di gemme e succo di rose; le perle per curare il cuore, la vista, il sangue, la melanconia e come dentifricio; il colchico autunnale, già descritto da Dioscoride, contro la gotta (da esso fu poi ricavata la colchicina usata nella terapia dei tumori).

Ci sono ancora altri medicamenti curiosi largamente usati: le cimici contro la febbre, l’oro e l’argento per depurare il sangue, il sangue di drago, le rondini per acuire la vista, i cervelli degli uccelli per la terapia dell’impotenza, lo sterco di fanciullo per curare gli apostemi della bocca.

Rhazes è anche autore di molte opere sull’alchimia, in cui descrive numerosi procedimenti alchemici (distillazione, evaporazione, sublimazione, cristallizzazione, filtrazione, ecc.) che gli hanno consentito l’isolamento e l’uso dell’alcol come antisettico, oltre all’introduzione in terapia del mercurio, sia come unguento che come purgante, quest’ultimo noto nel Medioevo come album Rhasis. Con lui il sapere alchemico si spoglia dei suoi aspetti misterici in favore di una chimica sperimentale in grado di influenzare significativamente lo sviluppo della farmacologia. In passato, ad Alessandria la tradizione di chimica pratica aveva avuto modo di unirsi agli aspetti mistici del pensiero greco – rinvenibili in Pitagora e Platone – per dare origine all’alchimia, che aveva trovato la sua più alta espressione nelle opere del saggio egizio Bolo di Mende.

Nel mondo arabo, le origini dell’alchimia possono essere ricondotte all’inizio dell’VIII secolo, poiché è quella l’epoca in cui gli Arabi accolsero miti egizi e greci, così come le immagini fantastiche degli alessandrini e le tradizioni iraniche, insieme alle filosofie e alle tecniche sperimentali. Tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX secolo, è vissuto il grande maestro dell’alchimia araba Geber, i cui scritti si riferiscono a una vastissima gamma di argomenti, poiché i suoi interessi non erano limitati all’alchimia, ma spaziavano tra farmacologia, cosmologia, filosofia, logica, numerologia, religione e musica. La Raccolta giabiriana o Corpus jabirianum contiene quasi 3000 opere che, come il Corpus Hippocraticum, sono state verosimilmente scritte da più autori.

Poiché si pensava che i metalli fossero fondamentalmente costituiti dagli stessi componenti in proporzioni diverse e in diversi stati di purezza, si riteneva possibile la trasmutazione di un metallo in un altro mediante manipolazioni alchemiche che ripristinassero l’equilibrio appropriato. L’obiettivo della trasmutazione era, in analogia con la medicina, la “guarigione” della viltà dei metalli mediante un “antidoto medico”, detto elisir (al-iksir), una sostanza in grado di indurre una trasformazione chimica in virtù della sua sola presenza (oggi diremmo un catalizzatore), di guarire le malattie e prolungare la vita.

Con il tempo è diventato la pietra filosofale (in arabo al-Kimiya, in latino lapis philosophorum), suprema medicina dell’uomo (elisir vitae dei latini). Non si sa con precisione in quale epoca si sia cominciato a pensare che per la produzione di oro fosse necessaria questa pietra, ma probabilmente ciò risale ai primi tempi del Cristianesimo ad Alessandria. Di certo, tale necessità era ben nota nel XIII secolo ad Arnaldo da Villanova, catalano e poliglotta, il quale credeva che l’alchimia potesse trasformare i metalli vili in nobili e che l’oro fosse il rimedio più potente a disposizione dei medici.

Del catalano Raimondo Lullo, sopranominato Doctor illuminatus, si diceva che avesse prodotto oro filosofale perfino per il re d’Inghilterra. Tra gli scritti a lui attribuiti, interessante è Clavicula (Piccola chiave) in cui cerca di spiegare i segreti più profondi dell’alchimia.

Nel mondo occidentale, tuttavia, la terapia farmacologica ha continuato ad avere come riferimento il testo di Dioscoride che, con successivi cambiamenti e adattamenti, è rimasto la bibbia della botanica medica fino almeno al XVII secolo. Una modalità di presentazione dell’opera, cui ha arriso grande successo, fu l’erbario illustrato che ha trovato la sua massima espressione nel codice di Anicia Giuliana. È da considerare però che molti erbari, per il modo in cui il codex veniva presentato e per la bellezza delle illustrazioni botaniche, più che un testo di consultazione per medici e farmacisti, divennero un oggetto di lusso da dedicare a personaggi importanti o finalizzato a far parte di ricche collezioni di bibliofili.

Non mancarono però erbari con finalità più propriamente mediche. Così, l’erbario di Pseudo-Apuleio è stato il manuale di erbe medicinali più diffuso nel Medioevo finché non è stato sostituito da un altro scritto in versi da Macro Florido, il De viribus herbarum. Molti versi del suo poema si ritrovano nel Regimen sanitatis salernitanum: il che indica che l’opera era accessibile ai medici della Scuola medica di Salerno. In campo farmacologico, le opere più importanti della Scuola salernitana sono l’Antidotarium Nicolai, il De simplici medicina e le Pandette.

Gli antidotari sono opere con finalità pratiche, più che speculative o metodologiche e a differenza degli erbari – in cui la trattazione parte dai semplici che entrano nelle prescrizioni – iniziano dalle malattie e presentano le ricette in genere nell’ordine a capite ad calcem secondo il tradizionale sistema della medicina antica. Nell’Antidotarium, attribuito a Nicolò Salernitano, si nota l’influenza araba. Tutti i composti sono resi gradevoli con dolcificanti, poiché nelle ricette arabe raramente manca lo zucchero o il miele. Alcuni ritengono che l’Antidotario, essendo uno dei primi testi di tecnica farmaceutica, stia alla base di tutte le farmacopee occidentali.

Le Pandette, opera di Matteo Silvatico, sono dedicate espressamente a medici e farmacisti e presentano anche un approccio di tipo magico, soprattutto nella trattazione dei minerali (lapides), considerati capaci di resistere ai demoni e ai malefici, difendere la verginità, favorire il parto o indurre tristezza.

Il De simplici medicina di Matteo Plateario descrive in ordine semi-alfabetico i semplici, i singoli costituenti che entravano a far parte dei rimedi e, unitamente ai trattati di Dioscoride e Plinio, fu largamente usato per secoli da medici, farmacisti ed erboristi in tutta Europa, come dimostrano le numerose edizioni manoscritte e a stampa in diverse lingue europee.

L’influenza araba si nota anche in un altro genere di opere, denominate Tacuina sanitatis. Il testo originale del Tacuinum sanitatis fu, infatti, scritto in arabo verso la metà del secolo XI, con il titolo Takwim as-sihha (Tavole della salute), da un medico cristiano nato a Baghdad, Abu-l-Hasan al Mujtar ibn Butlan.

Sono prontuari di dietetica e precetti per la salute illustrati, oltre che da raffigurazioni di piante, da numerosi quadretti di vita quotidiana, che incontrarono grande favore nelle Corti dell’Italia settentrionale intorno al 1400. Essi, infatti, col tempo hanno abbandonato alcune caratteristiche tipicamente orientali, per adattarsi alle abitudini, all’ambiente e alla cultura dei Paesi degli aristocratici committenti cui erano destinati. La grande maggioranza della società medievale era, però, costituita da poveri abituati a convivere con le malattie, chiamate da San Francesco “nostre sorelle”, che non potevano permettersi farmaci costosi o ricorrere all’opera dei medici.

La prima pagina del Thesaurus pauperum in una edizione del 1500 ca.

Così, Pietro Ispano, salito al soglio pontificio con il nome Giovanni XXI nel 1276, scrisse il Thesaurus pauperum (Tesoro dei poveri), uno dei più importanti manuali di medicina del Medioevo, tradotto in numerose lingue. Non è un’opera specialistica ma un prontuario, facile da consultare, che raccoglie alcune centinaia di ricette ricavate dai più noti trattati medici disponibili.

In un’epoca in cui ciarlatani e incantatrici, formule magiche, amuleti e ricette delle comari erano pressoché i soli rimedi che i poveri potevano permettersi, il Tesoro è stato uno strumento utile per affrontare i problemi quotidiani del corpo di ogni uomo e di ogni donna, soprattutto il controllo del dolore e la guarigione delle infermità, indicati come il più grande tesoro che ogni persona possa desiderare.

Molti medicamenti e rimedi ci appaiono oggi piuttosto singolari: il sangue di animali vari, l’urina, il latte di donna per le malattie degli occhi, lo sterco umano per la cura dell’ulcera, il grasso di maiale o di capra spalmato sul pene per stimolare il desiderio sessuale, il seme della lattuga secca per sedare il desiderio, il succo di cicuta posto sulle mammelle per mantenerle piccole, dure e sode. La validità di un rimedio doveva comunque derivare dal “principio della sperimentazione”, commisto alla caritas medievale, operata mediante la figura di Cristo, alla quale Ispano esplicitamente fa riferimento nel prologo: “per la gratia di Iesu Christo sommo medico lo quale secondo che vuole sana tutte le nostre infermità”.

Nel Medioevo numerosi furono i punti di incontro tra medicina e religione. L’assistenza ai poveri e la cura degli infermi erano una finalità molto importante da perseguire per il Cristianesimo, per cui la pratica medica fu dominata dalla Chiesa. La Regola benedettina contemplava, come dovere fondamentale del monaco, la cura dei malati (Infirmarum cura ante omnia et super omnia adhibenda est) e stabiliva che ogni Abbazia dovesse disporre di un’infermeria (infirmarium) per poterla espletare in maniera diligente e con carità cristiana. Cominciarono così a sorgere, in Occidente, ostelli e ospizi gratuiti per poveri e viandanti, detti anche xenodochi (in greco xenodocheion indica il luogo per accogliere gli stranieri), che trovarono larga diffusione soprattutto nel IV secolo dopo il riconoscimento del Cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero. A partire dal VI secolo, gli xenodochi furono sempre più finalizzati all’accoglienza dei malati, divenendo in tal modo ospedali.

Con l’affermarsi delle Scuole di medicina e delle Università nei secoli XII e XIII, la medicina monastica andò incontro al declino, ma a prevalere ancora non erano i medici istruiti. Essi, infatti, costituivano una piccola parte di coloro che offrivano i loro servizi ed erano in genere disponibili solo per le classi più elevate della società.

Le masse popolari continuavano a fare riferimento alla medicina empirica, esercitata in campo medico e anche in campo chirurgico da praticoni che possedevano solo la manualità e facevano un corso di apprendistato presso i barbieri-chirurghi. C’erano erboristi, venditori ambulanti di rimedi popolari, ostetriche, cavadenti, preti che dispensavano cure religiose e barbieri (barbitonsores) che, esperti nell’uso del rasoio – e perciò detti anche rasores – praticavano i salassi prescritti dai medici, medicavano le ferite ed esercitavano in proprio la piccola chirurgia. Ai praticanti empirici fa anche riferimento Boccaccio quando descrive la peste del 1348, definendoli “medicanti”.

In gran conto era tenuta l’applicazione della matematica alla medicina, come avveniva nella medicina astrologica. La Scuola medica salernitana, nel Regimen sanitatis, fu la prima a sostenere il rapporto tra le parti del corpo umano e i segni zodiacali e, poiché questi erano dodici, furono individuate dodici corrispondenze nel corpo. Nasceva così l’uomo zodiacale, l’illustrazione medica più frequentemente riportata nei manoscritti medievali. La stessa Scuola fu anche la prima a riprendere lo studio dell’anatomia, adeguandosi alla concezione galenica e facendo, quindi, riferimento alla dissezione degli animali.

La prima evidenza di dissezione umana a scopo scientifico viene fatta risalire al 1286, quando un medico praticò diverse autopsie per studiare la natura di un’epidemia che aveva causato molte morti in città italiane.

Tuttavia, fu Mondino de’ Liuzzi a intuire che l’istruzione medica non poteva prescindere dallo studio diretto del corpo umano e a effettuare a Bologna, nel 1315, la prima dissezione anatomica a scopo didattico. Sebbene la Bolla di Bonifacio VIII del 1299 riguardasse indirettamente la dissezione dei cadaveri, ponendo alcune limitazioni, la pratica delle autopsie si diffuse in Europa nel secolo XIV e ancor più dopo il 1482, quando papa Sisto IV autorizzò esplicitamente la dissezione dei cadaveri nell’Università di Tubinga, ritenendola “utile alla pratica medica e artistica”.

In campo oncologico, le teorie sul cancro nel corso del Medioevo non si sono discostate dalla concezione galenica allora imperante. La sua origine veniva fatta risalire alla putrefazione degli umori (humorum putrefactio), come sosteneva Ruggero, e in particolare alla fermentazione o putrefazione della bile nera che, come già riportato da Paolo di Egina, condensandosi determinava l’ulcerazione.

Hildegarda di Bingen, Liber Divinorum Operum, Biblioteca governativa di Lucca, Codex Latinus 1942-fol-1v

Alcuni, tuttavia, erano di opinione diversa sostenendo talora ipotesi patogenetiche piuttosto peregrine. Ildegarda di Bingen, per esempio, affermava che il cancro era prodotto dal secco e dal tiepido che, apparendo come livore umido e spumoso, vanno oltre il loro stato. Generalmente, in accordo con Henri de Mondeville, un approccio chirurgico era ritenuto giustificato nel caso di tumori di dimensioni piccole che potevano essere asportati con successi occasionali. Per quelli di dimensioni maggiori o interni con diffusione a organi principali, era sconsigliata l’asportazione. La terapia non chirurgica si basava, seguendo i dettami della teoria umorale, su dieta, purganti, salassi per eliminare l’umore melancolico, e applicazioni locali di unguenti a base di arsenico, zinco, piombo e altre sostanze. Era comunque opinione quasi universalmente condivisa quella della inguaribilità del cancro, già sostenuta dagli autori iniziali, come Oribasio, Ezio di Amida, Garioponto e Petroncello.

A somiglianza della medicina islamica che aveva assorbito la tradizione greca modificandola, anche la medicina occidentale ha sviluppato le sue origini greche con importanti osservazioni. L’età aurea della medicina araba è stata però breve. A partire dal 1100 essa è andata incontro a un costante declino, rivolta al passato e confinata nella tradizione classica, senza più stimoli innovativi e prospettive future.

Diversamente sono invece andate le cose in Occidente. Se la necessità di integrarsi in una realtà nuova, determinata dalla diffusione del Cristianesimo, ha comportato un notevole cambiamento nella pratica medica, con ricorso a modalità curative non in linea con la tradizione classica, e il declino dell’insegnamento dell’arte della medicina, non è senza significato che i primi secoli dell’epoca medievale siano stati utilizzati per completare la sistematizzazione della medicina secondo la dottrina galenica, e per copiare e tradurre i testi più importanti, sottraendoli all’oblio o alla distruzione.

Nel corso dei secoli successivi, da una parte l’influenza della Chiesa è andata scemando e dall’altra nel XV secolo, insieme a un progressivo rigetto delle “autorità”, il riferimento alla teoria scolastica è stato sostituito da una maggiore attenzione alla pratica. La medicina pratica rinasce a spese di quella teorica con la pubblicazione di molti testi di practica e di raccolte di casi clinici a opera di professori italiani, tra cui i Consilia di Bartolomeo da Montagnana.

A Padova e in altre città italiane, gli studenti di medicina accorrono in gran numero perché l’insegnamento avviene al letto del malato ed esiste un regolare programma di autopsie. Le istituzioni gradualmente sostituiscono l’informalità con precise regolamentazioni. La Chiesa continua ad avere i suoi metodi per alleviare la sofferenza, ma ormai ha un ruolo secondario: spetta ai medici guarire gli ammalati. Ai molteplici e disparati approcci iniziali, si sostituiscono interventi più mirati e si provvede a una migliore identificazione delle figure professionali, separando il barbiere dal chirurgo e il medico dal ciarlatano.

Così, prima del 1500, la medicina riesce a conquistare quel ruolo, mancante o perduto, che accompagna l’essere umano dalla nascita alla morte e anche oltre, se ha avuto la “sfortuna” di dover essere sottoposto a dissezione.

Pertanto, pur nella tradizione dell’Antichità classica, la rinascita della medicina occidentale ha le sue radici nei cambiamenti istituzionali apportati nel Medioevo.

Massimo Lopez

Medicina e Oncologia
storia illustrata
La medicina medievale

Massimo Lopez
Gangemi Editore

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