La fine di Savonarola

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Girolamo Savonarola (Fra Bartolomeo, 1498, olio su tavola, Museo nazionale di San Marco, Firenze)

Girolamo Savonarola (Fra Bartolomeo, 1498, olio su tavola, Museo nazionale di San Marco, Firenze)

Brucia l’eretico. Brucia il tiranno. Brucia il ribelle. Brucia il padrone. Brucia l’oppressore. Brucia il santo.

Brucia l’odio negli occhi della folla, mentre brucia il corpo di Girolamo Savonarola: il rivoluzionario, il moralizzatore, il profeta dei piagnoni.

Brucia la sconfitta, mentre le fiamme divorano la carne magra e pallida e la veste candida come la coscienza.

È il 23 maggio 1498 e Girolamo ha già visto quelle facce, quell’espressione: è stato in quella stessa piazza, appena un anno prima, attorno a un altro falò, per un altro delirio di passione, violenza e catarsi.

Sono le stesse facce che avevano raccolto il suo appello a liberarsi da specchi, cosmetici, vestiti di lusso, arpe,cetre, chitarre, cornamuse, flauti, e anche gli altri oggetti del peccato come dadi, profumi, parrucche, carte da gioco, libri immorali, manoscritti con canzoni profane, opere d’arte pagane o lascive.

Il grande falò delle vanità, il 7 febbraio 1497, aveva segnato il culmine del suo potere: Girolamo era diventato il padrone assoluto di Firenze e il moralizzatore della Chiesa Cattolica.

In città dettava lui le leggi al governo democratico della Repubblica e con i Medici erano state cacciate da Firenze le taverne e le prostitute. La patria del vizio era diventata una terra santa dove si sperimentava una nuova forma di democrazia, morale e popolare; dove non erano più le regole del tiranno a dettare legge ma quelle di Dio. O per meglio dire, del suo portavoce in tonaca bianca e mantella nera.

Una nuova democrazia, libera della corruzione dei potenti ma assoggettata a un padre padrone che non inseguiva i propri interessi personali, ma decideva per il bene della comunità e operava secondo giustizia. Il problema era che lui e solo lui decideva cosa è bene e cosa è giusto. E in città non erano tutti suoi ammiratori; anzi, più passava il tempo e più Girolamo si faceva nemici. Nel consiglio della Repubblica i Bianchi (repubblicani) e i Bigi (sostenitori dei Medici) si erano alleati con gli Arrabbiati, nemici giurati del frate, e avevano messo in minoranza il suo partito, detto dei “Piagnoni”, bocciando le proposte di legge per proibire le vesti scollate e le acconciature troppo elaborate.

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Papa Alessandro VI (1431-1503), nato Roderic Llançol de Borja (Rodrigo Borgia), una delle figure più controverse del suo periodo storico

Ma anche in Vaticano le cose non andavano meglio: Savonarola si era ribellato sempre più apertamente a papa Alessandro VI, che aveva provato prima a trasferirlo, poi a convocarlo a Roma per interrogarlo, ricevendo sempre forfait con giustificazioni poco credibili. In seguito aveva tentato persino di sospenderlo dagli incarichi, di vietargli di predicare e di colpirlo con altri provvedimenti disciplinari; ma tutti i provvedimenti il papa era stato costretto a revocarli a causa delle pressioni ricevute dai fiorentini.

In compenso il frate padrone di Firenze non mancava di attaccarlo, denunciando pubblicamente i suoi peccati e accusandolo apertamente di “condurre le donne alla lussuria e a pompa e a superbia”, di aver guastato il mondo e corrotto gli uomini, e persino di pedofilia: secondo Girolamo, infatti papa Borgia aveva “condotto fanciulli alle sodomie” facendoli diventare “come meretrici”.

Eppure il pontefice con la peggiore reputazione della storia della Chiesa non poteva fare a meno di nutrire ammirazione nei confronti di quel santo frate che sembrava l’unico a crederci veramente, a quello che tutta la Chiesa predicava da secoli. Alessandro VI non voleva la sua testa: voleva solo evitare che gli creasse troppi guai. Ma erano proprio i guai, quelli che il domenicano cercava con ostinata determinazione.

Così aveva tentato per l’ultima volta di rabbonirlo, nominandolo cardinale. Nomina che Savonarola aveva rifiutato sprezzante, rispondendo di non voler “cappelli, né mitre né grandi né piccole” ma solo il cappello rosso dei santi: quello fatto di sangue.

Non c’era altro da fare, dunque, che accontentarlo.

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L’influenza delle dottrine savonaroliane traspare nello scontro tra angeli e demoni che avviene sui cieli di Firenze nella Crocifissione simbolica di Sandro Botticelli (1502 ca., Fogg Art Museum dell’Università di Harvard a Cambridge)

Inevitabile, il 12 maggio 1497 era arrivata la scomunica, alla quale Girolamo aveva risposto con il solito feroce sarcasmo: nel corso della prima predica pronunciata dopo la notizia della condanna, aveva messo in scena una sorta di sketch in cui un immaginario interlocutore lo rimproverava di predicare nonostante fosse scomunicato: “La hai tu letta questa escommunica? – rispondeva lui – Chi l’ha mandata? Ma poniamo che per caso che così fussi, non ti ricordi tu che io ti dissi che ancora che la venisse, non varrebbe nulla? Non vi maravigliate delle persecuzioni nostre, non vi smarrite voi buoni, ché questo è il fine dei profeti: questo è il fine e il guadagno nostro in questo mondo”.

Peccato che in realtà, quella scomunica, non fosse altro che un “fake”, come lo chiameremmo oggi; ovvero una bufala, un falso: a prepararla era stato l’arcivescovo di Perugia Juan López che – su istigazione di Cesare Borgia – aveva assoldato un falsario con l’obiettivo di distruggere il frate.

Il bello è che anziché indignarsi per la reazione di Savonarola, papa Borgia si era infuriato con il cardinale Lopez. Venuto a sapere che dietro l’operazione c’era suo figlio Cesare, però, non aveva avuto il coraggio di smentire pubblicamente la falsa scomunica, e aveva minacciato Firenze di interdetto se non gli fosse stato consegnato il frate.

L’obiettivo segreto del papa era proprio quello di toglierlo dalle mani dei nemici e permettergli di discolparsi a Roma, salvandogli così la vita. Ma Girolamo, ostentando indifferenza e disprezzo per la scomunica e ribellandosi così apertamente al Vaticano, si era praticamente messo la corda al collo da solo: i governanti della città avevano finalmente trovato la scusa per liberarsi dell’ingombrante moralizzatore e i suoi nemici mano libera per catturarlo ed eliminarlo.

Dal nuovo governo della Repubblica, in mano agli Arrabbiati, era arrivato l’ordine di arresto per eresia, ma il frate non aveva nessuna intenzione di arrendersi e si era barricato nel convento di San Marco, di cui era il priore, insieme ai confratelli.

La cattura del predicatore si è trasformata in una vera e propria guerra civile: la domenica degli ulivi il convento è stato assediato dagli Arrabbiati e la campana ha suonato a martello, ma inutilmente. La milizia inferocita ha dato fuoco alla porta e l’ha sfondata.

L’assalto è durato fino all’alba, con lotte all’ultimo sangue tra frati e assalitori. In piena notte Girolamo è stato catturato e trascinato fuori del convento con fra’ Domenico Buonvicini.
Attraversando alla luce delle torce la via Larga sono arrivati a Palazzo Vecchio, ma non sono entrati dall’ingresso principale; giunti di fronte al portello l’armigero gli ha fatto segno di inchinarsi per entrare, e quando Girolamo l’ha fatto quello gli ha tirato un calcio nel sedere: “Ve’ dove gli ha la profezia!” ha gridato.

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La torre di Palazzo Vecchio a Firenze, chiamata anche torre di Arnolfo dal nome dell’architetto Arnolfo di Cambio, e l’ingresso dell'”Alberghetto” dove fu torturato Savonarola

Chiuso nella torre di Arnolfo dell’Alberghetto, sono iniziati gli interrogatori e le torture.
Vogliono fargli confessare a tutti i costi qualcosa che possa giustificare l’esecuzione. Ma Girolamo non è un eretico: è solo un uomo che forse ci ha creduto troppo, nel Vangelo; non si è mai voluto mettere in testa che certe cose vanno predicate ai fedeli, certo, ma mica prese sul serio.

Gli hanno legato una corda ai polsi, dietro la schiena e poi ne hanno issato il corpo per mezzo di una carrucola, strappandogli i muscoli e slogandogli le braccia, mentre ai piedi hanno attaccato dei pesi.

“Confessa, maledetto, confessa la tua eresia!”
Ma Girolamo non è un eretico: è solo un cristiano che non è riuscito a distinguere il Regno dei cieli da quello della terra. E sì che lo aveva detto Gesù stesso, che il suo regno non è di questo mondo.

Lo hanno messo ad arrostire al fuoco come un porco e lasciato ad affumicare come un prosciutto, tra sofferenze atroci. “Confessa piagnone bastardo! Confessa la tua eresia e finirà tutto!”.

Ma Girolamo non è un eretico: è solo un politico un po’ troppo autoritario. E non è riuscito a capire che certe scelte, i cittadini, le devono fare da soli, che la morale non si può imporre per legge.
E visto che non si è ancora arreso, l’hanno messo sul Cavalletto, che attraverso un sistema di corde e pulegge, gli tira le braccia e le gambe fino a disarticolarle, e ce l’hanno lasciato un giorno intero.

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Ritratto di Girolamo Savonarola in sembianze di San Pietro Martire, fra’ Bartolomeo, Museo di S. Marco, Firenze

Ha ferite in tutto il corpo, è stremato, esanime; non ha più nemmeno la forza di respirare. Ma non si arrende. “Lo capisci che ti uccideremo comunque? – gli fa l’aguzzino – Lo capisci che è finita? Perché non vuoi accorciare la tua sofferenza? Perché vuoi prolungare questa tortura all’infinito? Per te è solo dolore e a noi ci fai perdere tempo! Confessa e daremo una chiusa a questa storia. Deciditi a confessare la tua eresia, bastardo!”.

Ma Girolamo non è un eretico: è solo un predicatore che si è preso un po’ troppo sul serio, che forse non si è fidato abbastanza di Dio da capire che non spetta a lui, rimettere a posto il mondo.

Finita l’infinita tortura, viene riportato in cella, insieme a frate Domenico Buonvicini da Pescia e frate Silvestro Maruffi da Firenze. Ai Battuti Neri della Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio viene permesso di raggiungere i tre frati e di confortarli.

All’alba del 23 maggio 1497 ascoltano l’ultima messa nella cappella dei Priori nel palazzo della Signoria; poi vengono portati sull’arengario del palazzo, dove si trovano di fronte il giudice del Tribunale del Vescovo, quelli del Tribunale dei Commissari apostolici, il Gonfaloniere e i Signori Otto di Guardia e Balìa: la magistratura fiorentina che si occupa degli affari criminali.

Per prima cosa i tre frati vengono spogliati dell’abito domenicano e degradati da qualsiasi carica religiosa. Poi arriva la sentenza del tribunale civile.

“Dio esiste, ma non sei tu. Quindi rilassati!”.

Gli sembra di sentire queste parole, mentre viene pronunciata la condanna a morte.
Un sorriso di conforto si disegna sulle sue labbra. Chiede perdono a Dio e sa di averlo ottenuto. Perché Dio è misericordioso. Ben più di lui, per fortuna.

Il supplizio di Savonarola - (Francesco di Lorenzo Rosselli, 1498 -Museo di S. Marco, Firenze)

Il supplizio di Savonarola – (Francesco di Lorenzo Rosselli, 1498 -Museo di S. Marco, Firenze)

È la vigilia della festa dell’Ascensione, e non può essere un caso, si dice Girolamo mentre viene portato in catene al patibolo, direttamente dal Palazzo della Signoria alla piazza, attraverso una passerella alta quasi due metri da terra.

È finita la fatica: ora la sua anima si prepara a volare verso Dio. Non c’è niente di cui aver paura, si dice, niente da temere: è arrivato il momento che aspettava da tutta la vita.

La forca è alta cinque metri e si erge su una catasta di legna e scope cosparse di polvere da sparo.

Girolamo indossa una semplice tunica di lana bianca e sorride: è stato condannato dagli uomini ma si è finalmente riconciliato con Dio e con se stesso. Un dolore improvviso al piede, però, lo ridesta dai suoi pensieri; non è niente, rispetto a quello che ha passato, ma non capisce cosa diavolo l’abbia colpito: si china a vedere e si accorge che sotto la passerella ci sono dei ragazzini che si divertono a punzecchiargli i palmi dei piedi nudi con uno stecco di legno appuntito.
Sono solo dei ragazzini, e Girolamo riesce persino a sorridergli. Non fanno male, quegli stecchi.

Sono gli insulti dei suoi amati figliuoli, quelli sì che fanno male davvero.
Aveva affrontato con coraggio e serenità le torture e il processo pensando alla passione di Cristo. E forse adesso si sarebbe aspettato le lacrime delle pie donne, magari anche una Veronica accorsa ad asciugargli il sangue e il sudore. E invece trova una folla inferocita che lo insulta mentre si prepara a morire. Dove sono i suoi devoti? Dove sono i suoi sostenitori? Dove è il suo popolo?

“Adesso sì che piagni, Piagnone!” sente gridare. “Morte all’eretico!”, “Morte al tiranno!”.
Eppure ha già visto quelle facce, quelle espressioni, Girolamo: le ha viste in quella stessa piazza, appena un anno prima, esaltarsi di fronte a ben altro rogo, acclamarlo padrone di Firenze.

Un rumore secco, un singulto, e frate Silvestro va giù; appeso a una corda, con gli occhi sbarrati e la lingua di fuori. Un altro scatto, una ola trionfante dalla platea e anche fra Domenico giace a penzoloni.

Ora tocca a lui. Le grida aumentano, è un delirio di sete di sangue. “Muori tiranno!”, “Muori piagnone!”, “A morte! A morte!”.

Ha già visto quelle facce, quelle espressioni, Girolamo. Le ha viste a Gerusalemme, nel pretorio romano. Sono le stesse che gridavano “Barabba! Barabba!”.

Il boia si avvicina. Girolamo è impassibile.
“Barabba! Barabba!”
Gli stringe la corda attorno al collo.
“Barabba! Barabba!”
Ha già visto quelle facce, e le rivedrà ancora.
In un altro luogo, in un’altra ora
con un altro slogan, con un’altra battaglia
con un’altra fottutissima coda di paglia.

“Barabba! Barabba!”
E Girolamo vorrebbe parlarci, adesso, con quella gente. Non dal palco di una piazza, non incassando grida di giubilo e applausi. Adesso non vede più una folla da domare, non vede più un popolo da guidare: adesso vede delle persone. E vorrebbe parlarci, con quelle persone, una per una. E ascoltare le loro ragioni, e dialogare: non convincerli, ma aiutarli a ragionare.

“Barabba! Barabba!”
Ha già visto quelle facce, quell’espressione. È l’espressione di una massa che ha bisogno di eroi che assecondino comodamente i vizi suoi.

Mentre i piedi restano senza appoggio e cadono nel vuoto, mentre la corda si stringe sulla gola strappandogli il respiro, Girolamo cerca uno sguardo, uno sguardo qualsiasi in quella folla inferocita. E mormora: “Cerca di essere uomo, prima di essere gente”.

E il suo ultimo sguardo si posa paterno su un volto a caso, delle centinaia che lo circondano. Non riesce più nemmeno a muovere la lingua, ma il suo ultimo pensiero è ancora: “Cerca di essere uomo… prima di essere gente”.

Lapide in piazza della Signoria a Firenze che ricorda il rogo di Savonarola

Lapide in piazza della Signoria a Firenze che ricorda il rogo di Savonarola

Nessuno sente quelle ultime parole strozzate; accorrono invece in massa ad appiccare il fuoco a quella catasta che subito divampa con un’esplosione. Dal corpo in fiamme di Savonarola si stacca un braccio, e la mano destra sembra alzarsi con due dita dritte, come se volesse benedire per l’ultima volta l’ingrato popolo fiorentino.

Cerca di essere uomo prima di essere gente.

Quando tutto è finito, mentre le ceneri dei frati vengono raccolte su delle carrette per essere gettate nell’Arno da Ponte Vecchio, arrivano in piazza alcune donne vestite da serve con vasi di rame, e si mettono a raccogliere la cenere calda, spiegando alle guardie di volerla usare per fare il bucato.

In realtà si tratta di nobildonne seguaci del frate, che con questo stratagemma riescono a raccogliere tutto ciò che è rimasto.

Non è rimasto, molto, in effetti, e le pie donne devono accontentarsi di un dito bruciacchiato e del collare in ferro che aveva sorretto il corpo, da conservare nel monastero di San Vincenzo a Prato, come reliquie di quel santo ribelle.

Il giorno dopo, festa dell’Ascensione, chi accorre sul luogo del massacro lo ritroverà interamente coperto di fiori, foglie di palma e petali di rose; e deciderà che da allora in poi per sempre, ogni anno, nel giorno dell’Ascensione, fiori, foglie di palma e petali di rose segneranno il luogo dove fu martirizzato l’ultimo profeta della rivoluzione cristiana, il politico più bigotto della storia della politica italiana. La cui passione, cinquecento anni dopo, brucia ancora in Piazza della Signoria.

Arnaldo Casali

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