La crociata della pace di Federico II

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La crociata condotta dall’imperatore Federico II di Svevia nel 1228-1229 fu davvero straordinaria. Come si svolse lo esporremo in maniera più dettagliata, ma invertiamo l’ordine e spieghiamo prima perché risulta eccezionale a chiunque la osservi.

Due sono gli elementi che la rendono sorprendente e singolare rispetto a tutte le altre imprese di conquista o di riacquisizione alla fede cristiana delle terre sante, quelle imprese che comunemente chiamiamo crociate. Il primo è che non ci fu alcuno spargimento di sangue: nonostante che da ogni parte si invocassero stragi e bagni di sangue, tutto fu risolto in maniera pacifica, attraverso accordi diplomatici tra l’imperatore Federico e il sultano d’Egitto al-Kāmil. Proprio il fatto che fu incruenta, nei trionfalistici messaggi solenni inviati da Gerusalemme a tutta l’ecumene cristiana, l’imperatore svevo lo attribuì a un miracolo celeste, segno della speciale protezione che Dio gli aveva riservato. Il secondo elemento, che desta altrettanta se non ancora maggiore sorpresa, perché apparentemente incongruente, è dato dalla circostanza che fu compiuta da uno scomunicato. In altri termini, l’impresa che rappresentava il dovere più alto della militanza spirituale cristiana fu portata a termine proprio da chi era stato escluso dalla comunità dei fedeli. Infatti, Federico era stato fulminato dalla scomunica di papa Gregorio IX nel 1227, proprio perché non aveva ancora avviato la spedizione d’Oltremare, promessa sin dal 1215.

Le parole dell’imperatore

18 marzo 1229. L’ingresso a Gerusalemme e l’incoronazione nelle parole di Federico II
Brani del Manifesto di Gerusalemme, che fu reso pubblico da Federico II il 18 marzo 1229, terza domenica di quaresima, quando entrò a Gerusalemme presentandosi come strumento di un miracolo divino. Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, ed. L. Weiland, II, Hahn, Hannoverae 1896 (MGH, Const., 2); traduzione di Fulvio Delle Donne.

Si allietino nel Signore ed esultino tutti coloro che sono retti nel cuore, poiché Egli ha il potere sul suo popolo di esaltare i mansueti nella salvezza. Lodiamo anche noi lo Stesso che lodano gli angeli, poiché Egli stesso è Dio nostro Signore, che solo compie grandi cose mirabili e che, non dimentico della sua antica misericordia, rinnovò nei nostri tempi quei miracoli di cui si legge per i tempi antichi. Perché, per rendere nota la sua potenza, dal momento che Egli non si gloria sempre nei cavalli o nei carri, ora ha concesso a sé la gloria in un esiguo numero degli uomini, perché tutte le genti conoscano e comprendano che Egli stesso è terribile nella magnificenza, glorioso nella maestà e mirabile nei consigli relativi ai figli degli uomini: in questi pochi giorni, miracolosamente più che virtuosamente, si è conclusa felicemente quella vicenda che da lungo tempo un grandissimo numero di uomini potenti e molteplici prìncipi della terra non riuscirono a portare a termine né con enormi eserciti, né col timore né con qualsiasi altro mezzo. […]
Il giorno sabato 17 marzo della seconda indizione, con tutti i pellegrini che con noi seguirono fedelmente Cristo figlio di Dio entrammo nella santa città di Gerusalemme, e subito, da imperatore cattolico, dopo aver adorato con reverenza il sepolcro del Signore, nel giorno successivo portammo la corona, e il Signore onnipotente, prevedendo dal trono della sua maestà che noi dovessimo riceverla, per la grazia speciale della sua pietà ci ha mirabilmente posto al di sopra di tutti i prìncipi del mondo, in modo che, mentre noi tripudiamo per questa tanto grande dignità, che ci spetta per il diritto del regno, sempre più risulti noto a tutti che è stata la mano del Signore a fare tutto questo. E siccome la misericordia è la più grande delle Sue opere, i cultori della giusta fede sappiano e proclamino per tutto il mondo, in lungo e in largo, che Colui che è benedetto nei secoli ha visitato e salvato il suo popolo, e ha innalzato per noi il corno della salvezza nella casa di suo figlio Davide.

I principali motivi che rendono straordinaria e affascinante la crociata di Federico II sono tutti qui. Fu una “crociata di pace”, nel senso più pieno e anche contraddittorio dell’espressione, perché non ci furono battaglie, né morti, al contrario di quanto era avvenuto ancora pochi anni prima (nel 1221) a Damietta, in Egitto, presso la foce del Nilo, dove i Crociati avevano deciso di dirottare l’azione, per trovare una via più agevole per conquistare la Terra Santa.

Le contraddizioni hanno sempre caratterizzato la vita comune, quella di otto secoli fa e quella di oggi. Federico non era uomo disabituato all’uso delle armi, anzi. Quella crociata pacifica fu il frutto di una meditata strategia diplomatico-politica e proprio per questo divenne oggetto di gioiosa esaltazione, ma anche di violenta riprovazione. Fu vista, in ogni caso, come una tappa di avvicinamento alla fine dei tempi, che allora era sentita come imminente.

Quelli erano anni in cui si riteneva prossimo l’arrivo dell’Anticristo, preceduto immediatamente dal trionfo di colui che i testi chiliastici chiamavano “imperatore della fine dei tempi”: colui che, riunendo Oriente e Occidente, avrebbe ricondotto sulla terra l’età dell’oro. Solo allora, dopo un breve periodo di pace e felicità universale, sarebbero sopravvenuti l’Anticristo e il giudizio finale, in cui i malvagi sarebbero stati condannati a pene eterne e i puri d’animo sarebbero ascesi alla contemplazione del Signore. Era, dunque, quella la temperie in cui Federico compì la sua impresa. Dai nemici fu visto come il tremendo Anticristo; dai sostenitori come il salvifico imperatore della fine dei tempi. Insomma, le cose non appaiono mai a tutti nello stesso modo. La storia, lo studio del passato fatto con i giusti metodi filologici se ha qualcosa da insegnare è proprio questo: a cambiare prospettiva e a mettere in discussione ogni convinzione preconcetta.

Per rompere le convinzioni preconcette soffermiamoci proprio sulla definizione di “crociata”. Il termine, com’è ormai ben noto, è piuttosto moderno, almeno nel senso storico che tendiamo ad attribuirgli. Anche il concetto che esprime, del resto, è stato alterato dalla tradizione storiografica, che, spesso, lo ha più o meno implicitamente caratterizzato come una sorta di fenomeno omogeneo o unitario, precisamente classificabile e ben definito, con spedizioni che vengono numerate in maniera sequenziale e ordinata: finita una, ne comincia un’altra.

La spedizione organizzata e condotta da Federico II costituisce la prova più evidente del fatto che i numeri ordinali attribuiti alle crociate non hanno alcun senso: quella di Federico viene solitamente numerata come la sesta, ma la precedente non si era chiusa. La disfatta di Damietta del 1221 (culmine della cosiddetta quinta crociata), in effetti, fu un evento tragico e certamente importante, ma non fu percepito come la conclusione di un’impresa bellica, e Federico risultò implicato – nel bene e nel male – tanto in quella che nelle successive. D’altro canto, la crociata che più specificamente lo vide coinvolto nel 1228-1229, da alcuni (papa Gregorio IX in testa) non fu affatto considerata azione degna di un cristiano: condotta da uno scomunicato, si estrinsecò in un inammissibile e riprovevole accordo con gli infedeli. Eppure fu quella che più di altre garantì successo e vantaggi per i pellegrini che volevano recarsi al Santo Sepolcro di Gerusalemme.

Il sultano al-Kamil in una scena del ciclo di affreschi sulla vita di San Francesco (Benozzo Gozzoli, Montefalco, complesso museale di San Francesco)

Ma addentriamoci sia pure rapidamente nella vicenda. Fu promessa per la prima volta da un giovane Federico, allorquando, il 25 luglio 1215, fu incoronato re dei Romani ad Aquisgrana: imprescindibile preludio per l’unzione imperiale, che sarebbe avvenuta a Roma, in San Pietro, il 22 novembre 1220. Facendosi incoronare ad Aquisgrana, Federico rivendicava l’antichità dell’origine del proprio ruolo universale: la stessa scelta aveva già compiuto suo nonno, Federico I Barbarossa, che a partire dal 1157 aveva imposto l’aggettivo «sacro» al titolo imperiale. Del resto, Aquisgrana era stata la capitale di Carlo Magno, colui che il Barbarossa nel 1165 aveva reso santo, festeggiandone la canonizzazione il 29 dicembre, il giorno in cui veniva ricordato anche David: in quel modo veniva sancito il rapporto di continuità tra il biblico re David eletto da Dio, il fondatore dell’impero d’Occidente e i suoi successori. Federico II si collocava dunque in prosecuzione di quella sequenza di sacri sovrani e imperatori.

La presa della croce ad Aquisgrana avviò un percorso lungo, pieno di lentissimi preparativi. Continui e ripetuti, da allora, furono i rinvii chiesti da Federico. Rinvii che i fedeli e i papi sopportarono pazientemente, almeno fino al 1227, quando, dopo l’ennesimo ritardo, Federico fu scomunicato. Ma riassumiamo con ordine: nel 1225 Federico aveva preso in moglie Isabella di Brienne, regina di Gerusalemme, che portava in dote quel Regno d’Oltremare e rendeva più allettanti gli interessi per la Terra Santa: Federico sarebbe diventato signore dell’intero Mediterraneo, da Occidente a Oriente. Mentre i preparativi per la crociata si intensificavano, il 18 marzo 1227 papa Onorio III morì a Roma. Passò un solo giorno e venne eletto nuovo pontefice il cardinale Ugolino da Ostia col nome di Gregorio IX, il quale, con fermezza e decisione, fece subito capire che non avrebbe accettato altri indugi da parte di Federico. E Federico non dimostrò alcuna esitazione: la flotta era pronta.

Insomma, nell’estate del 1227 tutto sembrava procedere senza indugi. A Brindisi, scelta come porto d’imbarco, si erano radunati ben più dei mille cavalieri previsti dai precedenti accordi col papa. Oltre ai soldati, poi, si accalcavano in gran numero i pellegrini, ansiosi di recarsi in viaggio nei luoghi santi. Ma la stagione calda, le pratiche igieniche dell’epoca e l’improvviso assembramento furono all’origine di una devastante epidemia in una città impreparata a ospitare masse così imponenti di uomini e animali.

Le ripetute dilazioni precedenti non permettevano a Federico di tirarsi più indietro. Bisognava procedere a tutti i costi. L’8 settembre Federico partì assieme al langravio di Turingia Ludovico. Il giorno dopo si fermò poco oltre, presso l’isola di S. Andrea, sul limitare del porto. Il 10 fece tappa a Otranto, dove avrebbe dovuto far imbarcare l’imperatrice, ma la situazione si era aggravata e l’11 morì il langravio Ludovico. A quel punto, ammalatosi egli stesso, Federico decise di sospendere il viaggio e si ritirò per cure a Pozzuoli, dove si trovavano rinomati bagni termali. Il papa non volle sentire ragioni e ritenne che fosse un’altra scusa accampata da Federico per non compiere quanto promesso: il 29 settembre pronunciò la sentenza di scomunica. Si trattava di un atto di eccezionale gravità, che metteva al bando della comunità cristiana colui che ne era colpito: nessuno avrebbe dovuto avere alcun contatto con lui. A quel punto, Federico decise di accelerare, tanto più che in Oriente la situazione era divenuta imprevedibilmente più favorevole. Dopo la perdita di Damietta, avvenuta nell’estate del 1221, il sultano d’Egitto al-Kāmil era venuto a conflitto col fratello al-Mu῾aẓẓam: non gli conveniva aprire un nuovo fronte di guerra con i crociati, che anzi potevano aiutarlo contro il nemico. Così iniziò a intavolare trattative di pace con l’imperatore.

I preparativi ripresero nella primavera del 1228, appena la stagione consentì di tornare a navigare: attraversare il mare in inverno, affrontando freddo e tempeste, era sempre impresa mortale, da evitare. Federico celebrò a Barletta la Pasqua del 1228 e poco dopo, il 25 aprile, gli nacque il figlio Corrado; in conseguenza del parto, 10 giorni dopo morì Isabella, il 5 maggio. Federico divenne allora re, o meglio reggente di Gerusalemme.

Federico partì da Brindisi il 28 giugno e giunse in Siria il 5 settembre. Occorsero oltre due mesi per arrivare sulle coste medio-orientali, ma il viaggio fu intervallato da alcune soste, talvolta durate diverse settimane, come a Cipro, cruciale per gli snodi mediterranei, dove l’imperatore deviò per risolvere alcune delicate faccende di governo. Le tappe che conducevano verso Oriente erano all’incirca le stesse che compivano tutte le navi che andavano in quella direzione: erano di fatto obbligate, perché si cercava di evitare il più possibile le traversate in mare aperto, sempre pericolose, soprattutto per le navi dell’epoca. In linea di massima si cercava di sfruttare la bella stagione, per evitare burrasche o mare grosso, e di effettuare tragitti non superiori alle 50 miglia marine giornaliere; sul far della sera, solitamente, si attraccava in terre non ostili e in porti conosciuti e attrezzati, indicati precisamente da mappe dettagliate, dove ci si potesse rifocillare, trascorrere la notte e fare rifornimento di cibo ma soprattutto di acqua potabile. In ogni caso, la scelta del percorso dovette essere guidata anche dai rapporti di amicizia e alleanza con i signori locali, o dalla decisione di reimporre il predominio imperiale.

In conclusione, Federico II entrò a Gerusalemme, sabato 17 marzo 1229, in seguito a un accordo diplomatico e pacifico con il sultano al-Kāmil: lì, secondo alcune fonti, il giorno dopo si auto-incoronò («portò la corona») nella basilica del Santo Sepolcro, con gesto ritenuto inammissibilmente superbo e oltraggioso da parte papale. Inutile soffermarsi sui dettagli delle trattative col sultano che precedettero quell’ingresso trionfale: è sufficiente ricordare che gli accordi concessero ai Cristiani vari vantaggi, ma soprattutto quello di accedere liberamente al Santo Sepolcro per 10 anni, 5 mesi e 40 giorni (il massimo consentito dalla legge islamica sarebbe stato 10 anni, 10 mesi, 10 settimane e 10 giorni).

L’accordo tra quei due grandi, gli uomini più potenti della terra, dovette colpire molto l’immaginario collettivo, anche a distanza di tempo, tanto che, in maniera idealizzata ma davvero icasticamente simbolica, fu rappresentato in una miniatura, attribuibile alla mano di Pacino di Bonaguida, che decora la meravigliosa Cronica figurata di Giovanni Villani (Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Chigi L VIII 296, f. 75r, risalente al 1340 circa: chiunque lo può ammirare liberamente al sito https://digi.vatlib.it/view/MSS_Chig.L.VIII.296). All’esterno di una città protetta da mura merlate – certamente identificabile con Gerusalemme – essi si incontrano e si danno la mano, sancendo così il loro accordo. Il sultano, riconoscibile dalla corona che porta sul turbante e da un manto rosso, indica all’imperatore (anch’egli incoronato e con manto rosso) la porta di accesso alla città santa, mostrandogli che non è chiusa. I soldati, dall’una e dall’altra parte, portano le armi sì, ma sono riposte e tenute basse, a rappresentare che non saranno usate.

La crociata condotta da Federico fu davvero straordinaria, come abbiamo detto all’inizio. Ma cosa può dirci ancora oggi?
Da decenni assistiamo a una lunga e frequente serie di avvenimenti tragici e sanguinosi, a partire dalla distruzione delle Torri gemelle di New York o dagli assalti a «Charlie Hebdo» e al «Bataclan», per non parlare dei conflitti che senza sosta insanguinano i territori che circondano Gerusalemme. Al di là del senso di attonito e addolorato stupore per eventi che capitano dietro l’angolo di un mondo globalizzato, di un’Europa patria comune, le reazioni collettive si dividono sempre tra rabbia e riflessione, tra esigenze di comprensione e slanci di vendetta contro tutto ciò che è sentito (o ci è presentato) come diverso.

Nel caso specifico, quello connesso più strettamente con la tematica della crociata (ma il discorso si può estendere a tanti altri ambiti), quando leggiamo di attentati, sentiamo di bombe o di lanci di missili, la reazione più pericolosa è quella di cercare un nemico che attenta alla sicurezza del nostro mondo. Non importa chi sia e spesso neppure interessa: tutti quelli che non integriamo nel nostro sistema di valori sono uniti in un “altro” indistinto. Ecco che la mancanza di conoscenza (per non dire ignoranza) ci porta a respingere istintivamente tutti coloro che sono diversi da noi per etnia, religione, lingua, ideologia politica, orientamento sessuale, persino regioni di provenienza (i terroni e i polentoni…). A quel punto, il nemico può diventare chiunque, da un giorno all’altro, anche il nostro vicino di casa: il passato ci mostra che è capitato molto di frequente.

Insomma, in questa situazione il rischio più grande è di dimenticare il maggiore insegnamento dell’Illuminismo, ovvero di quel pensiero che ha permesso all’Occidente di intraprendere definitivamente il suo distinto percorso di evoluzione razionale: il rischio maggiore è di far tacere la ragione, di dimenticare la “tolleranza”, o, per meglio dire, la disponibilità ad accettare e ammettere l’altro, ciò che è diverso da noi; e al contempo di limitarci nella libertà di espressione, auto-censurando anche il nostro pensiero. Se lo facessimo, torneremmo indietro di secoli.

Se vogliamo comprendere come siamo divenuti nel presente dobbiamo ricordare ciò che siamo stati. Dobbiamo conoscere bene la nostra storia, stando attenti ai suoi abusi. Le vicende passate non possono essere richiamate alla memoria solo quando fa comodo (magari per proporne la cancellazione), e non possono essere attualizzate impropriamente. Le “guerre sante” – crociata o jihad – sono un retaggio ineludibile del nostro passato, tanto a Occidente quanto a Oriente, ma al di là del fatto storico in sé sono un fenomeno ideologico, sistematicamente curvato secondo le esigenze politiche: sono una sineddoche della nostra rappresentazione del mondo. Nel bene e nel male, costituiscono un punto di riferimento e un monito. E non sono gli unici fenomeni storici di cui dobbiamo prenderci cura.

Al paradigma della crociata come guerra sanguinosa può essere associato quello della sfida diplomatica, forse non meno difficile o indolore. In un’enciclica del 2019 papa Bergoglio ha proposto il modello irenico del santo di cui ha preso il nome pontificio, di quel Francesco che «mentre tanti partivano rivestiti di pesanti armature» si recò dal sultano al-Kāmil «armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto». Ma Francesco era un santo, votato al martirio, non un uomo di governo.

Alla prospettiva cristiana e francescana, sulla stessa linea, si può accostare quella laica e più spiccatamente politica di Federico II e di al-Kāmil, i due massimi sovrani del mondo. Forse può essere utile ricordare che mentre tutti attorno pretendevano che si lavasse col sangue la strada per il Santo Sepolcro, mentre da ogni parte tutti attorno pronunciavano parole di odio, la decisione di non imbracciare le armi e di condurre una trattativa pacifica portò vantaggi che non si sarebbero potuti conseguire altrimenti. Avevano potentissimi eserciti e imbracciavano le armi, ma decisero di tenerle nei foderi. Certo, l’imperatore e il sultano mirarono a un loro vantaggio, al loro “particulare” (per usare il termine che molto dopo, nella prima metà del XVI sec., avrebbe ben connotato Francesco Guicciardini), perché con la loro tregua decennale poterono più agevolmente risolvere i problemi che li affliggevano sul fronte interno. Ma quel particulare fu utile a tutti, a Cristiani e Musulmani, in Terra Santa, in Occidente e in Oriente. E, per ottenerlo, entrambe le parti fecero un passo indietro, rinunciando a qualcosa di importante, a pretese e rivendicazioni.

Questo è il messaggio politico che ancora oggi può essere di insegnamento.
Le contraddizioni – apparentemente irrimediabili – della nostra attualità già caratterizzavano, in forma sia pure diversa, il mondo di otto secoli fa. Forse, il passato, se non può indicarci la strada da percorrere nel presente (la storia ha smesso, purtroppo, di essere magistra vitae, se pure lo è mai stata davvero), almeno può aiutarci a riflettere, quanto meno sul fatto che si può trovare sempre un’alternativa. Se si vuole, si può sempre trovare una via, anche in questo nostro presente, in cui si sentono, sempre più vicini, i rombi dei cannoni e il sibilo dei missili.

Fulvio Delle Donne

Da MedioEvo N.327, aprile 2024

 

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