La corona dei sette castelli

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Il borgo di Rotecastello, cioè “ruota-castello”, prende il nome dalla struttura fortificata a forma di ruota, di cui è visibile la torre principale (foto: Fiorenzo Lo Grasso)

Sette come i colli di Roma, come le meraviglie del mondo, come i giorni della settimana: Rotecastello, San Vito in Monte, Pornello, Ripalvella, Poggio Aquilone, Civitella dei Conti e Collelungo. Sono i castelli che fanno da corona a San Venanzo: custodi di una memoria che affonda le sue radici nella notte dei tempi, capace di richiamare culti antichi, cospirazioni, miracoli, e persino fantasmi e tesori nascosti.

L’infinità di reperti archeologici distribuiti lungo il percorso, testimonia la presenza degli Etruschi prima e dei Romani poi. Le fortificazioni iniziano invece ad essere realizzate al tempo delle invasioni barbariche. Cambieranno più volte padrone, sempre al centro delle guerre di confine fra i Comuni di Orvieto, Perugia e Todi. Poco fuori l’abitato di San Venanzo sorgeva l’Ospedaletto, antico ricovero per pellegrini sorto nel Medioevo sul tracciato dell’antica strada etrusca e che diede poi il nome ad un agglomerato di poche case.

A tre chilometri a sud ovest dal capoluogo appare Rotecastello, ovvero “ruota-castello”. Prende il nome dalla struttura fortificata a forma di ruota, di cui ancora visibile la torre principale: si dice che fosse la prigione e anche il luogo delle esecuzioni dei condannati, che venivano fatti salire fino in cima e poi lanciati verso un fondo armato di pali acuminati. Rimasto sempre legato a Orvieto – che gli concesse gli statuti nel 1502 – ancora oggi il borgo celebra il suo glorioso passato con la manifestazione “Agosto in Medioevo”.

Ben più tormentata è la storia di San Vito, castello edificato, distrutto e ricostruito diverse volte nei corso dei secoli. Abitato sin dal paleolitico, conserva le più antiche tracce della presenza dell’uomo nell’Italia centrale. Il suo nome originario era “Baccano” perché, trovandosi lungo il tragitto che collegava Perugia a Orvieto, era sede di un osteria dove i viandanti – godendosi il riposo e il buon vino – facevano baldoria durante le lunghe notti di inverno. Il nome attuale deriva invece da una leggenda secondo cui nel borgo avrebbe soggiornato il santo siciliano Vito.

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San Vito ha due agglomerati urbani, a valle e a monte (foto: Fiorenzo Lo Grasso)

Oggi il paese è diviso in due agglomerati di case: uno a valle – San Vito in Monte – e uno in alto, San Vito Castello: una terrazza a 620 metri di altezza dal quale si gode un panorama che permette di precipitare lo sguardo sui territori di cinque regioni: dall’altopiano Alfino all’Amiata, dal Monte Nerone ai Sibillini e dal Gran Sasso ai Vulsini, passando per il massiccio del Terminillo. La località è famosa per le acque ferruginose della sorgente dell’Acquaforte, utilizzate anche da personaggi illustri come papa Leone XIII, che quando era arcivescovo di Perugia veniva qui a “ritemprare nell’aria e nell’acqua la sua vita”.

Ormai quasi del tutto abbandonato, il castello di Pornello è citato dalle cronache sin dal 1137 e deve il suo nome al fatto che il luogo dove sorge era ricco di pruni.
Possedimento dei Bulgarelli, nel 1317 fu assegnato in perpetuo alla Chiesa orvietana. Nel 1380 fu teatro di una battaglia che diede origine a una suggestiva leggenda: Berardo Monaldeschi aveva assalito e saccheggiato Orvieto e si stava dirigendo verso Perugia, quando – proprio nei pressi del castello – era stato sorpreso dalle milizie del conte Ugolino di Montemarte. Del tesoro trasportato non si ebbe più alcuna notizia: secondo la fantasia popolare si trova ancora nascosto da qualche parte, nei dintorni del borgo.

Arrampicato a 295 metri sulla sommità di una collina di marmo e calcare che domina il corso del torrente Fersinone, il minuscolo Poggio Aquilone oggi è occupato da appena 78 abitanti. In un primo tempo si chiamava semplicemente Poggio, ma nel 1312 Arrigo VII di Lussemburgo, alleato di Todi, dopo aver saccheggiato Marsciano dimorò qualche giorno nel Palazzo del Castello e concesse alla città il privilegio di poter inserire nello stemma l’Aquila nera incoronata sopra uno scudo d’oro, aggiungendo così la seconda parte al nome del borgo. Nel 1422 il castello ottenne gli Statuti da Ranuccio il Vecchio, umanista e uomo d’armi al servizio di Venezia. La moglie Todeschina, figlia del Gattamelata, lo amministrò per conto del marito lontano.

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Civitella dei Conti, villa fortificata del Trecento, divenne proprietà dei conti di Marsciano, dai quali prende il nome (foto: Fiorenzo Lo Grasso)

Proprio di fronte a Poggio Aquilone si affaccia Civitella dei Conti, villa fortificata nel XIV secolo della quale è oggi possibile ammirare il torrione, le mura perimetrali, la chiesetta e le carceri sotterranee. Recenti campagne di scavi archeologici hanno riportato alla luce testimonianze di civiltà dell’Età del ferro e di epoca etrusca e si suppone che nell’area fosse esistito un tempio pagano, ipotesi incoraggiata dalla presenza di una chiesa dedicata a San Michele Arcangelo, che svolgeva in qualche modo il ruolo di “esorcista” nei luoghi degli antichi culti. “Civitella della Montagna” – questo il nome originale – era passata attraverso molte mani prima di diventare proprietà dei Conti di Marsciano, da cui assunse il nuovo nome. Per secoli è stata contesa tra Perugia e Orvieto e oggi è una proprietà privata.

Eretto anch’esso sui resti di una villa romana, il castello di Collelungo ospita uno dei principali centri religiosi del territorio: la chiesa parrocchiale è infatti il santuario della Madonna della Luce, sorto intorno a un affresco del XIII secolo attribuito a Pietro di Nicola di Orvieto, rimasto nascosto per secoli, nella vecchia chiesa, da uno strato di intonaco che cadde il 24 aprile 1827 durante il rientro di una processione: un evento giudicato miracoloso tanto da attirare da due secoli ammalati, pellegrini e curiosi. Tra i suoi devoti più illustri anche papa Paolo VI, che nel secondo dopoguerra fu ospite a Collelungo della famiglia dei Conti Righetti-Faina.

Il castello ospita anche una cantina rinomata sin dall’Ottocento, che utilizza i sotterranei per l’affinamento dei vini: qui le botti stazionano nelle gallerie lunghe ben 150 metri in un suggestivo percorso tra archi e passaggi segreti, utilizzato anche da Imperia di Montemarte, moglie del signore di Collelungo Corrado Monaldeschi, per allontanarsi di notte dal palazzo e incontrarsi con l’amante. Quando la sventurata venne scoperta fu uccisa dal marito. E da allora diventò, secondo la leggenda, un fantasma che ancora oggi si aggira tra i boschi nelle notti ventose a cavallo di un destriero, invocando il nome del suo perduto amore.

Arnaldo Casali
Articolo pubblicato su MedioEvo N° 259 di agosto 2018

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