Saint Denis, prima, meravigliosa cattedrale gotica

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Le vetrate di Saint DenisSan Dionigi, decapitato sull’altura di Montmartre, si alzò in piedi e raccolse la sua testa. Poi scese dall’alta collina del suo martirio (“mons martyrium”) e portò quel capo mozzo e sanguinante in un remoto luogo della sterminata campagna che allora circondava Lutezia, la città della Gallia romana nata sulla riva sinistra della Senna.

Nel cimitero dove il santo vescovo di Parigi trovò sepoltura, all’inizio fu edificata una chiesa piccola, capace però di custodire la leggenda di Dionigi, che si propagò ben oltre le date incerte del martirio. E segnò, nei secoli, la storia stessa della Francia.

Dagoberto I, re merovingio, decise che in quel luogo decentrato dovesse nascere una abbazia benedettina dove pretese di essere inumato dopo la sua morte (638). Pipino il Breve, nel 754, vi si fece consacrare re.

A partire dal VI secolo, Saint Denis diventò il luogo di sepoltura di quasi tutti i regnanti francesi. Oggi ospita le tombe di 42 sovrani, 32 regine e 63 principi e principesse. Le prime storie della Francia furono vergate proprio dai monaci benedettini dell’abbazia. Il culto del santo intanto attirava migliaia di pellegrini da tutto il paese.

La chiesa si trasformò ancora. E divenne grande e bellissima soprattutto grazie al genio e al lavoro di un uomo: Sugero (1080 -1151), consigliere di due re, mediatore tra la monarchia e il papa e reggente di Francia durante la seconda crociata.
Aveva un fisico minuto ma era animato da una indomabile volontà e sorretto da una straordinaria intelligenza. Guidò l’abbazia dal 1122 al 1251. Con un triplice ruolo: committente, costruttore e cronista dei lavori della prima, meravigliosa cattedrale gotica della storia.

I lavori iniziarono nel 1136. L’abate voleva un’opera sontuosa, mai vista prima. Organizzò il cantiere, trovò il denaro che serviva e volle che l’oro, le perle e le pietre preziose abbellissero le suppellettili liturgiche, la grande croce, il paliotto dell’altare e il tempietto dei reliquiari.
San Bernardo si scandalizzò di tanta magnificenza. Scrisse una famosa lettera a Sugero nella quale definiva Saint Denis come “fucina di Vulcano” e “sinagoga di Satana”. L’abate rispose al rigore ascetico dell’ispido santo con delicate parole d’amore sulla bellezza del creato e i colori del mondo.
Sugero voleva una architettura di luce, l’attributo divino per eccellenza che trovava descritto negli scritti di Dionigi l’Areopagita e nelle opere di Scoto Eriugena.
I grandi spazi e la luce guidarono la nascita della cattedrale, anche grazie a inedite tecniche di costruzione: Saint Denis è il primo edificio della storia dell’architettura in cui convivono sia la pianta a croce latina con cappelle laterali che la volta su ogive incrociate.

Le vetrate creano un muro ondulatorio di luce. E i due rosoni, i primi costruiti in Francia, ammaliano il visitatore: quello a nord, che indica il punto delle tenebre, riflette dei colori freddi, al contrario dell’altro, il rosone esposto al sud, che mostra un tripudio di colori. Per Sugero, l’incanto delle pietre multicolori doveva trasportare chi entrava a Saint Denis in “un altro mondo”, per elevare la mente dell’uomo dalle cose terrene.

Fu San Luigi IX a ordinare una scultura per ogni sovrano sepolto nella cattedrale. Nel Medioevo, per il popolo dei fedeli la grande cattedrale era “la necropoli dei nostri re”.

Saint Denis rappresenta la Francia come pochi altri luoghi. Si diceva che la bandiera sacra dell’abbazia fosse di colore rosso perché era bagnata dal sangue stesso di San Dionigi. Diventò presto lo stendardo dei re da esibire in battaglia. Un simbolo del potere reale descritto anche nella “Chanson de Roland” dell’XI secolo. Fu consegnato a Guillaume de Martel prima della battaglia di Azincourt (1415) e perso dopo la sua morte.

Alla chiesa abbaziale di Saint-Denis Giovanna d’Arco appese la sua armatura nel 1429. Nella grande chiesa dormono anche i re Borboni, chiusi in bare adagiate su telai di ferro, e Luigi XVI e Maria Antonietta, i sovrani travolti dalla Rivoluzione.

Virginia Valente