Questioni di capelli (e cappelli)

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CapelliCappelliStava a guardare il capello, l’uomo del Medioevo: segno di potere e autorità, ma anche ricettacolo del maligno quando acconciato con vanità. Non è solo una questione di estetica: nel Medioevo i capelli sono una questione ontologica.

Per i germani la lunghezza era uno dei segni distintivi della gerarchia militare: li legavano in cima alla testa per sembrare più alti e più spaventosi in battaglia. La calvizie, più che un problema, era quindi un’autentica umiliazione.

La connessione tra chioma e potere, d’altra parte, è molto antica: basti pensare alla Bibbia, dove la forza di Sansone è proporzionale alla lunghezza dei capelli, ma anche alla società romana, dove gli schiavi si riconoscono proprio per il cranio rasato, segno di sottomissione completa.

Anche i monaci si rasavano in segno di sottomissione a Dio, ma adottavano una rasatura parziale, sulla sommità del capo, la cosiddetta “chierica” il cui taglio dal VII secolo diventa un vero e proprio rituale e che fino alla fine del Novecento (è stata abolita da Paolo VI nel 1972) distinguerà preti, monaci e frati.

Per proteggere la testa dal freddo, i religiosi indossavano un piccolo cappello che copriva solo la parte rasata, detto “zucchetto” o “papalina”, ancora usato dai vescovi, e il cui colore segna il grado gerarchico: nero per i preti, viola per i vescovi, rosso per i cardinali e bianco per il papa.

nationale-de-franceLa chierica permette di distinguere a colpo d’occhio il laico dal religioso. Non a caso, Dante – nel canto XVIII dell’Inferno – trovandosi di fronte a una bolgia di dannati completamente coperti di escrementi, descrive un uomo – Alessio Interminei da Lucca – che ha il capo “sì di merda lordo, che non parëa s’era laico o cherco”.

Anche i Franchi portavano capelli e barba lunga, al contrario dei latini caratterizzati dai capelli corti e barba rasata. E passa proprio attraverso una rasatura l’alleanza tra carolingi e Chiesa: è Carlo Magno, incoronato imperatore dal Papa nel Natale dell’anno 800, a prendere l’abitudine di portare barba e capelli corti e ben curati così come vuole la Chiesa, mentre Luigi II arriva a rasare completamente il viso e a tagliare i suoi capelli quasi come un monaco.

Nel decimo secolo la Chiesa inizia a regolamentare con precisi editti la lunghezza dei capelli degli uomini, mentre alle donne viene imposto il velo.
Nel 1073 papa Gregorio VII vieta espressamente l’uso di barba e baffi tra il clero. E nel 1096 l’arcivescovo di Rouen minaccia addirittura la scomunica per gli uomini barbuti mentre il re inglese Enrico accetta nel 1130 di tagliare i capelli e la barba, sotto la pressione della Chiesa. D’altra parte già Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia e poi re d’Inghilterra, viene rappresentato con i soli baffi, anche se tra i Normanni la barba era molto importante per distinguere i maschi adulti dai ragazzi.

San Bernardo si scaglia invece contro la parrucca, definendola frutto del maligno: “La donna che indossa una parrucca commette un peccato mortale” tuona il cistercense, confermando una posizione che era stata già espressa dai primi padri della Chiesa: San Girolamo, l’autore della Vulgata, la traduzione in latino della Bibbia che rappresenterà per secoli la versione ufficiale della Chiesa, condannando lo stile di vita edonistico, aveva dichiarato tali ornamenti non tollerati dalla Chiesa e indegni del Cristianesimo. Il primo Concilio di Costantinopoli aveva affermato che le parrucche rappresentavano una grave offesa a Dio mentre Clemente di Alessandria sottolineava che se si indossa una parrucca in chiesa la benedizione ricevuta rimarrà nella parrucca e non arriverà alla testa.

San Gregorio Nazianzeno cita come esempio di virtù la sorella Gorgonia: “A lei non importava arricciare i suoi capelli, né riparare alla sua mancanza di bellezza con l’aiuto di una parrucca”.

UomoDonnaNessun predicatore, però, può fermare la forza della moda: fino al secolo XI le donne portano i capelli lunghi fino al ginocchio, legati a volte in due lunghe trecce ai lati della testa. A dispetto delle raccomandazioni degli scrittori cristiani, le acconciature dalle donne delle classi sociali più elevate continuano a essere molto complicate, con largo uso di capelli finti, diademi e veli frangiati, finché la Chiesa emana severe prescrizioni contro il lusso delle pettinature e degli ornamenti sulla testa.

In epoca feudale le donne preferiscono le trecce, spesso ornate di fili di perle e di fiori, oppure portano i capelli sciolti e trattenuti da un cerchio o da una ghirlanda.
A partire dal Trecento, poi, tutto diventa lecito per conferire alla capigliatura il colore desiderato, anche per coprire i fili grigi comparsi con l’avanzare dell’età; i rimedi sono essenzialmente a base di elementi vegetali estratti da erbe e fiori, ma anche di minerali e persino di escrementi di animali.

E non è una questione solo femminile: basti pensare a Francesco Sforza, celebre per l’abitudine di presentarsi in pubblico una volta con la chioma grigia e altre volte nero corvino. La preoccupazione più grande degli uomini, comunque, non sono tanto i capelli bianchi, quanto piuttosto la “pelatina”, come viene ironicamente definita dal Quattrocento in poi.

Suggerimenti e consigli riguardo alla prevenzione e la cura della perdita dei capelli abbondano ovunque. Ogni intruglio era buono pur di evitarla; i medici dell’epoca si adoperavano come potevano. Il famoso Aldobrandino da Siena, raccomandava di evitare l’uso del sapone, di lavarsi solo con acqua tiepida e di ungersi il cuoio capelluto con l’olio rosato o la mirra.

Quanto a cappelli, cuffiette e copricapo di vario genere, a partire dal XIV secolo sono codificati con metodo e precisione e distinguono classe e stato sociale: i capelli vengono considerati il principale strumento di seduzione della donna. Di conseguenza, le adolescenti e le giovani donne non fidanzate sono le uniche a poterli portare sciolti.

Una delle immagini più ridicole che viene tramandata da religiosi e poeti satirici è quella dell’attempata zitella dalle poco fluenti chiome sparse sulle spalle. Il colore dominante nei canoni di bellezza che permangono fino al Rinascimento è il biondo. Se ne deduce quindi, che già allora c’erano molte “finte bionde” che ricorrevano alla tinta.

I procedimenti di tintura dei capelli spesso erano simili a quelli usati per le stoffe. Il più semplice era l’esposizione al sole con la testa cosparsa di infuso di camomilla, ma con il viso coperto dal sole da un cappello di paglia per evitare antiestetiche tracce di abbronzatura. Abbiamo anche la ricetta di uno “shampoo” a base di miele: “Del miele rosato distillato nell’alambicco, a fuoco lento. Con la prima acqua distillata ci si lava il viso, con l’altra, che ha un colore dorato, ci si tinge i capelli una volta lavati e ben asciugati”.

Da questo si passava a combinazioni di erbe, acidi e a volte sali metallici che schiarivano il capello ossidandolo fino a “spolparlo”.

Subito dopo il matrimonio, di solito i capelli venivano tagliati. La stessa cosa facevano – e fanno ancora oggi – le religiose.

Il velo, che copre i capelli ma lascia scoperto il viso, è realizzato in lino, seta e cotone. Man mano che l’età avanza, al velo si aggiunge un complicato intreccio di bende che fa prendere all’acconciatura nel suo complesso il nome di Soggolo.

Lungo quasi tutto il periodo del Medioevo l’ideale di bellezza femminile prevede la fronte ampia, tanto che spesso le donne si rasano in parte per allargarla.

A Firenze, intorno al Trecento, le acconciature femminili alla moda erano piuttosto stravaganti, anche se decisamente differenti a seconda del ceto sociale di appartenenza. Se le popolane erano solite accontentarsi di una semplice fascia di tela inamidata da annodare sulla testa, bianca per le donne maritate e nera per le vedove, le signore borghesi usavano invece distinguersi per lo sfoggio di pesanti turbanti.

Le donne di rango elevato particolarmente eccentriche e un pochino snob infine, preferivano indossare cappelli con alte punte sormontate da lunghi e leggeri veli di seta. Quando il centro della moda si spostò a Parigi, si accentuò l’impiego dei capelli finti, finché si giunse al trionfo delle parrucche inanellate e incipriate; l’uso fu introdotto Luigi XIII per nascondere le calvizie. Con il tempo si diffonderà sempre di più, accompagnato dalle pettinature più complicate: Maria Antonietta arriverà a portarne una alta circa un metro e mezzo che la costringeva a stare in ginocchio quando saliva in carrozza.

DonneLibroDoreDal Decamerone di Giovanni Boccaccio apprendiamo che nella Firenze medievale il sabato era il giorno di riposo e quindi quello in cui, per via del tempo libero a disposizione, ci si prendeva maggiormente cura di sé; le donne si dedicavano alle cure di bellezza e si lavavano i capelli.

Francesco Sforza, al figlio Galeazzo Maria, che gli annuncia il suo rientro a Milano, scrive di non arrivare di sabato perché non avrebbe trovato nessuno ad accoglierlo “essendo tutte le damigelle impegnate nel lavaggio de’ capelli”. Alla corte sforzesca, non solo le donne amavano tingersi i capelli ma anche gli uomini e non solo per nascondere quelli bianchi. Isabella Gonzaga, che moriva dalla voglia di conoscere il segreto di queste continue trasformazioni, scrive il 23 luglio 1496 una lettera al barone Bonvesino di Milano, chiedendogli di farle sapere se Gian Galeazzo o altri della sua corte, che si tingevano i capelli di nero, avevano il rimedio per “farseli poi ritornare nel suo pristino collore, perché ne ricordamo, quando eravamo a Milano, havere veduto el conte Francesco Sforza uno dì cum li capelli negri et l’altro cum li soi naturali. Trovando questo rimedio, pregamovi che vogliati impararlo; et poi subito scrivernelo perché lo volessimo operare per nui et faresine cosa gratissima”.

Lo studio dei documenti e dell’iconografia ci mostra varie pettinature e copricapo in tutti i secoli. Ma i più curiosi sono sicuramente comparsi nel XV secolo: le teste femminili si adornano di lunghi coni hennin, costituiti probabilmente da tela inamidata, rivestiti di tessuti preziosi e con lunghezze variabili dai 60 ai 90 cm. Su tutta la parte posteriore e spesso sul viso ricadeva un velo trasparente; a queste fogge piuttosto alte si uniscono spesso lini o garze inamidati, sostenuti da supporti metallici a guisa di ali che rendevano l’hennin ancora più voluminoso; Giovenale degli Orsini sostiene, riguardo ai copricapo in uso sotto il regno di Carlo VI, ingranditi oltre misura che le dame avevano “da ciascuna parte due grandi orecchie sì larghe, aggiunte alla cuffia che quando esse volevano passare per l’uscio di una stanza, bisognava che vi passassero di fianco girando il loro corpo, se non volevano esporsi al rischio certo di scomporre la loro acconciatura”.

Altro copricapo alquanto curioso è la Sella; una legge fiorentina emanata nel 1456 vietava l’uso di “cappucci, cappelletti, né corna, né selle alla fiamminga e alla francese in alcun modo che volgarmente si dice alla di là”.

Prettamente italiano era invece il Balzo, copricapo che troviamo nominato già nel XIV secolo, diffuso fino alla metà del ‘400, per lo più nell’area settentrionale; di forma tondeggiante, era formato da tessuti pregiati avvolti su di un’intelaiatura rigida, presumibilmente di cuoio o di tela inamidata e filo metallico. Veniva posato leggermente all’indietro, considerando quello che l’iconografia ci mostra a riguardo è un mistero come facesse a non cadere ma con ogni probabilità veniva trattenuto da una striscia che passava sotto il mento.

Affini al balzo erano le ghirlande di penne di pavone, di perle e penne, di velluto, guarnite di frange d’oro, fiori smaltati e foglie dorate. Frequenti le ghirlande d’oro e di pietre preziose che però non soppiantano del tutto la grazia delle ghirlande di fiori freschi, soprattutto per le fanciulle. Civettuole ed eleganti sono le reticelle d’oro, che raccolgono i capelli sulla nuca e si completano con la Lenza, un sottile cordone colorato o nero, a volte decorato con un piccolo gioiello sulla fronte.
Nel corredo di Bianca Maria Sforza si nominano “sei lenze d’oro e d’argento intrecciate di seta cremesina nera o morella”.

Il Vespaio è invece un vezzo di perle che serra i capelli girando dietro alla nuca: era formato da vari ordini di perle, disposti regolarmente, tanto da far rassomigliare la superficie ad un nido di vespe.

CappelliLe cuffie incorniciano il viso, scendendo con due lembi sulle guance e sono di lino bianco. Nel corredo di Nannina de Medici troviamo: “28 cuffie di pannolino lavorato e una di seta ricamata d’ariento e perle”.

A volte, sulla cuffia veniva indossato un veletto che scendeva ai lati del volto sin sulle spalle. Di uso più popolare è l’asciugatoio: veniva posato sul capo, piegato o disteso, fermato sui capelli con spilli, ricadente sulle spalle e sul collo, o più semplicemente veniva arrotolato come un turbante intorno alla nuca.
Dal balzo derivò la pettinatura diffusa nel Quattrocento, caratteristica per il suo sviluppo in altezza, nella quale i capelli venivano tirati e tenuti fermi da reticelle sopra un’anima di cartone a forma di pan di zucchero, alta fino a 70 centimetri.

Nell’impero romano d’Oriente si sviluppa invece, a partire dal IV secolo, una scuola medica che si occupa lungamente di rimedi contro la calvizie.
Oribasio di Pergamo in un suo libro descrive un miscuglio per la restaurazione dei capelli perduti: cera di candela, catrame e colla (lithocolla) venivano miscelati con una cannula metallica (mylotis), la cui estremità era fortemente riscaldata e con la quale si prelevava una piccola quantità di composto ancora morbido per riattaccare i capelli.

Per la caduta progressiva, lo stesso medico bizantino raccomandava molte preparazioni, per la maggior parte contenenti un’erba chiamata “adiantum” o “polytrichon”. Un’altra preparazione conteneva ladano (una resina aromatica del cisto cretese, già conosciuta da Teofrasto e ingrediente necessario della mirra fino ai nostri giorni), vino, olio di mirto e capelvenere. Altre preparazioni contenevano aloe, con vino rosso forte, o mirra e ladano nel vino, e olio di mirto; un’altra utilizzava escrementi di capra arrostiti in olio in un guscio di conchiglia. Gli impacchi venivano applicati dopo aver rasato la pelle. L’autore suggerisce inoltre una varietà di preparazioni contenenti diverse sostanze vegetali e animali, tipo nocciole, olio delle lucerne, aceto, miele, pepe, escrementi secchi di pecora e topi, elleboro bianco, erisimo, rucola, bile di toro o di capra, grasso di orso, canne e simili.

La-bottega-dello-speziale-800x456Alessandro di Tralles credeva che le cause della caduta dei capelli fossero numerose (mancanza di sostanze nutritive dei capelli, troppi o pochi pori): suggeriva bagni e uno speciale regime dietetico, con proibizione del sale e cibo grasso, eccesso di vino o sesso. Inoltre prescriveva impacchi di varie erbe simili a quelle prescritte da Oribasio.

Per Paolo di Egina la calvizie nasceva dall’assenza di liquidi, esattamente come accade per le piante che seccano per mancanza di acqua e l’alopecia (un termine derivante da alopex, che in greco significa volpe, perché tali animali soffrono spesso di questa problema) dovute all’alterazione degli umori.

Per infoltire i capelli, specialmente in caso di calvizie, Paolo cita un medicamento dall’opera di Critone: il rimedio conteneva stomaco essiccato di lepre e di varie erbe (foglie apicali di mirto, rovo, capelvenere e acacia) tutto finemente spezzettato e filtrato, con aggiunta di grasso di orso o di foca. La mistura era conservata in contenitori di piombo e usata per impacchi. Per evitare la perdita dei capelli, erano consigliati impacchi di capelvenere, ladano, vino e olio di mirto o fiori di anemone pestati in olio di oliva, preparazione che nello stesso tempo scuriva i capelli. Un altro impacco era composto da erba colombaia completa di radici: essiccata, triturata, setacciata e mischiata con olio di oliva.

Questa mistura, densa e vischiosa, era tenuta in contenitori di rame finché non diventava omogenea ed era pronta per l’uso.
Teofane Crisobalante, medico del dotto imperatore Costantino VII Porfirogeneto, inizia il suo libro “Epitome” con un capitolo intitolato “Sulla caduta dei capelli”. Egli segue le ricette dei medici Oribasio, Ezio e Alessandro, ma cita anche una preparazione dell’antico medico Archigene che consisteva di ladano e menta in uguale quantità. Un altro medicamento, cutilizzato come lozione sulla testa, era preparato con dieci mele dell’albero di Giove, avvolte in panni e annaffiate di olio d’oliva per 5 giorni. L’autore conferma che i capelli cessavano di cadere e la forfora scompariva.

spezialePer infoltire e nello stesso tempo scurire i capelli, Paolo di Egina prescriveva di mettere in un contenitore di vetro capelvenere, ruta di Alessandria, mirto, erba sabina, zucchine secche e ladano, e spruzzare con acqua piovana per 20 giorni. La mistura era mescolata due volte al giorno con una spatola di legno. Per le applicazioni il pettine veniva immerso nel succo e i capelli, trattati ogni giorno, ne risultavano nutriti e scuriti. Lo stesso autore fa riferimento a sostanze per rendere i capelli più belli. Tra varie soluzioni, suggerisce una mistura di foglie di fico, corteccia di vite bianca selvatica, pietra pomice, gesso e gusci di conchiglia, il tutto messo in forno in una pentola sigillata con la creta. Il contenuto veniva poi sbriciolato con aggiunta di schiuma di nitrato di sodio e sciolto con succo d’acini d’uva acerba.

Alessandro di Tralles raccomandava un composto per scurire i capelli fatto di acacia, bacche di cipresso, allume, “fiori di rame” e limatura di ferro in uguali quantità cosparsa per un giorno con urina di ragazzo. La mistura era utilizzata come impacco sulla testa per 3 giorni: l’autore confermava ai suoi lettori di averla usato con successo.

Un’altra preparazione, “che il Re Seleuco utilizzava, era preparata mettendo in un contenitore di piombo limatura di piombo in vino molto invecchiato”, poi annaffiato con acqua per 15 giorni. I capelli venivano trattati con olio di prima qualità, quindi massaggiati con un po’ di questo preparato. Alessandro suggeriva inoltre impacchi di pigne di cipresso arrostite da tenersi sul capo un giorno e una notte: al risveglio i capelli andavano lavati con acqua fredda.

Per tingere i capelli di biondo e di rosso, suggeriva molti preparati, tra cui mirra e fiore di sale marino mescolati fino ad ottenere una consistenza collosa; il composto era applicato in testa per un giorno e una notte, dopo di che i capelli venivano lavati.

Per tingere i capelli biondo dorato, Alessandro usava una miscela di allume, sandracca, zafferano e firrastrina. Proponeva poi una mistura per rendere i capelli grigi o bianchi: semi di verbasco, allume e scorza di rafano finemente tagliuzzata, mescolata con taurocolla (collante ricavato dalla pelle del toro). Alessandro osservava che “molte grandi personalità desiderano tingere i capelli non solo di bruno ma anche di rosso e biondo, o bianco e talvolta ci obbligano (i medici) a fornire la tintura: per tali motivi è necessario rendere noti questi metodi a coloro che vogliono imparare”.

Il secondo capitolo del libro di Teofane, infine, è intitolato “Sostanze nere per capelli”. E alle tante sostanze già suggerite, aggiungeva un impacco di radici di cappero in latte di donna o di asina. Insieme a una raccomandazione: andava applicato rigorosamente durante la notte.

A.C.

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