La nascita di Dante

da

“Il poeta più conosciuto è il più grande degli sconosciuti”. Il paradosso di Indro Montanelli appare calzante ancora oggi.

Il volto di Dante Alighieri nel monumento in Piazza Santa Croce a Firenze (Enrico Pazzi, 1865)

Della vita privata di Dante sappiamo ancora poco. A partire dal cognome. I codici registrano ben 19 varianti: Alegheri, Alegeri, Aleghieri, Alleghieri, Allaghieri, Allighieri, Allageri, Allagheri, Allegheri, Allegeri, Alageri, Alagheri, Alaghieri, Aldigherri, Aldighieri, Adeghieri, Aligeri, Aligheri e Alighieri.

Qual è quella giusta? Per comodità e consuetudine, si è adottata la forma “Alighieri” caldeggiata dal Boccaccio. Anche se Jacopo, il figlio del poeta, in vita si firmò Alagherii o de Alagheriis.

L’AERE TOSCO I’ fui nato e cresciuto/ sovra ‘l bel fiume d’Arno a la gran villa… Così Dante si presenta nel XXIII canto dell’Inferno (v. 94-95). E nella Commedia (Paradiso, XXII, 112-117) ricorda che venne alla luce quando il sole si trovava nella costellazione dei Gemelli:




n quant’io vidi ‘l segno
che segue il Tauro e fui dentro da esso.
O gloriose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,

con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
quand’io senti’ di prima l’aere tosco

Beatrice in un’opera di Marie Spartali Stillman (1895)

Che anno era? Una attenta rilettura dei passi danteschi relativa alla nascita di quella Commedia che poi sarà chiamata Divina, ci porta a credere che fosse il 1265. L’immaginario viaggio nell’oltretomba è ambientato nel 1300, l’anno del primo Giubileo, voluto da papa Bonifacio VIII. Se Dante era allora “nel mezzo del cammin di nostra vita”, avrebbe quindi dovuto avere 35 anni, considerando che la vita media ideale era di circa 70 anni.

Gli altri indizi a favore del 1265 ce li fornisce il poeta stesso quando parla di Beatrice. Finalmente la rivede, nel Purgatorio (canto XXXII). E placa la sua decenne sete di lei. L’amata era morta dieci anni prima, nel 1290, a circa 24 anni. Dalla Vita Nuova, sappiamo che Beatrice sarebbe nata nel 1266 e che aveva dieci mesi meno di Dante.

Nel 1265 la costellazione dei Gemelli, il bel nido di Leda (Paradiso, XXVII, 98) splendeva fra il 14 maggio e il 15 giugno. Dante nacque in maggio. Pietro Giardini, un notaio ravennate che fu vicino al poeta negli ultimi anni della sua vita, lo raccontò a Boccaccio: davanti a lui, sul letto di morte, Dante che aveva “trapassato il cinquantesimosesto” contò gli anni e i giorni della sua vita proprio a partire da un mese di maggio.

“NEL MIO BEL SAN GIOVANNI” La casa degli Alighieri era nel sestiere fiorentino di San Pier Maggiore, in una piazza dietro la chiesa di S. Martino del Vescovo, di fronte alla Torre della Castagna. Vicino alla chiesa della Badia e al Palazzo del Podestà, a metà strada tra il Duomo e l’attuale e famosa piazza della Signoria.

Nel sestiere abitavano famiglie influenti come i Cerchi o i Donati o i Portinari, casato d’origine di Beatrice. Aristocratici e popolani vivevano gomito a gomito. I clan rivali rafforzavano di continuo le loro case fortificate e munite di torri. Guelfi contro Ghibellini. Guelfi Neri (i Donati) di antica nobiltà contro Guelfi Bianchi (i Cerchi) partiti dal niente e diventati ricchissimi.

Il Battistero di San Giovanni a Firenze, consacrato nel 1059

Dante fu battezzato il 26 marzo 1266 “nel mio bel San Giovanni” (Inferno, XIX, 17): il Battistero, il tempio cittadino per antonomasia, il luogo sacro della Firenze medievale, dove il Comune conservava i trofei di guerra e custodiva il carroccio. A quel tempo, non c’erano ancora né Santa Maria Novella né Santa Maria del Fiore. Il campanile di Giotto non era ancora stato costruito. Nemmeno la cupola di Brunelleschi e nessuno dei grandi palazzi che poi edificarono i Medici.

Il Battistero era il più grande e importante edificio della città. Quel 26 marzo, come ogni anno, si rinnovava l’antica tradizione di battezzare insieme tutti i bambini nati nel corso dell’ultimo anno. Una cerimonia alla quale partecipava l’intera città. Era passato appena un mese dalla battaglia di Benevento che vide la sconfitta e la morte di Manfredi, figlio naturale di Federico II, erede degli Hohenstaufen e ultimo sovrano del regno di Sicilia. Con la fine del partito ghibellino, anche a Firenze i Guelfi sognavano di ripristinare un governo popolare. E si preparavano a rientrare in città anche alcuni esuli della famiglia degli Alighieri, espulsi poco tempo prima.

IL DESTINO NEL NOME Lo chiamarono Durante. Come il nonno, il padre di sua madre Bella, il giudice fiorentino Durante degli Abati. Ma lui, per tutta la vita, volle essere chiamato Dante. Fu chiamato Dante. E Dante si firmò, in tutti i documenti, sia pubblici che privati.

Del resto, di Durante non c’è traccia in nessun documento che riguardi Dante in vita: né nei verbali che riguardano le sue testimonianze né nelle sentenze che lo condannarono al doloroso esilio da Firenze.

Durante compare una sola volta, il 9 gennaio 1343, ventidue anni dopo la morte del poeta, in un atto sottoscritto dal figlio Jacopo Alighieri, primo commentatore della Commedia.
È ripetuto addirittura due volte, forse per dare maggiore forza e regolarità al certificato amministrativo: “Cum Durante, ol. vocatus Dante, cd. Alagherii de Florentia, fuerit condempnatus et exbanitus per d. Cantem de Gabriellibus de Egubio“. “Quando Durante, già chiamato Dante, del fu Alighiero di Firenze, fu condannato e bandito dal signor Cante Gabrielli da Gubbio”.

Tradizione voleva ai nuovi nati venisse imposto il nome del casato paterno. È singolare che nel caso di Dante fosse invece stato scelto il nome del padre della madre Gabriella, detta Bella.
Lo storico Filippo Villani ci spiega che locutionis florentine, alla maniera fiorentina, il poeta fu chiamato con syncopato nomine.

Un diminutivo. Ma per Dante, non fu certo una diminutio: il poeta portava il suo nome con orgoglio. Come scrisse nelle Rime (94, XCIII) nel capoverso di una risposta :

Io Dante a tte, che mm’hai cosi chiamato

oppure nella sua Commedia:

Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora

(Purgatorio, XXX, 55-56).

Nei capoversi dei sonetti inviati dai poeti e dagli amici il rimando è continuo: Dante Alleghier, Cecco, tu’ servo amico (Cecco Angiolieri), Dante, i’ non odo in quale albergo soni (Cino da Pistoia) o anche Dante, un sospiro messagger del core (Guido Cavalcanti).

Nel Medioevo c’era la convinzione diffusa che il nome celasse anche il destino di chi lo portava. Dante, che per tutta la vita sentì di essere un predestinato, sarebbe senz’altro stato d’accordo con la interpretazione che del suo nome fece Boccaccio nell’Accessus delle Esposizioni (38-41): Dante è colui che dà, che dona, che attraverso le sue opere ha lasciato sapienza e bellezza, virtute e canoscenza.

IL MITICO CACCIAGUIDA Il capostipite degli Alighieri era Cacciaguida, vissuto nel XII secolo. Dante farà partire proprio da lui la storia nota della sua famiglia. Nacque tra il 1091 o 1101 e morì intorno al 1148. Secondo Dante, ansioso di nobilitare le sue origini familiari, fu ordinato cavaliere da un non meglio identificato imperador Currado. Il trisavolo, personaggio centrale della Divina Commedia, cadde in battaglia in Terrasanta durante la seconda crociata.

Giovanni di Paolo, Dante e Cacciaguida, miniatura, anni ’40 del XV secolo

Nel poema di Dante è tra i combattenti, nel cielo di Marte. Racconta la storia della sua famiglia. Parla di una Firenze ormai scomparsa

dentro da la cerchia antica, ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.

(Paradiso. XV, 97-99).

Ricorda che

ne l’antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida

(Paradiso XV,134-135).

E aggiunge:

Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo.

(Paradiso XV, 136-138).

Da quella moglie, una ragazza della Val Padana arrivò il nome della famiglia. Gli Alighieri non erano ricchi. E nemmeno con grandi ascendenze nobiliari. Il poeta lo ricorda con orgoglio, per bocca dell’avo, nel canto successivo:

O poca nostra nobiltà di sangue,
se gloriar di te la gente fai
qua giù dove l’affetto nostro langue,

mirabil cosa non mi sarà mai:
ché là dove appetito non si torce,
dico nel cielo, io me ne gloriai.

(Paradiso, XVI 1-6).

La nobiltà, del resto, è però un mantello che si accorcia presto, poiché il tempo di giorno in giorno lo taglia:

Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non s’appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.

(Paradiso XVI, 7-9).

La Firenze di Cacciaguida era ben lontana dalla città duecentesca, quella de La gente nova e i sùbiti guadagni(Inferno XVI, 73). Il trisavolo rivendica con orgoglio le sue origini:

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annual gioco.

Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.

(Paradiso XVI, 34-45)

LA DINASTIA DI BELLINCIONE Da Cacciaguida nacquero Preitenitto e Aldighiero, che i fiorentini chiamarono anche Aldaghiero e poi Alighiero.
Il bisnonno di Dante ebbe a sua volta due figli: Bello e Bellincione.

Dal primo nacque un altro ramo della famiglia, quello Del Bello, esponenti del partito guelfo, espulsi da Firenze dopo la battaglia di Montaperti del 4 settembre 1260, combattuta tra i Guelfi di Firenze e i Ghibellini senesi affiancati dai cavalieri inviati da Manfredi di Svevia e dagli esuli ghibellini capeggiati da Farinata degli Uberti: Lo strazio e ’l grande scempio/ che fece l’Arbia colorata in rosso (Inferno X, 85-86).

Il museo Casa di Dante (Via Santa Margherita 1, Firenze)

Bello, primogenito di Alighiero, fu insignito del titolo di cavaliere. Uno dei suoi figli, Geri, ch’io vidi lui a piè del ponticello/ mostrarti, e minacciar forte col dito, e udi’ ‘l nominar Geri del Bello (Inferno XXIX, 25-27), è il primo membro della propria famiglia che Dante incontra nel suo viaggio ultraterreno. Era il cugino del padre del poeta. Dante lo sistema nell’Inferno, fra i seminatori di discordia. Accusato di rissa e percosse in un processo a Prato, fu assassinato da Brodaio dei Sacchetti.

L’altro figlio di Alighiero, il nonno di Dante, si chiamava Bellincione. Di professione faceva il cambiatore: un piccolo prestatore di denaro, in stretti rapporti d’affari con la nobiltà fiorentina. Conosciuto e stimato a Firenze ma non autorevole quanto Bello, il fratello maggiore.
Bellincione per due volte e per sette anni complessivi, conobbe la via dell’esilio. Lo ricorda con sarcasmo a Dante nel decimo canto dell’Inferno l’orgoglioso ghibellino di Firenze Farinata degli Uberti, confinato tra gli eretici, nel sesto cerchio dell’orrenda cavità:

mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;

poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi».

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte».

(Inferno, X, 42-51).

L’INNOMINATO ALIGHIERO Bellincione era ancora vivo nel 1269, quando fu redatto l’estimo dei danni ricevuti dai Guelfi durante la supremazia ghibellina. Ebbe sei figli maschi. Di quattro conosciamo il nome: Brunetto, Gherardo, Bello e il primogenito Alighiero, chiamato come il nonno e padre del grande poeta.

Dante Alighieri, Sandro Botticelli, 1495, Ginevra, collezione privata

Dante che pure parlò di tutti, non citò mai il padre in nessuna delle sue opere, come fece del resto con la moglie Gemma.

Una labile traccia di Alighiero appare in un documento del 1257 dal quale risulta che prestò 20 lire e 8 soldi a una certa Bencisia, moglie di un tal Ristori de Montemurlo. E poco altro.

Come suo padre Bellincione, Alighiero visse di operazioni finanziarie, prestiti, compravendita di case e terreni e forse anche di usura.
Tanto che il verseggiatore Forese Donati, nella Tenzone poetica che scambiò con Dante (sei sonetti ingiuriosi, tre per parte) ne parlò quasi come un malfattore:

Ben so che fosti figliuol d’Allaghieri,
e acorgomene pur a la vendetta
che facesti di lu’ sì bella e netta
de l’aguglin ched e’ cambiò l’altr’ieri.

I due poeti si rispondevano “per le rime”, a volte in modo crudele, con insulti e pesanti allusioni alla loro vita privata e ai loro familiari più stretti.

Anche Dante dileggiava Forese: lo accusava di ghiottoneria e di trascurare la moglie Nella. E anche di essere un ladro come molti membri della sua famiglia. Ma l’intento, feroce e gioioso allo stesso tempo, era solo letterario.

Forese era amico di Dante. Divenne anche suo parente acquisito dopo il matrimonio del poeta con Gemma Donati. Era il fratello minore di Corso Donati, feroce capo dei Guelfi Neri e di Piccarda Donati, La mia sorella, che tra bella e buona / non so qual fosse più (Purgatorio XXIV, 10 ), giovanissima monaca delle clarisse, costretta da Corso ad abbandonare il convento per sposare Rossellino della Tosa, facinoroso rappresentante del partito dei Guelfi Neri: fuor mi rapiron de la dolce chiostra: / Iddio si sa qual poi mia vita fusi (Paradiso III, 107-108).

IL RICORDO DI BELLA Quando Dante venne al mondo, Alighiero era già anziano. Era nato intorno al 1220 e forse morì poco dopo il 1275. Sposò Bella, figlia del giudice Durante degli Abati, che risiedeva nello stesso sestiere di San Pier Maggiore. Una famiglia potente. Ma soprattutto ricca. Segno anche del prestigio sociale all’epoca raggiunto all’epoca da Bellincione che voleva un buon partito per il suo primogenito.

Gli Abati, al contrario degli Alighieri, erano seguaci del partito ghibellino. Ma i matrimoni tra famiglie nemiche, soprattutto quelle di non primissimo piano, erano frequenti e servivano anche a stemperare i conflitti permanenti di partito che animavano la vita cittadina. Alighiero non era di sicuro un uomo colto ma seppe assicurare una certa tranquillità economica alla sua famiglia.

Bella morì giovane, per cause sconosciute tra il 1270 e il 1273. Lasciò Dante e un’altra figlia, della quale non conosciamo il nome, che andò in moglie a Leone Poggi, banditore del Comune di Firenze. Una sorella di sangue alla quale Dante fu di certo legato da un amore profondo: è lei la donna giovane e gentile… di propinquissima sanguinitade congiunta a cui allude nella Vita Nuova, (XXIII, 11-12).

Nelle rappresentazioni letterarie non erano ammessi i ricordi dell’intimità familiare. Dante non fa eccezione alla regola: di sua madre scrive solo una volta, in modo commosso, quando fa dire a Virgilio: benedetta colei che ‘n te s’incinse! (Inferno. VIII 45). Una citazione del Vangelo di Luca (11,27) forse più diretta alla sua gloria futura di poeta che al ricordo della mamma. Ma indizio, comunque, del peso di una assenza che segnò la sua vita.

LAPA E LA NUOVA FAMIGLIA Alighiero, vedovo e con due bambini in casa, si risposò presto con Lapa, erede di Chiarissimo Cialuffi, un mercante di certo agiato ma non di una famiglia importante, dalla quale ebbe altri due figli: Francesco, e Tana (Gaetana) detta Trotta, che andò in sposa a Lapo Riccomanni, un piccolo banchiere fiorentino. Della sorellastra Dante ricorderà le cure amorevoli che ricevette durante una malattia giovanile. Francesco fu vicino al fratello per tutta la vita: lo soccorse a più riprese, coprendo i suoi debiti, fino a rimanere creditore di 1098 fiorini che Dante mai gli rimborsò. Condusse una vita ritirata e modesta. Sposò Piera Caleffi, di famiglia ghibellina e andò a vivere in campagna in una casetta a San Pietro a Ripoli. Non s’immischiò nella politica se non per aiutare il suo geniale fratello.

Dante, Luca Signorelli 1499-1502, particolare delle Storie degli ultimi giorni, cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto

Alighiero lasciò orfani i suoi quattro figli tra il 1275 e il 1281: una data incerta come tante altre notizie sulla vita del giovane Dante. I figli ebbero in eredità due poderi, a Camerata e a San Miniato a Pagnolle e due piccoli terreni nel popolo di Sant’Ambrogio.

Non certo grandi ricchezze. Ma Dante riuscì a studiare forse anche grazie a qualche lascito del nonno Bellincione. Come era d’uso all’epoca, per i primi studi fu affidato a un doctor puerorum che si chiamava Romano e che aveva una scuola nel “popolo di San Martino” vicino alle case degli Alighieri.

Il piccolo Dante iniziò ad apprendere la scrittura volgare per poi passare allo studio del latino, la lingua della scienza della quale parla nel Convivio (1, 13, 5): questo mio volgare fu introduttore di me nella via di scienza, che è ultima perfezione [nostra], in quanto con esso io entrai nello latino e con esso mi fu mostrato: lo quale latino poi mi fu via a più inanzi andare.

Due avvenimenti in questi primi anni giovanili daranno una svolta alla sua vita: l’incontro con Beatrice avvenuto nel maggio del 1274 e narrato nella Vita Nova quando il poeta aveva 9 anni. E tre anni dopo, il 9 febbraio 1277, il precoce contratto di matrimonio, stipulato secondo l’uso del tempo, con Gemma di Manetto Donati, appartenente a un ramo minore della potente famiglia fiorentina di Corso e Forese Donati.

Il matrimonio fu perfezionato solo in seguito, nel 1285. Ma già due anni prima delle nozze, a nove anni dal primo fatale incontro, Dante dirà al mondo e a se stesso che la gloriosa donna della sua mente (Vita Nova, 11,1) è Bice, la figlia del ricco e nobile cittadino Folco Portinari. Beatrice nel 1287 andò in sposa a Simone de’ Bardi ma nella vita del poeta rimase baldanza d’Amore a segnoreggiare (Vita Nova, 11,9).

“IL BELLO OVILE” In questa Firenze, dinamica e rissosa, pronta al balzo economico degli anni successivi, animata dai perenni cantieri e segnata dalle lotte di partito, Dante visse i primi 36 anni della sua vita.

Poi verranno i giorni delle accuse infamanti e della spietata sentenza emessa il 10 marzo 1302 dal podestà Cante Gabrielli: “Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”.

Nella povertà di una lunga e dolorosa lontananza dalla patria, Dante sentirà come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale (Paradiso, 58-60).

Lontano da Firenze nascerà la Divina Commedia, una prodigiosa opera letteraria, la prima scritta in una lingua europea moderna, sintesi straordinaria della realtà storica e della cultura medievale.

Cosciente di sé e del suo valore, quasi alla fine del suo Paradiso, Dante sognerà l’impossibile: mitigare con la gloria del suo capolavoro i cuori “crudeli” dei fiorentini. E rivedere il luogo più simbolico della città della sua infanzia: quel “bel San Giovanni ”, il Battistero dedicato al patrono:

bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;

con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;

(Paradiso, XXV, 5-12).

Federico Fioravanti

Bibliografia essenziale:
Dante Commedia, I Meridiani, Mondadori.
Dante Vita Nuova, Rime (a cura di Donato Pirovano e Marco Grimaldi), Salerno editrice.
Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, Garzanti, 2007.
Enciclopedia Dantesca, Istituto dell’Enciclopedia Italiana.
Marco Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, 2012.
Guglielmo Gorni, Dante. Storia di un visionario, Laterza 2008
Enrico Malato, Dante, Salerno editrice, 2017.
Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, Laterza, 2001.
Indro Montanelli, Dante e il suo secolo, Rizzoli, 1974.
Cesare Marchi, Dante, Rcs, 2005.

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