La Festa della Porchetta a Bologna

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Un libro di Lorena Bianconi, “Alle origini della Festa bolognese della Porchetta. Ovvero, S. Bartolomeo e il cambio di stagione” (Bologna, Clueb, 2005) si interroga sulle radici della antica e singolare tradizione che per più di cinque secoli, dalla metà del Duecento al 1796, caratterizzò la fine delle estati bolognesi.


Dalla metà del XIII secolo fino al 1796 a Bologna il 24 di agosto di ogni anno ebbe luogo la Festa della Porchetta, tradizione antica e assai singolare che per più di cinque secoli caratterizzò la fine delle estati bolognesi.

Generalmente, la mattina del 24 agosto era dedicata alle funzioni religiose che avevano luogo nella chiesa di San Bartolomeo, alle quali presenziavano le più alte cariche del governo bolognese. Verso l’ora di pranzo, gli Anziani Consoli facevano portare solennemente dallo Scalco una porchetta arrostita in dono al Legato o Vicelegato, dopodiché, verso le quattro del pomeriggio, tutti insieme si recavano ad assistere alla festa che aveva luogo in Piazza Maggiore. Lì venivano allestite rappresentazioni teatrali, scene di caccia, favole in musica e giochi di equilibrismo a cui prendevano parte anche attori e musici provenienti dall’estero.

Il momento clou della festa arrivava però verso sera, quando dal balcone del palazzo comunale, lo Scalco degli Anziani mostrava solennemente al pubblico una grossa porchetta arrostita e dopo averne trinciato le carni, la gettava di sotto, accompagnato da un concerto di “musici e trombetti” e dai nobili che dai balconi e dalle finestre circostanti elargivano volatili e cacciagione, monete d’oro e d’argento, dando inizio alla così detta Colta.

Tutto ciò dava origine a zuffe e risse tra i presenti, che poco dopo erano interrotte da uno scroscio di brodo che, sempre dalla Renghiera, veniva versato sulle teste dei contendenti. Infine, l’incendio di una girandola o di fuochi artificiali concludeva i festeggiamenti a tarda notte.

Le fonti sono concordi nell’assumere quale forma più antica della festa la corsa di un palio, le cui prime tracce documentarie risalgono al XIII secolo. Fra i premi figuravano un cavallo, uno sparviere, due guanti (dal 1357 anche due cani) per il vincitore; per il secondo classificato una porchetta arrostita.

Bologna, allestimento per una festa della porchetta, 1722. Fondo Brighetti, Collezioni Fondazione CaRisBo

Attualmente non è possibile affermare con certezza quali potessero essere le origini del palio. Tra le numerose ipotesi che sono state fatte, fra le più citate vi è una leggenda che ha per protagoniste le famiglie Geremei e Lambertazzi. che, a Bologna, sostenevano rispettivamente la fazione guelfa e ghibellina. Secondo tale versione, nell’anno 1281 i Lambertazzi, cacciati da Bologna, si rifugiarono a Faenza e lì commisero il furto di un maiale a danno di un gentiluomo faentino, Tebaldello Zambrasi. Questi per vendicarsi, dopo aver consegnato la chiave di una delle porte della città di Faenza ai Geremei si, si finse pazzo e con continui schiamazzi e colpi alle porte del palazzo dei Lambertazzi, li indusse a non far più caso a eventuali rumori notturni. I Geremei furono quindi liberi di entrare in città e fare scempio della famiglia nemica. Da allora, il 24 di agosto, giorno della strage, a ricordo della vittoria dei Geremei sarebbe stata celebrata la festa della Porchetta.

Questa ipotesi però non è mai stata confermata dalle fonti storiche, anzi già da tempo è stata messa da parte dagli studiosi, data l’esistenza di documenti che attestano l’esistenza della festa anche in anni precedenti il 1281.
Fra le ipotesi che sono state formulate, quella secondo cui la festa della Porchetta sarebbe nata in ricordo dell’entrata a Bologna di re Enzo, figlio dell’Imperatore Federico II, fatto prigioniero a Fossalta il 26 maggio 1249, sembra invece essere la più accreditata.

Incrociando alcuni dati riportati dalla cronaca cinquecentesca di Cherubino Ghirardacci Della Historia di Bologna con quelli registrati su Statuti e registri di spese relativi al secolo XIII, è possibile ricostruire una sorta di “rappresentazione parodica” che si svolgeva prima o dopo la corsa del Palio di San Bartolomeo, che ne caratterizzò le prime edizioni e che sembra ricondurre proprio all’entrata di Re Enzo a Bologna.

Il Ghirardacci racconta che prima o dopo la corsa del palio, solitamente aveva luogo anche una strana cerimonia, che aveva per protagonista il Cuoco di Palazzo. Questo cerimoniale prevedeva che la porchetta data in premio al secondo classificato

prima che fusse cotta, entro lo spiedo si portasse in mostra per strà Maggiore fino alla porta dal cuoco a cavallo, il quale anco nella sinistra mano portasse il detto sparviero; e ritornando a dietro per la medesima strada, entrasse a cuocerla dentro il palazzo

Il cuoco di Palazzo doveva quindi percorrere a cavallo la strada ove si sarebbe svolta la corsa, reggendo uno sparviero con la mano destra, e una porchetta infilata in uno spiedo con la sinistra.

Si potrebbe supporre che questa cerimonia avesse in origine la funzione di mostrare al pubblico i premi della corsa, essendo cavallo, sparviere e porchetta esattamente i premi in palio, ma ciò non spiega per quale motivo la presentazione dei premi della corsa fosse affidata proprio al cuoco di Palazzo e non ad un grande e famoso cavaliere, oppure ad una delle autorità cittadine, per esempio. La figura del cuoco, pur ammettendo che potesse brillare della luce emanata da coloro che sia avvalevano dei suoi servigi (essendo Cuoco di Palazzo, sovrintendeva alla mensa delle più alte cariche cittadine), pare forse la meno adatta a portare in mostra i premi di una gara equestre. Inoltre, il cavallo citato fra i premi del Palio non era un purosangue di grande valore bensì un “ronzino”, ovvero “equino di razza poco nobile, di piccola stazza, mansueto, piuttosto malandato, usato in genere dai servitori”. Particolare che lascia un po’ perplessi, se si considera che questo doveva essere il premio per il vincitore di una corsa.

Quale senso poteva avere lo svolgimento di una simile rappresentazione, nell’ambito del Palio di San Bartolomeo? Per quale motivo introdurre fra i premi di una corsa di cavalli proprio un ronzino, uno sparviere, e una porchetta, che dovevano essere portati in mostra dal cuoco?

Il lancio della porchetta alla folla in piazza. Immagine tratta dalla copertina del libro di Giulio Cesare Croce, La vera historia della piacevoliss. festa della porchetta

Un altro passo della cronaca del Ghirardacci può venirci in aiuto nell’interpretare questa singolare apparizione. Egli scrive infatti che in aggiunta ai premi sopracitati vi era anche

due cani bracchi e un carniero e baracagna o bastone attaccato all’arcione, si come si costumano i gentiluomini quando vanno a caccia con lo sparviero in pugno

Oltre lo sparviere, il cavallo e i due cani, il Ghirardacci indica quindi fra i premi anche un carniero e baracagna o bastone attaccato all’arcione, che, così come precisa egli stesso poco dopo, costituivano l’armamentario classico dei gentiluomini quando cacciavano con lo sparviere. Si potrebbe pensare che la totalità stessa dei premi costituisse un’attrezzatura da caccia, composta da un cavallo, uno sparviere, carniere e baracagna: in effetti, lo sparviere è un rapace della famiglia dei falconidi, che spesso era usato dai nobili, assieme ai cani, per la caccia agli uccelli.

Un documento del 1288 sembra confermare tutto questo, precisando che lo sparviere fu comprato assieme a due guanti (forse proprio quelli in uso tra i falconieri) e ad un’ attrezzatura (apparatu) la cui funzione non è specificata, che però potrebbe coincidere proprio col carniere e la baracagna descritti nella cronaca del Ghirardacci.

Ora, rileggendo la strana “cerimonia”alla luce di queste informazioni, viene spontaneo pensare che il cuoco al quale era affidata la pubblica mostra dei premi, che doveva percorrere la strada della corsa a cavallo di un ronzino, con in mano una porchetta infilzata, corredato di un’attrezzatura da caccia al completo, rappresentasse in realtà proprio la figura di un cacciatore. Rimane da chiarire il motivo per cui il protagonista di questa sfilata fosse un cuoco e non un autentico, nobile cacciatore.

Michail Bachtin ha introdotto una interessante prospettiva per l’interpretazione dei simboli e delle immagini della società tra Medioevo e Rinascimento. Egli è riuscito infatti a metterne in evidenza un aspetto fondamentale, per molto tempo trascurato dagli studiosi o considerato marginale e di scarsa rilevanza, ossia la componente comico-carnevalesca. Secondo l’autore, non era soltanto la “cultura popolare” ad essere pervasa da questo spirito carnevalesco, bensì tutta la produzione culturale medievale nel suo complesso, compresa quella ufficiale, ecclesiastica, con i suoi dogmatismi e i suoi “terrorismi”… Oggetto di riso dunque erano anche gli elementi della cultura ufficiale, compresi i più sacri ed intoccabili, e altrettanto accadeva alle più alte autorità e ai rappresentanti del Potere, che diventavano oggetto di parodie e ridicolizzazione. Questa trasposizione secondo Bachtin avveniva tramite l’utilizzo e di immagini ed oggetti relativi a quella che egli definisce la sfera del “basso materiale-corporeo” (terra, escrementi, genitali, viscere, flatulenze), tramite l’associazione ad animali “umili” e dalla simbologia connotata in modo fortemente negativo (asino, maiale, ecc.), e tramite il rovesciamento degli status sociali (il servo diventa padrone, il folle diventa re).

Detto questo, nella “cerimonia del cuoco” che caratterizzava la festa del 24 agosto si rilevano due figure che potrebbero essere ricondotte ad un quadro interpretativo come quello bachtiniano: il cuoco di Palazzo (il primo dei servi) e il ronzino, (l’ultimo dei cavalli).
Si potrebbe ipotizzare che la figura del cuoco sia stata introdotta esattamente con un intento comico, parodizzante: per “abbassare”, per mettere in ridicolo un simbolo della cultura o del potere “ufficiali” (il cacciatore), associandolo ad un mestiere di tipo “servile”.
Come è già stato detto, il cuoco protagonista della cerimonia non era un semplice cuoco, bensì sovrintendeva alla mensa delle più alte cariche di governo della città, tuttavia, pur essendo ai vertici della sua categoria, egli faceva sempre parte del personale di servizio.
Allo stesso modo può essere interpretata la scelta di far cavalcare al cacciatore-cuoco un ronzino, che, come si è detto, era un cavallino di razza poco nobile, più simile ad un mulo o a un asinello, docile e mansueto, che solitamente era usato dai servitori.

Quindi, anche in questo elemento, possiamo individuare (seppur indirettamente) rimandi alla condizione di servitù e a occupazioni di basso rango. Il passaggio del Cuoco lungo il percorso della corsa poteva quindi forse essere una cerimonia parodica, atta a suscitare il riso, mettendo in ridicolo un rappresentante dell’Autorità o del Potere o determinati elementi della cultura ufficiale. Ammettendo questa ipotesi, viene da domandarsi a chi fosse diretta questa parodia, se dietro questa figura del cuoco-cacciatore si celasse un’identità precisa.

Re Enzo imprigionato a Bologna (Nuova Cronica di Giovanni Villani), Codice Chigi

Una possibile risposta si può trovare ritornando all’ipotesi della cattura di re Enzo, figlio dell’imperatore Federico II di Svevia quale origine del palio di San Bartolomeo.
Alcuni particolari della vicenda e della vita stessa di re Enzo, potrebbero infatti far pensare che fosse proprio il figlio dell’Imperatore il cacciatore rappresentato nella cerimonia del cuoco. È ormai risaputo che l’imperatore Federico II aveva una grande passione per la falconeria e che attraverso lo studio e assidue osservazioni, aveva elevato quest’arte al rango di scienza, rendendola appannaggio esclusivo dei nobili.

Oltre a scrivere un grande trattato, il De arte venandi cum avibus, l’Imperatore aveva poi iniziato a queste pratiche anche i figli, Manfredi ed Enzo, per cui si suppone dunque che anche il re prigioniero a Bologna fosse un grande falconiere, avvezzo all’addestramento di rapaci per la caccia agli uccelli. Detto questo, come non considerare lo sparviere in mano al cuoco cacciatore come simbolo della casa di Svevia?

Esiste poi una leggenda, che descrive minuziosamente il momento in cui re Enzo, prigioniero dopo la battaglia di Fossalta, venne introdotto trionfalmente a Bologna. Un particolare della narrazione colpisce per l’analogia con la cerimonia del cuoco-cacciatore: si dice infatti che quando il re fu portato in città, fu costretto a percorrere le vie in corteo in sella ad un asino. Ritornando alla teoria di Bachtin, considerando che si trattava del figlio dell’Imperatore Federico II, sconfitto e prigioniero, il gesto di costringerlo a cavalcare un asinello in corteo potrebbe essere facilmente interpretato quale simbolo della sua detronizzazione e della caduta della sua potestà, esponendo il re alla pubblica umiliazione e derisione.

A questo punto, risulta piuttosto agevole mettere in relazione quella strana figura del cuoco-cacciatore, a cavallo di un ronzino, con lo sparviere in mano, con quella di re Enzo: un re detronizzato, impersonato da un cuoco (simbolo della caduta di status), che però mantiene la sua regalità, essendo il suo ruolo giocato non da un servo qualunque, ma dal primo dei servi, il cuoco di Palazzo; un cacciatore umiliato, perché costretto a cavalcare un ronzino anziché un cavallo di razza nobile, che accanto ad uno dei simboli della casa di Svevia (il falcone-sparviere) pone uno degli animali-simbolo fra i più controversi, spesso associato a qualità negative quali lussuria, sporcizia, o ingordigia: il maiale (la porchetta infilzata nello spiedo).

La cerimonia del cuoco che a cavallo di un ronzino percorreva il tragitto della corsa del Palio con uno sparviere e una porchetta infilzata in uno spiedo, potrebbe quindi essere davvero la rievocazione parodica dell’entrata di re Enzo a Bologna, celebrata annualmente il 24 Agosto, a perenne ricordo della sconfitta autorità imperiale, e della grande vittoria dei bolognesi.

Già verso la fine del ‘700 Ludovico Savioli nei suoi Annali bolognesi ipotizzava un legame diretto tra le origini della festa bolognese della Porchetta e la cattura di re Enzo. Se però si riprendono in esame gli scritti del Savioli, ci si può rendere conto che per il cronista l’esistenza della festa costituiva semplicemente un “indizio del giorno scelto da nostri maggiori per trarre pomposamente in Bologna il re prigioniero”, affermazione che induce a pensare che egli non avesse alcuna certezza in proposito.
Per dare ragione di quanto sopra dichiarato, il Savioli riportò alcuni dati relativi all’aumento di stipendio dei custodi delle carceri di Castelfranco che, a suo avviso, avrebbero dovuto provare la permanenza del re in detto luogo fino al 17 di agosto.

Il palazzo di re Enzo a Bologna

Poi, data la totale assenza di informazioni riguardanti il periodo successivo, egli ammise come plausibile l’ipotesi del soggiorno del re ad Anzola, per arrivare ad indicare (non si capisce come, né perché) il 24 agosto come giorno dell’entrata a Bologna del re prigioniero.

Di fatto, nelle cronache della storia di Bologna, in particolare nel Corpus Chronicorum bononiensium, non esiste alcuna conferma del soggiorno del re a Castelfranco. Anzi, in tutti i testi esaminati, il giorno della cattura e della carcerazione del re a Bologna sembrano coincidere col 26 di maggio, informazione che trova riscontro anche nella cronachistica non bolognese, come gli Annali genovesi e tutta la produzione romagnola.

Si ha quasi l’impressione che il Savioli volesse a tutti i costi dimostrare che l’entrata di re Enzo a Bologna fosse avvenuta il giorno 24 agosto, pur in assenza di qualsiasi testimonianza in proposito. Ma cosa lo spinse ad insistere su questa versione? […] È ormai noto fra gli storici che dal XIII in poi, a Bologna ebbe luogo una sorta di riscrittura della cattura di Re Enzo che trasformò questo avvenimento nel mito fondante dell’identità cittadina e che trovò redazione definitiva nella quattrocentesca cronaca Rampona, la quale afferma che

Li Bolognisi andono a hosto cum gran gente al ponte de Santo Ambroso, et stando lì venne re Emzo […] El dicto re Emzo cum gran moltitudine de cavalieri lo dì de San Bartolomio d’Agosto in la villa de Malavolta appresso Chamalduli fu preso appresso Sam Lazaro da Modena et tucti funo incarceradi a Bologna

La tradizione arrivata fino a noi, che per secoli ha fatto coincidere la nascita della festa del 24 agosto con l’entrata di re Enzo a Bologna potrebbe aver avuto dunque origine proprio da quest’opera di dilatazione e di fantasioso arricchimento della vicenda di re Enzo che ebbe inizio verso la fine del 1400.

Giulio Cesare Croce, La vera historia della piacevoliss. festa della porchetta, che si fa ogn’ anno in Bologna il giorno di S. Bartolomeo, 1599. Biblioteca Archiginnasio Bologna

Dando dunque per scontato che re Enzo fu catturato il 26 di maggio dell’anno 1249 e probabilmente incarcerato a Bologna lo stesso giorno, bisogna escludere che il palio del 24 agosto sia stato istituito proprio in occasione della sua entrata in città. Del resto, nessuno dei documenti del XIII secolo che riguardano la corsa riporta accenni alla vicenda. Negli Statuti e nei Registri di spese relativi al palio, compaiono però continuamente riferimenti ad una festività religiosa, la festa di San Bartolomeo, la cui solennità si festeggia, almeno dal IX secolo, proprio il giorno 24 agosto. Per fare qualche esempio, nella Riformagione del 1254 che Umberto Dallari cita nel suo studio sulla festa bolognese, è scritto che una corsa ebbe luogo il giorno di San Bartolomeo, così come un atto del 1255 testimonia che un cavallo, uno sparviere e una porchetta furono acquistati “in die festi sancti Bartolomei”.
Anche gli statuti del 1262, del 1264 e del 1267 confermano che un palio si correva “in festo beati Bartolomei”, e altrettanto è scritto in un documento del 1288. Si può aggiungere infine che uno statuto del 1335 testimonia l’uso di arrostire una porchetta “in dies festivitatis sancti Bartholomei”.

È quindi possibile pensare che a Bologna, nel XIII secolo, ogni anno si svolgesse una festa religiosa dedicata all’Apostolo Bartolomeo. Ed è possibile che questa festa prevedesse, fra i tanti intrattenimenti, anche la corsa del palio che aveva per premi un ronzino, uno sparviere, due cani e una porchetta. Del resto, nel Medioevo quasi sempre una festa di piazza affiancava le celebrazioni religiose ufficiali, anche le più solenni.

Per quanto riguarda il tradizionale lancio in piazza della porchetta, anche in questo caso non è possibile affermare con esattezza quando e come sia nata quest’usanza. Nei documenti relativi alla festa duecentesca non compare alcun riferimento esplicito ad essa e la porchetta è segnalata soltanto come premio per il secondo classificato nella corsa del palio. Secondo Umberto Dallari, dalle notizie riportate dagli Statuti bolognesi, fino al XVI secolo non emergono discrepanze rispetto a questo.
Dal Cinquecento in poi, accade invece qualche cosa di apparentemente inspiegabile: la porchetta e la Colta cominciano a comparire sempre più spesso nelle fonti, come i segni caratterizzanti, gli elementi più importanti della celebrazione del 24 agosto (tant’è vero che ancora oggi è ricordata come festa bolognese «della porchetta»).

La mancanza di notizie relative al lancio della Porchetta nelle fonti medievali, potrebbe però dipendere dal tipo di testimonianze disponibili per quell’epoca: Statuti, Riformagioni e Registri di spese sono in effetti documenti piuttosto sintetici, che riportano prevalentemente elenchi e dati numerici, per cui possono restituire un’immagine per certi versi frammentaria e soltanto parziale di ciò che poteva essere in realtà la festa in onore di un santo nel medioevo. A titolo di esempio, basti pensare che la Riformagione del 1254 citata dal Dallari, che certifica l’acquisto di una porchetta (oltre i soliti premi per la corsa) in occasione della festa di San Bartolomeo, nulla dice sulla funzione a cui essa era destinata, né sull’organizzazione della festa nel suo complesso.
Questa considerazione potrebbe indurci a formulare la seguente ipotesi: forse, anche nel XIII, XIV e XV secolo, in occasione della festa di San Bartolomeo si svolgevano la Colta e il tradizionale lancio della porcellina. E forse, Colta e porcellina hanno sempre convissuto con la corsa del palio, come componenti popolari-carnevalesche della festa medievale di San Bartolomeo.

Rimane però ancora da chiarire il motivo per il quale il culto popolare di San Bartolomeo prevedesse nel giorno della festa del Santo proprio la caduta di una porchetta arrostita dalla Renghiera degli Anziani. Non trovandosi al momento alcuna connessione tra la tradizione bolognese con la vicenda della cattura di Re Enzo, né con la vita o il martirio di San Bartolomeo, si potrebbe anche pensare che la Festa bolognese abbia ereditato da antichi culti precristiani alcune forme di ritualità, tra cui la caduta della Porchetta dalla Ringhiera degli Anziani.

Lorena Bianconi

Lorena Bianconi
Alle origini della Festa bolognese della Porchetta
Ovvero, S. Bartolomeo e il cambio di stagione

Bologna, Clueb, 2005
Per maggiori informazioni: scheda del libro

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