In punta di spilla

da

Fibula longobarda del sec. VII (7 cm, Parma, museo nazionale di Antichità)

Le fibule nacquero per fissare mantelli, veli e abiti ma erano anche ornamenti raffinati, che rispecchiavano il gusto del momento.

Le più antiche erano molto semplici: uno spillo e un elemento di fissaggio, di dimensioni variabili a seconda del lembo di stoffa o di pelle su cui andavano applicate.

Ma le fibule, il cui meccanismo era identico a quello delle moderne spille da balia, divennero presto un oggetto non solo d’uso quotidiano, ma anche ornamentale. Come tali, erano soggette a mutamenti di foggia, dimensioni e materiali, a seconda delle funzioni rivestite, del sesso e dello status di chi le indossava. E, ovviamente, anche della moda.

Documentate sin dall’età del Bronzo e usate da Celti ed Etruschi (che ne portarono la produzione ad altissimi livelli estetici), le fibule divennero, in età tardo-antica, molto popolari sia tra i Romani d’Oriente, e ne troviamo molte rappresentate nei mosaici che raffigurano funzionari, soldati e regnanti, per esempio a Ravenna, che tra i popoli “barbarici”, che le sfoggiavano su tuniche e mantelli come parte integrante del costume nazionale.

Grazie all’abitudine di seppellire i morti con il loro abbigliamento e corredo, a lungo caratteristico delle genti che a ondate fecero il loro ingresso nell’Impero Romano, possediamo molti esemplari di fibule che variano per forma, dimensioni, materiali e anche per la posizione di utilizzo, ricavabile confrontando i dati iconografici con quelli desunti dagli scavi archeologici.

Le fibule a staffa, di forma allungata, fissavano il mantello all’altezza delle spalle. Sovente presentano elaborate decorazioni, molto utili per la datazione dei reperti: le più antiche tra quelle pannonico-longobarde, utilizzate quasi esclusivamente per il costume femminile, presentano motivi geometrici o a spirale fino al V secolo circa, mentre da allora in poi prevalgono gli stili cosiddetti “animalistici”, che si contaminano nel contatto con il mondo mediterraneo, da cui acquisiscono i motivi a intreccio.

Fibula a forma d’aquila di arte ostrogota del 500 ca.. Parte del tesoro di Domagnano (San Marino), è ora conservata al Germanisches Nationalmuseum di Norimberga

Le fibule usate dai Goti presentano spesso un caratteristico motivo ad aquila realizzato a cloisonné, o “lustro di Bisanzio”: una tecnica di decorazione realizzata saldando al supporto della spilla piccole celle di metallo in cui si colava smalto colorato, ottenendo una sorta di mosaico. Quanto alle fibule a disco, esse erano molto diffuse nel mondo bizantino e da qui furono mutuate dai Longobardi, che le utilizzavano come probabile status symbol. Interessante, da questo punto di vista, appare il bellissimo pendente riemerso in una tomba femminile di Spilamberto (Modena), ricavato da una fibula a disco in argento dorato, al centro della quale, attorniato da perle fluviali alternate a paste vitree blu e verdi, domina un cammeo di lavorazione romana ritraente un bel volto di donna.

Interpretando i dati archeologici si è osservato che le grandi fibule a disco (quasi sempre ritrovate al centro del petto nei corpi inumati), servivano a fissare il mantello oppure una sorta di soprabito aperto sul davanti. Tale tipo di accessorio si diffuse tra i popoli “barbarici” dopo il contatto con il mondo bizantino, finendo per soppiantare le tradizionali fibule a staffa o a forma di “S”, solitamente utilizzate in coppia per il medesimo fine. Quanto alle spille a staffa, spesso sono state ritrovate nella zona del bacino e tra i femori: la posizione, in questi casi, potrebbe essere stata dettata da usanze particolari o locali di cui però è difficile, oggi, cogliere appieno il significato (anche se i ricostruttori e rievocatori cercando di proporre varie soluzioni).

Dopo secoli di onorato servizio, dal Mille in poi la fibula declinò lentamente, soppiantata dai bottoni, più pratici ed economici. E da accessorio indispensabile passò, salvo rare eccezioni, a oggetto decorativo e di rappresentanza, con un valore che mantiene ancora oggi.

Elena Percivaldi

Articolo pubblicato sul numero 22/2019 del bimestrale “Medioevo Misterioso” © Elena Percivaldi / Sprea Editore

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