«Idomeneo (…) li attese, come sui monti un cinghiale, che nella forza confida, / attende l’impeto rumoroso dei cacciatori incalzanti, / in luogo solitario: e sulla schiena drizza le setole, / gli occhi lampeggiano fuoco, aguzza i denti, / pronto a difendersi dai cani e dagli uomini».
Tale mirabile similitudine tra il guerriero e il cinghiale, contenuta nell’Iliade di Omero (XIII, 470 ss.), rispecchia bene le caratteristiche guerresche e virili riconosciute al suide fin dalla civiltà greco-micenea. Infatti, pur appartenendo a un’unica specie – essendo tra loro interfecondi –, il maiale domestico e il selvatico cinghiale appaiono contraddistinti fin dall’antichità da valenze simboliche molto differenti. Il primo, apprezzato per la sua carne, vive nel branco ed è considerato – oltre che corrispettivo di voracità alimentare e sessuale e sinonimo di sporcizia – l’animale stolto per eccellenza, grossolano e tardo di comprendonio; la sua versione selvatica, invece, rappresenta uno degli animali più temuti e ammirati nelle epoche arcaiche e classiche.
Sacro ad Artemide e al dio della guerra Ares, nell’epica dell’antica Grecia il cinghiale ha una caratterizzazione fortemente «maschile» e compare spesso come termine di comparazione per l’eroismo del guerriero, in questo secondo solo al leone. Il cinghiale, inoltre, si presenta come un animale «armato», visto che è dotato di un’arma corta e di uno scudo: la prima è costituita dalle zanne, simili a sciabole taglienti, che gli permettono di procurare agli avversari ferite profonde e spesso letali, il secondo è la corazza di callo che i maschi hanno sulle spalle e che si forma nel periodo degli accoppiamenti. In definitiva, il cinghiale incarna l’aristocratico e valoroso eroe il quale, spinto dalla foga guerriera, fronteggia da solo gli avversari, massacrandoli o terrorizzandoli.
Nondimeno la bestia è ammirata, e cacciare il cinghiale rappresenta un passatempo amato dai signori e nobili romani. Le battute, che si praticano a piedi e con l’aiuto di reti e cani per stanare la preda, si concludono spesso con uno scontro corpo a corpo, nel quale l’uomo, armato di spiedo, cerca di abbattere l’animale colpendolo alla gola o tra gli occhi. In caso di esito positivo, la selvaggina finisce spesso sulla tavola dei signori, come ci è stato tramandato da numerose ricette, quali, per esempio, quelle di Apicio nel De re coquinaria.
I banchetti dell’aldilà Nell’Alto Medioevo, sotto la spinta delle invasioni barbariche, si assiste a una profonda modificazione degli stili alimentari: se l’antico mondo greco-romano basava il suo sostentamento sulla triade «pane-olio-vino», le popolazioni celto-germaniche amano mangiare carne. Lo storico Massimo Montanari ha osservato che è vano ricercare tra Celti e Germani una «pianta di civiltà», per usare un’espressione dello storico Fernand Braudel, che sia fondante come, ad esempio, lo è stato il grano nella civiltà greca e latina; si potrebbe invece parlare di un «animale di civiltà» per il maiale, protagonista incontrastato del mondo e della mitologia celtica, «primo e indispensabile sostentamento dell’uomo».
Se, come già ricordato, nel mondo classico era oggetto di profonda disistima sotto il profilo culturale, presso le popolazioni germaniche, e ancor prima celtiche, il suino è invece animale sacro, simbolo di abbondanza e fertilità.
Strabone riferiva che i Celti amavano particolarmente la carne di maiale fresca e salata, e che in Gallia i maiali erano grandi e feroci; testimonianze archeologiche provenienti da tombe dell’età del Ferro rinvenute in Britannia e nell’Europa continentale attestano la pratica di festini funerari a base di carne suina.
Del resto, i racconti mitologici irlandesi narrano di un largo uso del maiale, quale cibo divino, durante i banchetti terreni, come durante il periodo di Samain. Diodoro Siculo attesta che durante i convivi scoppiavano spesso risse tra i guerrieri per accaparrarsi la parte migliore dell’animale. Si può citare il caso del Festino di Bricriu, uno dei racconti appartenenti alla saga irlandese di Cú Chulainn – ovvero la disputa durante il banchetto di Mac Da Thó, re del Leinster –, ove si ha a che fare con un maiale enorme, nutrito per sette anni dal latte di tre ventine di mucche.
La carne di maiale trionfava pure nei banchetti dell’Aldilà: la mitologia celtica prevedeva che ogni bruidhen od «ostello dell’oltretomba» fosse governato da un dio che presiedeva il banchetto, raffigurato come un uomo con un maiale sulla spalla. In tali banchetti i maiali venivano uccisi e mangiati ogni giorno in magici calderoni per poi nascere di nuovo ed essere consumati il giorno seguente, come quelli del dio Manannán mac Lir.
Immaginario analogo si trova nella mitologia norrena: il maiale appare come nutrimento perenne nella Valhalla di Odino, ove viene cotto ogni giorno dal cuoco Andhrímnir e consumato, ma è di nuovo intero la sera. Noto è il legame tra il dio Freyr e il cinghiale: egli possiede Gullinbursti, verro dalle setole d’oro, capace di correre più di qualsiasi destriero sia in aria che in acqua, sia di giorno che di notte. La stessa Freyja, sua sorella, dea dell’amore, della fertilità e della guerra, cavalca Hildisvíni – un cinghiale dal petto dorato – ed è una dea «scrofa». Verri e cinghiali venivano offerti in sacrificio alle divinità, o sacrificati in concomitanza con la festa di metà inverno dello jól, periodo in cui si riteneva che i morti tornassero sulla terra. Maiale e cinghiale, quali simboli di fecondità e potenza, erano legati alla stirpe dei re svedesi Ynglingar, discendenti di Freyr, che avevano come beni preziosi e segni distintivi elmi e anelli che richiamavano nel nome la componente suina (maiale di battaglia, verro di battaglia e così via).
Emblema della caccia Nel mondo germanico, celtico e slavo, il cinghiale è emblema di guerra e di caccia. Esso veniva raffigurato in statuette o nelle monete celtiche con la criniera eretta, quale simbolo di aggressività, mentre in battaglia si usavano trombe con padiglioni a forma di testa di cinghiale, così come gli elmi erano sormontati da immagini dell’animale come cimieri. Analogamente, scudi e insegne di guerra ritraevano spesso l’effigie del cinghiale. Per il guerriero celto-germanico, l’animale ha una duplice valenza: da un lato, figura selvaggia e indomita con cui il guerriero stesso tende a immedesimarsi; dall’altro, fiero avversario nelle battute di caccia. Non bisogna dimenticare, infatti, che la mentalità delle popolazioni barbariche influenzò profondamente la cultura del nobile altomedievale. Egli è, allo stesso tempo, guerriero e cacciatore.
La caccia medievale è un elemento strutturale e irrinunciabile della mentalità del guerriero e, insieme al combattimento, al banchetto e al torneo, è un tratto costitutivo della sua «autocoscienza». Dal momento che l’intera esistenza del guerriero è improntata alla propria esaltazione fisica, alla valorizzazione del corpo tramite l’esercizio della forza, il riposo del nobile non è inattività, ma è improntato all’azione. Nella caccia medievale le componenti ludiche sono secondarie, poiché essa assumeva i connotati di una battaglia vera e propria. Questo spiega la ragione per cui i nobili adulti si lanciassero con foga e senza risparmiarsi nello scontro diretto, corpo a corpo, con le belve, in primis orsi e cinghiali.
La nobiltà guerriera amava alternare campagne militari con periodi, anche di molti mesi, in cui si ritirava nelle proprie riserve per dedicarsi all’attività cinegetica (dal greco kynēgetikḗ l’arte della caccia con i cani NDR).
Tali esercizi venatori sembra fossero quasi ritualizzati nel periodo della dinastia carolingia – basti pensare alle campagne venatorie di Carlo Magno e Ludovico il Pio nelle foreste delle Ardenne – e forse ancor prima. Dal momento che la pericolosità doveva essere un carattere insito dell’attività venatoria, i nobili sceglievano come periodi migliori per le battute l’autunno e l’inverno, cioè quando animali come i cinghiali, nella stagione degli accoppiamenti, diventavano più feroci; a ciò si aggiungeva la difficoltà, nei Paesi settentrionali, delle condizioni atmosferiche, del freddo e delle piogge, che rendevano il terreno più accidentato: un teatro ideale per la riproduzione in piccolo della guerra reale – il che spiega anche l’alto numero di morti che si registrava tra i cacciatori.
Nel settentrione europeo, la caccia agli animali considerati più feroci e pericolosi – e quindi più nobili – ossia l’orso e il cinghiale, seguiva una particolare modalità: la battuta iniziava a cavallo, ma terminava sempre a piedi, in un corpo a corpo che vedeva fronteggiarsi il guerriero – munito solo di spada o pugnale – e la bestia feroce.
Lo scontro diretto con il cinghiale non ammetteva facilitazioni e si presentava, allo stesso tempo, come una prova iniziatica per i giovani guerrieri, alla pari con quella all’orso. Lo stesso lessico tedesco conferma la parentela simbolica tra i due animali: i termini Bär (orso) ed Eber (cinghiale) etimologicamente si ricollegano entrambi alla radice germanica *bero, il cui significato è «combattere» e «colpire». Solo dopo aver affrontato e ucciso in uno scontro diretto un orso o un cinghiale, il giovane guerriero medievale veniva ammesso nella società degli adulti.
La leggenda del cinghiale bianco La mitologia celtica ci ha lasciato numerosi episodi di re o principi che partono per una caccia a un cinghiale. In particolare a un cinghiale bianco, capace di condurre i nobili cacciatori in mondi fatati o addirittura oltremondani.
Il medievista Philippe Walter ha evidenziato come re Artú, il cui nome è costruito sulla radice indoeuropea art-, la stessa dell’orso, rappresenti il sovrano archetipico che caccia senza fine la femmina o il maschio del cinghiale. Molto famoso è l’episodio del gigantesco cinghiale oltremondano Twrch Trwyth che, nel racconto gallese Culhwch e Olwen (databile attorno all’XI secolo), Artú insegue per tutta l’Irlanda, il Galles e la Cornovaglia fino a sconfiggerlo, a impossessarsi delle sue magiche zanne e a recuperare tre oggetti magici che si trovano tra le orecchie, ossia il pettine, il rasoio e le forbici necessarie per rasare Yspaddalen, capo dei giganti. Secondo lo studioso francese il tema della caccia al mostruoso animale ricorda molto quella del cinghiale Erimanto nel mito di Eracle, episodi indipendenti ma derivati da una comune tradizione indoeuropea. Anche molti testi francesi e anglo-normanni del XII e XIII secolo, attingendo alla ricca mitologia celtica del maiale selvatico, narrano le avventure di eroi – Guingamor, Aubri le Bourguignon, Tristano – che, cacciando il cinghiale bianco, vengono portati a varcare le porte dell’Altro Mondo. Esemplare, in questo senso, è la storia del lai anonimo Guingamor in cui il protagonista, nipote del re di Bretagna, dopo aver respinto l’amore per la regina del sovrano, è indotto a partire per la pericolosa caccia al blanc porc, che ha già visto valorosi cavalieri della corte partire e mai più tornare. Guingamor si inoltra nella foresta e avvista il cinghiale. Durante l’inseguimento, si imbatte in uno splendido castello disabitato, ove viene accolto da una ragazza, appartenente al mondo delle fate, la quale lo invita a rimanere ospite nella dimora, dove trascorre il tempo in modo paradisiaco incontrando i cavalieri scomparsi. Al terzo giorno Guingamor esprime il desiderio di tornare dal suo re per mostrargli la testa del cinghiale catturato, ma la dama lo avverte che nel frattempo sono passati ben trecento anni. Ciononostante, il cavaliere si incammina e dopo aver incontrato un carbonaio, che gli riferisce che il re di Bretagna è effettivamente morto da secoli, contravviene a un divieto alimentare – si ciba infatti di tre mele selvatiche – e diviene vecchio all’istante, ma viene soccorso da giovani ragazze a cavallo, che lo portano indietro, al di là del fiume. Così Guingamor è salvo, ma non potrà più tornare nel mondo reale.
Il valore simbolico della carne La caccia ha come naturale prolungamento il banchetto. Se nel mondo classico il pane era l’alimento per eccellenza, nel Medioevo la scala di valori si inverte: il medico e scrittore Aldobrandino da Siena, nel XIII secolo, scrive che «fra tutte le cose che danno nutrimento all’uomo, la carne è quella che lo nutre di più, e l’ingrassa e gli dà forza». Da un punto di vista simbolico, la società – soprattutto quella altomedievale – associa al consumo di carne una certa immagine sociale e politica. Se la carne è l’alimento che più di tutti conferisce forza, essa sarà l’alimento tipico del potere; potente è il guerriero, che trae il suo sostentamento dalla carne e che, in virtù della sua forza fisica, prevale sugli altri, legittimando così la sua supremazia. Per una semplice proprietà transitiva che associa la carne alla vigoria fisica e al potere (chi mangia e beve moltissimo esprime e impone la propria superiorità animalesca nei confronti dei suoi simili), la carne diventa il cibo dell’aristocrazia europea, ossia dei nobili guerrieri di stampo germanico.
Come insegna lo storico Massimo Montanari, l’ideale del nobile guerriero che prende piede nell’Europa dei nuovi ceti dominanti di impronta barbarica è quella «di un uomo capace di ingurgitare quantità enormi di cibo e di bevande: questo è l’eroe, quale ce lo descrivono la mitologia germanica e i poemi cavallereschi», un consumatore forte, ingordo e insaziabile. Il suo cibo preferito è la selvaggina, soprattutto quella costituita da animali feroci che lo stesso ha ucciso nelle battute di caccia. Orsi, uri e – appunto – il cinghiale sono per tutto l’Alto Medioevo i cibi per eccellenza sulla tavola dei nobili.
Mentre mangiare la carne dell’orso – di per sé molle, insipida e molto oleosa – è un atto rituale più che gastronomico, in quanto importante non è assaporare la carne, ma assimilare la forza dell’animale, per il cinghiale i due concetti si fondono. La carne del suide, dal sapore forte e gustoso e apprezzata fin dall’antichità, diventa la pietanza regale per eccellenza, in quanto coniuga al massimo grado la componente gastronomica e il valore simbolico del valoroso animale cacciato. Inoltre, la carne deve essere mangiata cotta direttamente sul fuoco, allo spiedo, senza bisogno di alcuna intermediazione: la carne arrostita propende per il brutale e il selvatico, per nozioni di violenza e di bellicosità, a differenza del lesso che si accosta a un’idea del domestico estranea alla mentalità guerriera. Eginardo, biografo di Carlo Magno, ci racconta come il grande sovrano, benché anziano e malato di gotta, non volesse rinunciare né alle battute di caccia, né ai suoi amati arrosti, a cui era assuetus (abituato).
La fortuna del cinghiale, quale indomito avversario, come ambita pietanza nelle mense aristocratiche e come trofeo della caccia stessa, continua per un lungo periodo. Lo testimoniano una serie di obblighi-diritti feudali, presenti anche in Italia. Attorno al 1015 il doge Ottone Orseolo esigeva dagli abitanti di Eraclea la testa e i piedi di ogni cinghiale adulto catturato e la spalla di ogni cervo. Nel Comune di Sambuca Pistoiese (1291) il primo capriolo dell’anno, la testa del primo orso e la spalla del primo cinghiale spettavano al vescovo; similmente il vescovo di Ferrara (1182) aveva il diritto di ricevere le interiora dei cinghiali cacciati nel bosco di Glazano. In alcuni casi cinghiali erano dovuti come tributo a monasteri femminili: la badessa del convento di Monticelli Senese riceveva da altro monastero, come riconoscimento del proprio primato, un cinghiale ben carnoso, ma «sine capite et cruribus et interioribus», parti che non si addicevano alla destinataria, donna e religiosa allo stesso tempo.
Tuttavia, la fortuna dell’animale a un certo momento comincia a offuscarsi. Infatti, a partire dal XIII-XIV secolo, come si può dedurre da varie fonti – trattati cinegetici, rendiconti contabili di principi e signori – sembra che la caccia al cinghiale non sia più ricercata come una volta, sebbene documenti piuttosto tardi, come l’anonimo componimento inglese Sir Gawain e il Cavaliere Verde (fine XIV secolo), tratteggino ancora battute memorabili. Sono però i trattati di caccia inglesi e francesi, tra i quali in primo luogo il celebre Livre de chasse (1387-1389) di Gaston Phoebus, conte di Foix, l’Art de vénerie (1315-1320) di William Twich e, soprattutto, il Livres du roy Modus et de la royne Ratio (1360-1379) di Henri de Ferrières a mettere in disparte la figura del cinghiale e a svalutarlo quale selvaggina.
Nel primo, il conte di Foix riconosce una certa dignità e fierezza al nostro animale, considerandolo come l’unico al mondo capace di uccidere l’uomo all’istante («È la bestia al mondo che ha più forti zanne e che rapidamente uccide un uomo o un animale; non c’è nessuna fiera in grado di uccidere in combattimento da solo a solo più velocemente di lui, né il leone né il leopardo (…) infatti né il leone né il leopardo uccidono un uomo o una bestia di colpo (…) il cinghiale uccide di colpo, come farebbe un coltello»), ma allo stesso tempo lo annovera tra le bestie di taglia grossa, che mordono, puzzolenti e nere, preferendogli il cervo.
Ma è soprattutto Henri de Ferrières a essere molto severo con il cinghiale, di cui enumera le dieci caratteristiche morali, accostandole ai dieci comandamenti dell’Anticristo.
Altra spia che denota il lento declino della caccia al cinghiale, rinvenibile dalle raccolte contabili dei signori inglesi e francesi dell’epoca, è la netta diminuzione dell’acquisto di mute di cani specializzati – che spesso venivano uccisi nelle battute e dovevano essere continuamente rimpiazzati – o addirittura la diffusione della prassi di prendere in prestito le mute, ormai non più esistenti in pianta stabile.
Ad avviso dello storico e antropologo francese Michel Pastoureau tale declino – che si manifesta in prima battuta in Francia e in Inghilterra, mentre è di almeno un secolo più tardo nei Paesi germanici e in Italia – sarebbe dovuto non solo ai cambiamenti delle tecniche venatorie, ma, soprattutto, all’atteggiamento della Chiesa nei confronti della caccia stessa e nei confronti dell’animale. Un atteggiamento, quest’ultimo, risalente ai primissimi secoli dell’era cristiana. Se, infatti, l’antica ripugnanza e avversione nei confronti del maiale ne fa talvolta un’icona demoniaca, in quanto – quale bestia immonda che gode del fango e della sporcizia –, è simile alle schiere dei demoni che si nutrono del sangue delle bestie e della morte dell’uomo – così come predicano Ambrogio e Girolamo – un trattamento ancor più duro viene riservato al suo feroce parente, il cinghiale.
Immagine di Satana Nella Bibbia l’animale viene nominato una sola volta, laddove si lamenta la devastazione della «vigna Israele» a opera degli eserciti nemici: «l’ha devastata un cinghiale dalla foresta, una fiera solitaria se ne è cibata» (Ps 79,14). Ciò basta e avanza. Dal significato storico si passa a quello figurato: la vigna è l’immagine tipica usata dalla Bibbia per indicare il popolo di Dio, ma viene poi estesa alla Chiesa e all’anima cristiana. Come predicano più autori, da Agostino a Esichio di Gerusalemme, il solitario e feroce cinghiale diventa l’immagine stessa della superbia del principe di questo mondo, ossia di Satana stesso.
L’opera demonizzante dei Padri della Chiesa trova degni eredi anche successivamente – basti pensare a Rabano Mauro che nel IX secolo inserisce l’animale nel bestiario del Diavolo – e ciò incide profondamente sul simbolismo del cinghiale. Nel Basso Medioevo, l’animale acquista una valenza del tutto opposta a quella posseduta nei primi secoli dell’età medievale. Gli stessi aggettivi che lo caratterizzavano un tempo in senso positivo – la selvatichezza, la ferocia, la violenza, il coraggio – divengono ora attributi negativi, e le sue caratteristiche esteriori, come il pelame scuro, le abitudini notturne, gli occhi e le zanne che sembrano emanare scintille, lo rendono un animale che pare uscito dall’Inferno per sfidare Dio.
A partire dal XIII secolo, nelle summae teologiche, nelle raccolte di exempla e nei bestiari letterari o iconografici associati ai vizi capitali, il cinghiale – insieme al cugino maiale – comincia a essere associato a diversi peccati mortali, fino ad arrivare ad essere la personificazione di ben sei peccati su sette, con la sola eccezione dell’avarizia. Di converso, nelle miniature o negli arazzi tedeschi del XV secolo che raffigurano la lotta tra vizi e virtù in forma di giostra, il cinghiale diviene la cavalcatura ideale per la maggior parte dei vizi capitali.
Il declino di un simbolo In definitiva, sia l’orso (antico re degli animali) che il cinghiale (la più regale delle selvaggine) finiscono per essere accomunati da un processo di progressiva degradazione simbolica, venatoria e alimentare, a causa del loro legame troppo stretto con il mondo pagano. A loro si cominciano a preferire animali caratterizzati da valenze più compatibili con l’ortodossia cristiana, come l’esotico leone e il mite cervo. Quest’ultimo ha valore sacrale presso quasi tutte le culture del mondo euroasiatico.
Animale profondamente timido, esso è una vittima designata e non presenta nessuna di quelle caratteristiche di aggressività e ferocia che caratterizzano lo scontro con orso e cinghiale tanto amato dai nobili. Anche se la caccia al cervo comporta una certa dose di violenza, essa non prevede il corpo a corpo con l’animale, ma un lungo inseguimento a cavallo fino alla cattura. È una caccia, in base al pensiero cristiano, più gestibile e che comporta meno spargimento di sangue.
Del resto il cervo è sempre valutato positivamente nelle Sacre Scritture. Basti pensare alle parole iniziali del Salmo 42 di David e agli ultimi versi del Cantico dei Cantici attribuito a Salomone. Tale circostanza conferisce all’animale una forte dimensione cristologica, amplificata dalla grande fortuna degli episodi agiografici riguardanti Eustachio e Uberto, i quali, inseguendo un cervo crucifero nel folto della foresta, si convertono alla fede cristiana. In pieno Medioevo, il cervo diviene una preda regale e la pietanza più ambita e preziosa nella tavola dei potentes, come decreta Gaston Phoebus nel citato trattato cinegetico Livre de chasse. Più tardi, nel Rinascimento, i nobili continuarono ad amare la selvaggina, ma i loro gusti mutarono ulteriormente: dalle bestie di grossa taglia si passò a preferire i volatili, che esprimevano un concetto di potere non più basato simbolicamente sulla forza fisica, ma sull’abilità intellettuale.
Domenico Sebastiani
Questo articolo è stato pubblicato sul mensile storico “Medioevo” (n. 240, gennaio 2017)
Da leggere:
Michel Pastoureau, Cacciare il cinghiale. Dalla selvaggina regale alla bestia impura: storia di una svalutazione, in Id., Medioevo simbolico, Laterza, Roma-Bari 2007 (ed. originale 2005); pp. 56-68.
Paolo Galloni, Il cervo e il lupo. Caccia e cultura nobiliare nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993.
Massimo Scheggi, La Bestia Nera. Caccia al cinghiale fra mito, storia e attualità, Editoriale Olimpia, Firenze 1999.
Massimo Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Laterza Roma-Bari 2010 (ed. originale 1988).
Francesco Maspero, Bestiario antico. Gli animali-simbolo e il loro significato nell’immaginario dei popoli antichi, Piemme, Casale Monferrato 1997.