Siamo nel 1268 in Capitanata, la “Magna Capitana” di Re Enzo, figlio dell’Imperatore Federico II, a quel tempo rinchiuso a Bologna dopo la cattura avvenuta nel 1249.
Tutta la dinastia sveva è ormai stata sconfitta e dopo la morte dell’Imperatore Federico II, né Corrado IV né tantomeno Manfredi erano riusciti nell’intento di ultimare l’ambizioso progetto del padre di unione tra il Sacro Romano Impero e il Regno di Sicilia.
Da due anni l’ultimo rampollo “biondo, bello e di gentil aspetto” era stato sconfitto in battaglia dall’altro rampollo della fazione opposta, Carlo I d’Angiò.
Quest’ultimo, complice dell’appoggio toscano e pontificio, era riuscito a penetrare nel Mezzogiorno e a convincere i fedeli di Manfredi a tradirlo proprio nel momento decisivo. Carlo non si era limitato a spazzare via la nobiltà locale fedele agli Svevi ricompensando invece chi lo aveva appoggiato, ma aveva fatto occupare tutte le cariche più elevate alla nobiltà d’Oltralpe, provenzale e francese, imponendo, specialmente in Sicilia, una tassazione estenuante che porterà, qualche tempo dopo, ai famosi Vespri.
In questo contesto si inserisce la figura di Guglielmo de Parisio, di nobile stirpe: la sua famiglia si era insediata circa due secoli prima con l’arrivo dei Normanni nel Mezzogiorno. Grazie anche alle gesta del padre Ruggero aveva il controllo di gran parte della Capitanata Nord-Occidentale detenendo, tra gli altri, i feudi di Fiorentino (luogo dove morì Federico II nel 1250), Castelnuovo della Daunia, Pietramontecorvino, Civitate, Larino, Dragonara, San Giuliano, San Marco la Catola, Visciglieto e altre terre in Basilicata e Terra d’Otranto grazie al matrimonio con Margherita de Tallia, di origini brindisine.
Tralasciando l’importanza di Guglielmo come barone e fedele agli Svevi sia sotto Federico II che sotto Manfredi, ci soffermeremo su una sua particolarità, il fatto che riuscì, in qualche modo, ad essere a capo della ribellione scatenata a seguito delle notizie dell’arrivo dell’ultimo svevo, Corradino, dalla Germania.
Ma facciamo un piccolo passo indietro. Dopo la Battaglia di Benevento (26 febbraio 1266) l’angioino aveva instaurato il suo dominio sul Regnum Siciliae e iniziava a pianificare l’espansione sul Mediterraneo ignaro che i fuoriusciti svevi avevano attraversato l’Italia ed erano giunti fino in Germania.
Lì ad aspettare Galvano Lancia, zio di Manfredi, e compagni c’era Corradino, il figlio di Corrado IV, che giovanissimo – aveva solo 15 anni – e con l’aiuto dei nobili tedeschi decise di intraprendere il percorso verso il Sud e rivendicare il suo diritto alla Corona.
Quando la notizia giunse in Capitanata verso la fine del 1267 la ribellione fu pressoché totale. Lucera, la Luceria Saracenorum di federiciana memoria in cui svettavano minareti e si professava la religione islamica, colse la palla al balzo e in men che non si dica i saraceni uccisero o scacciarono gli ufficiali angioini.
E Guglielmo? Il nostro oltre ad organizzare la rivolta con i Saraceni, si metteva al comando di truppe a cavallo facendo proseliti e creando scompiglio verso chi si opponeva alla ribellione. Basti pensare che con Pandolfo d’Aquino raggiunse finanche i territori della Contea di Loretello a nord della Capitanata.
A quel tempo era papa Clemente IV che era di origine francese, al secolo Gui Foucois. Questi iniziò una fortissima campagna militare e di propaganda contro i ribelli, mentre la sommossa divampava da sud in Sicilia a nord in Terra di Lavoro. Due cardinali vennero incaricati di predicare una crociata contro la città di Lucera. Eudes de Châteauroux e Raoul de Grosparmy si recarono nel Regno predicando contro il giovanissimo svevo. Nei superstiti Sermones de Rebellione Sarracenorum Lucherie in Apulia vi è inserita tutta la rabbia e l’odio dei prelati contro i ribelli.
Ma torniamo a Guglielmo, che in Capitanata riceveva ben due interdetti, uno il 5 aprile e l’altro il 17 maggio del 1268. E, come se non bastasse, dalla Toscana Carlo era passato prima a Viterbo per incontrare Clemente e poi era giunto a Lucera per assediarla con il suo esercito. L’angioino aveva l’occhio lungo, perché aveva intuito che Corradino puntava proprio all’enclave musulmana la quale sicuramente l’avrebbe accolto a braccia aperte chiudendolo in una morsa fatale.
L’assedio durava un solo mese perché il 16 giugno Carlo aveva deciso di muovere la gran parte dell’esercito verso l’Abruzzo, luogo dal quale Corradino avrebbe voluto entrare nel Regno per puntare dritto a Lucera.
Ai Campi Palentini, presso Scurcola Marsicana, i destini del Mezzogiorno si decidevano a favore di Carlo mentre a Lucera i Saraceni, i Cristiani e Guglielmo, in un’alleanza che andava ben oltre la contingenza, spazzavano via l’accampamento del povero maresciallo Pietro de Beaumont, costretto a ritirarsi a Foggia.
La notizia della fuga e poi della cattura del sedicenne Corradino sicuramente diedero il colpo di grazia al morale della ribellione. L’affare Corradino venne risolto il 29 ottobre 1268 con la dibattutissima condanna a morte che tanto scalpore fece tra i contemporanei.
A questo punto Carlo aveva tutto il tempo per riorganizzare l’esercito, prendere moglie a Trani – sposò Margherita figlia del Duca di Borgogna – e recarsi a Foggia da dove avrebbe stretto la città di Lucera in una morsa fatale fino alla sua resa, dopo quasi un anno, il 27 agosto 1269. A seguito dell’assedio Carlo decise di costruire l’attuale fortezza che ancora oggi svetta sul colle Albano.
Guglielmo, invece, aveva deciso di fuggire. Lui, come tantissimi altri baroni e nobili che avevano rapporti con la parte meridionale della Puglia, anch’essa in piena ribellione con Gallipoli a fare da capofila, aveva tentato la via del mare come riportato dal Liber Regiminum Padue.
Malauguratamente, mentre si trovava presso Brindisi per provare a salpare verso la Grecia, fu catturato e portato a Gallipoli anch’essa presa dagli Angioini. Di particolare interesse l’inventario dei beni trafugati ai ribelli: spade, armi, libri, vestiario, oggetti d’uso quotidiano e tutte le cavalcature.
A Gallipoli subì sicuramente le torture atroci che spettavano a tutti i ribelli, secondo i dettami di Carlo. Un documento della cancelleria angioina riporta che il re in persona ricevette una “confessione” di Guglielmo. Il nostro è dato per morto, probabilmente impiccato, già agli inizi del 1269:
Quondam Guillelmus de Parisio cum Saracenis Lucerie
Tutti i beni e i possedimenti di Guglielmo de Parisio andarono a Jean de Britaud, connestabile del Regno e Vicario per la Toscana, per un valore di circa 300 once – una contea in media aveva un valore di circa 200 once – mentre la moglie Margherita si votò alla causa angioina: sposò nel 1277 il cavaliere Ivano de Bononia e ottenne anche altre terre vicino Nardò.
Alessandro De Troia
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Bibliografia:
Liber Regiminum Padue in Rerum Italicarim Scriptores 8/1, Città di Castello 1905-1908.
I registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri con la collaborazione degli Archivisti napoletani. 50 volumi, Napoli, presso l’Accademia, 1950 – 2010.
J.A. Taylor, Muslims in Medieval Italy. The Colony at Lucera – Lanham, 2003.
C.T. Maier, Crusade and rethoric against the Muslim Colony of Lucera: Eudes of Châteauroux’s Sermones de Rebellione Sarracenorum Lucherie in Apulia – Journal of Medieval History, XXI, 1995-4, 343-385.
A. De Troia, Guglielmo De Parisio. Un esempio di successione feudale nella transizione svevo-angioina – La Capitanata, 2012.