Ebrei, una storia italiana

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Conoscere la storia degli ebrei per capire la storia d’Italia. Banchieri e sovrane, imperatori e condottieri, esorcisti e maghi, librai e maestre, pontefici, politici e giornalisti, ciarlatani e musicisti: il lungo racconto di un caleidoscopio di vite attraverso molti documenti curiosi ed inediti. La vitalissima storia di una minoranza nelle complesse vicende della penisola emerge in tutte le sue sfaccettature in “Italya. Storie di ebrei, storia italiana” (Laterza, 2021), l’ultimo libro di Germano Maifreda, professore di Storia economica all’Università degli Studi di Milano.


La presenza ebraica a Ferrara è una fra le molte (fra gli altri esempi ci sono Venezia, Rimini, Verona, Mantova, Lucca, Pisa e Roma) che risultano ben stabilite nei centri cittadini centro-settentrionali della penisola tra fine Duecento e inizio Trecento.

Non è facile comprendere quali furono le origini e il significato di questi insediamenti, fioriti con ogni probabilità – mancano documenti in grado di affermarlo inequivocabilmente – più tardi rispetto a quel Sud Italia nel frattempo diventato angioino, in cui una diffusa presenza ebraica sul territorio si era già assestata nei secoli precedenti.

La famiglia del mercante ebreo Daniel Norsa, raffigurata ai piedi di un affresco nella chiesa di Sant’Andrea in Mantova. Il cerchio sul petto e il berretto color zafferano identifica i “giudei”

Ad accomunare le località del Centro-Nord che iniziano a vedere stabili presenze ebraiche nei primi secoli del secondo millennio vi è – con l’eccezione di Roma e dello Stato pontificio – il fatto che sono quasi tutte città-Stato, tradizionalmente sottoposte al potere imperiale ma economicamente e politicamente in trasformazione. Si tratta dei centri politici di una nuova Italia comunale, che reclamano autodeterminazione e sono in procinto di diventare il pilastro di governi signorili o, più tardi, di Stati regionali.

La connessione tra una crescente presenza ebraica centro-settentrionale basso-medievale e l’operosa dinamicità delle città che la inclusero non deve tuttavia essere interpretata in modo semplificatorio attraverso un’altra, anacronistica categoria odierna: quella della migrazione economica.

Bisogna partire dall’evidenza che in quell’epoca la penisola italiana vedeva, in diverse località soprattutto – ma non solo – del Meridione, una diffusa presenza e una fiorente vita politica e culturale ebraica, attestata fra l’altro dal resoconto di viaggio (circa 1170) del geografo Beniamino di Tudela.

Tortura di Giuda Ciriaco (particolare), affresco di Piero Della Francesca, Basilica di San Francesco (Arezzo), 1452-1466

Questo documento dimostra l’esistenza di una cultura rabbinica italiana in relazione profonda con le culture talmudiche che sorgevano in area francese, tedesca e mediorientale; la centralità della sinagoga e delle sue istituzioni nella vita delle famiglie, che attorno ad essa stabiliscono delle gerarchie di prestigio e potere sia verso l’interno del gruppo ebraico sia nei riguardi della società cristiana circostante; la presenza di consigli rabbinici e di dotti di cui sono tramandati nomi e ascendenze.

Gli spostamenti, avvenuti fra Due e Trecento, di una così ben organizzata e culturalmente consapevole popolazione ebraica dal Sud verso il Centro-Nord della penisola, o dall’area germanica verso l’Italia attraverso le Alpi, non possono essere solo interpretati come storie di migrazioni in fuga dalle persecuzioni, o alla ricerca di nuovi sbocchi economici da parte di una élite bancaria.

Questa visione, foriera di pericolosi stereotipi e infondata storicamente, si è sedimentata nel tempo soprattutto per due ragioni. Anzitutto perché la documentazione di questi secoli riguardante gli ebrei sopravvissuta negli archivi italiani comprende principalmente le Condotte, i contratti e gli atti dei notai: tipologie documentali che sovraespongono e sovrastimano le attività e le transazioni legate al denaro, per loro natura attentamente registrate e regolate, e trascurano le informazioni riguardanti la vita della Comunità e delle famiglie. In secondo luogo, ciò è accaduto per il fatto che in questi secoli di espansione economica i poteri cristiani, sempre più burocratizzati e gerarchizzati, legiferarono intensamente, e a tutto tondo, in tema di mercati e di prestiti.

Ebrei con il distintivo giallo, un borsello di denaro e dei bulbi d’aglio

La crescente attenzione dei papi, dei principi, delle città e delle repubbliche anche per la prassi economica degli ebrei nell’ambito della società dei cristiani ha in larga parte tradizionalmente orientato l’interpretazione degli storici, che a lungo hanno scrutinato quelle politiche e quei provvedimenti con l’obiettivo di ricostruire i caratteri della cosiddetta «rivoluzione commerciale» del Medioevo.

La nuova mobilità degli ebrei del basso Medioevo nell’Italia del Centro e del Nord non ebbe, con ogni probabilità, una sola spiegazione: ma deve essere letta in termini differenziati e localizzati, invocando cause diverse – di volta in volta politiche, personali, professionali, familiari, intellettuali, economiche ecc. – nei diversi contesti e momenti storici.

Nel caso di Ferrara, è forse possibile che proprio il venir meno dell’antica vocazione commerciale in parte dell’élite cittadina abbia lasciato spazi aperti a nuovi operatori che disponevano di reti finanziarie e relazionali estese, ma altre vicende individuali specifiche o relazioni politiche e culturali avranno senza dubbio contribuito a convogliare persone e famiglie verso quella che diventerà una delle città-simbolo dello svolgersi delle relazioni tra ebrei e cristiani nella storia peninsulare.

Sopra: il portico d’Ottavia a Roma. Sotto: I venditori del pesce al Portico d’Ottavia, acquarello di Ettore Roesler Franz, 1880

In un responso (decisione) rabbinico del 1239 Ferrara viene del resto menzionata tra le città del Nord Italia sedi ebraiche di una certa importanza, mentre una disposizione contenuta negli Statuti ferraresi del 1287 attesta che dodici anni prima il governo della città si era impegnato a osservare i capitoli stabiliti in un «instrumento absolutionis et seu immunitatis facte Judeis ferrariensibus».

Ciò attesta una legittimità anche giuridica e una capacità di negoziazione politica da parte degli ebrei locali – già in qualche misura costituiti a collettività agli occhi dei poteri cristiani – che trascendono il mero svolgimento individuale di mansioni economiche. Abbiamo rilevato come diversi ebrei ferraresi, già secoli prima dell’istituzione dei ghetti, abitassero in un’area individuabile della città estense. Anche questo aspetto delle vicende che stiamo considerando non è affatto una specialità della storia ebraica. Anzi: affrontarlo ci riporta nuovamente al tema delle relazioni sociali fra «maggioranza» e «minoranza», nonché dell’appropriatezza di queste categorie per descrivere una società fortemente segmentata e stratificata quale era quella di antico regime.

Come del resto succede anche oggi nelle Little Italy e nelle Chinatown di tutto il mondo, fin dall’antichità i gruppi etnici (all’epoca spesso definiti «nazioni»), ma anche le famiglie nobiliari e le loro consorterie (si pensi agli «alberghi» genovesi), i professionisti riuniti in corporazioni e i membri delle confraternite religiose o civiche, tendevano a stanziarsi in zone residenziali omogenee nei centri urbani maggiori.

Anche in ciò la storia degli ebrei riflette la storia d’Italia, nelle tante polarità che sottendevano la topografia dei centri urbani. Ancor oggi i nomi delle vie richiamano i preesistenti fondachi «dei tedeschi» o «dei turchi», gli insediamenti «dei lombardi», «dei greci» o «dei portoghesi», le varie famiglie nobiliari e le loro clientele che presidiavano interi quartieri, le vie dei mercanti e degli artigiani: i lanaioli, i macellai, gli orefici o i panettieri.

Vico della Pace, nei pressi di Via Giudecca a Napoli – foto Fotonapoli

All’apertura del Rinascimento, il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti – uno dei massimi trattati sulla tecnica delle costruzioni mai scritti – organizzava gli spazi della città in base all’autorità dei classici, ma aggiungeva che «riuscirà pure d’insigne ornamento per la città il distribuire le diverse botteghe degli artigiani in diverse zone e quartieri appositi […]. Divideremo l’area delle città in modo tale che i forestieri abbiano abitazioni non soltanto separate e fatte apposta per loro, ma anche adatte ai nostri cittadini, di guisa che pur essi possano abitarvi con tutti gli agi che le funzioni e il ceto di ciascuno esigono».

Anche gli ebrei, già nel mondo ellenistico e poi romano, e più tardi nell’Africa mediterranea musulmana e ottomana, si aggregavano spontaneamente spesso attorno ai loro luoghi di culto e di sepoltura. Una cultura urbana antica e diffusa induceva del resto tutte le persone a organizzarsi attraverso forme di appartenenza sociale, riunendosi attorno a chiese o sinagoghe «nazionali» fino a divenire tessere di una società multilinguistica e multiculturale che creava scuole, collegi, oratori, residenze e tribunali dedicati a ogni «nazione», professione o religione.

Nell’Italia meridionale bizantina, normanna e musulmana gli ebrei come gli esponenti delle varie nationes abitavano spesso in aree demarcate: è il caso della meschita palermitana e della giudecca di Trani, tutt’oggi ben preservate. Non si trattava di zone chiuse: a Trani furono erette nel basso Medioevo due sinagoghe ben visibili, la maggiore delle quali insisteva su una piazza pubblica che metteva in quotidiano contatto ebrei e cristiani. Entrambi i gruppi interagivano regolarmente con i musulmani nell’attivissimo porto, collocato a due passi dalla cattedrale e dalla giudecca.

Nell’Italia centro-settentrionale – che come sappiamo fu l’unica parte della penisola moderna che vide una presenza ebraica, dopo le espulsioni spagnole quattro-cinquecentesche dalla Sicilia e dal Regno di Napoli – le giudecche costituirono talvolta degli antecedenti topografici dei ghetti. Nella Verona del Rinascimento, per esempio, dove come già a Venezia, Padova e Vicenza esistevano contrade in cui gli ebrei preferivano abitare pur in assenza di specifici obblighi, proprio il fatto che essi «stavano tutti ravvolti in alcune case d’una contrada» (come fu richiamato dal Consiglio cittadino scaligero a fine Cinquecento) si rivelò un precedente al momento di istituire il ghetto locale. Non sempre, tuttavia, ciò è avvenuto; anche perché nella dislocazione urbana contavano le differenze «nazionali» fra ebrei. Nella Treviso d’inizio Quattrocento, per rimanere in Veneto, gli ebrei tedeschi risiedevano nei pressi del Duomo, gli italiani in San Giovanni e i «francesi» in San Nicolò.

Piastrelle in ceramica con la Stella di David a Caltagirone

Poteva del resto capitare che le autorità comunali o governative cristiane affermassero – come nel caso della Casale Monferrato settecentesca, ove i confini del recinto chiuso nel 1741 furono individuati nelle attuali via Roma, via Balbo, via Vigliani-Santa Croce e piazza San Francesco – che nell’area «presentemente abita[va] la maggior parte della luoro [sic] nazione», mentre studi odierni più approfonditi dimostrano come gli ebrei casalesi risiedessero in realtà anche in altre zone della cittadina, oltre che nella campagna.

Anche le famiglie e i professionisti ebrei, come i loro analoghi cristiani o musulmani, laddove tendevano a riunirsi in piccoli aggregati territoriali lo facevano per ragioni culturali, psicologiche o pratiche. Si poteva parlare la propria lingua e identificarsi in un retaggio comune, ci si sosteneva reciprocamente; si poteva creare amicizie e parentele, condividere spazi e servizi religiosi (seguendo norme che potevano anche prevedere distanze massime fra essi e le abitazioni), rinsaldare relazioni d’affari, sviluppare forme di solidarietà e ospitalità, rassicurarsi a vicenda nei momenti difficili, adempiere le norme fissate dai poteri cristiani o semplicemente adattarsi alla preesistente struttura topografico-professionale della città.

Germano Maifreda

Germano Maifreda
Italya
Storie di ebrei, storia italiana
Laterza, 2021
Per maggiori informazioni: scheda del libro