Come ci riferisce Gaston Phébus, conte di Foix, nel suo Livre de Chasse, quella al cervo viene unanimemente considerata, nel XIV secolo, la caccia più nobile, e allo stesso tempo, la carne dell’animale è ritenuta la più prelibata e degna della mensa dei re. Durante l’Età di Mezzo il cervo non è solo una selvaggina particolarmente pregiata: nel Medioevo occidentale il cervo appartiene alla tradizione simbolica cristiana, che ha visto in questo animale la rappresentazione allegorica di alcune virtù o la figura di Cristo stesso. È un animale di aspetto regale, ma allo stesso tempo mite e timido, e nonostante possegga armi come le corna, preferisce non usarle. È simbolo dell’iniquità sconfitta, della ricerca pronta e instancabile della sorgente d’acqua divina a cui dissetarsi; è ancora simbolo di prudenza, in quanto sa essere vigile e attento a ciò che si muove nella foresta.
Per capire appieno l’immaginario del cervo, occorre però andare molto a ritroso. La sua sacralità, infatti, affonda le radici nella notte dei tempi, nella preistoria indoeuropea, periodo in cui, forse, rappresentava l’animale dei cacciatori del Nord in contrapposizione alle precedenti civiltà di tipo matriarcale, simboleggiate dal toro.
Fin dal periodo paleolitico le corna dei cervi avevano il significato di un arcano potere di resurrezione. Ne è esempio il fatto che in alcune tombe siano stati ritrovati palchi di cervi accanto alla testa del morto, e che in alcune figurine bronzee della cultura di Hallstatt (I millennio a.C. circa) si notino immagini umane in piedi tra le corna di un cervo, a indicare forse la continuità della vita dopo la morte.
La mitologia greca
Il cervo è animale carico, come pochi altri, di forti valori simbolici, sia nel mondo ellenico e classico in genere, sia nel mondo celtico. Molti elementi, caratteristiche e finanche personaggi di tali civiltà si intersecano e presentano sorprendenti analogie e collegamenti, a testimonianza di un probabile ceppo culturale comune.
Nell’antica Grecia il cervo è associato ad Apollo, ma soprattutto ad Artemide, figlia di Zeus e sorella di Apollo stesso, la dea vergine per eccellenza, casta e cacciatrice, che ama passare il suo tempo nei boschi insieme alle Ninfe a cacciare per poi rinfrescarsi alle fonti. Suoi compagni sono appunto i cervi, e trainato da due coppie di cerve cornute da lei catturate è il suo cocchio d’oro; l’iconografia la tratteggia quasi sempre armata di arco e frecce con a fianco i cani o un cervo, oltre che coronata da una mezzaluna, indice della natura “lunare”, che le fu attribuita successivamente. Il mito di Artemide è spesso intrecciato con quello di Atteone, trasformato per punizione dalla dea in cervo e condannato a una orribile fine. La stessa dea, in un altro mito, tramuta in cerva Taigete, una delle Pleiadi, per cercare di sottrarla alla bramosia di Zeus.
Anche la figura di Eracle è accostata a tale animale: nella terza delle dodici Fatiche, l’eroe è alle prese con la cattura della cerva di Cerinea, sacra ad Artemide, dagli zoccoli di bronzo e dalle corna auree.
Secondo una versione del mito, Eracle la catturò e la sacrificò poi sul monte Artemisio; un’altra versione vuole invece che la rincorresse per un anno intero, spingendosi fino nella terra degli Iperborei, per catturarla senza arrecarle alcun danno. Dal punto di vista mitico questa “fatica” sembra riguardare il cosiddetto Eracle Dattilo, identificato dai Galli con la divinità Ogmio, che inventò l’alfabeto Ogham e donò ai bardi tutte le loro conoscenze.
Pertanto, la caccia alla cerva o alla daina simboleggerebbe la faticosa ricerca della Saggezza, che secondo la tradizione mistica irlandese viene trovata all’ombra di un albero di mele.
La tradizione celtica
Non meno denso di significati è il cervo presso la cultura celtica, che lo considera, assieme al cinghiale, una specie boschiva e sacra. Animale considerato in grado di passare da questo mondo al Sidh (l’Oltremondo celtico), il cervo maschio era allo stesso tempo simbolo di rapidità, prestanza, agilità e vigore, e, quindi, nella sua figura di combattente, archetipo di virilità guerriera.
Nel politeismo celtico troviamo la figura di Cernunnos, il dio cervo associato alla riproduzione e alla fertilità, una delle varianti del dio Lug e assimilato da molti all’Apollo ellenico-romano. Dalle fonti archeologiche risulta che Cernunnos venisse adorato in Gallia, ma anche in Italia settentrionale e sulle coste meridionali della Britannia. La prima testimonianza scritta del nome di questa divinità si ritrova in un monumento eretto dai marinai galli nel I secolo d.C., mentre la fonte iconografica più celebre è senz’altro il Calderone di Gundestrup (I secolo a.C.), sul quale viene rappresentato in figura cornuta e accovacciata, con in mano un torquis, tipico collare ornamentale celtico, e un serpente simbolo di fertilità, contornato da cervi e altri animali.
Nell’adorazione del dio cervo da parte dei Celti, non è difficile scorgere da un lato la celebrazione del ciclico risveglio della natura (le sue corna sono considerate come piante che d’inverno scompaiono e in primavera ricrescono), dall’altro un collegamento con l’irraggiamento del sole e quindi con il solstizio d’inverno e con l’anno nuovo.
È interessante osservare come l’eroe Finn Mac Cumhal, noto nelle saghe irlandesi medievali e personaggio cardine del Ciclo Ossianico, si trovi, in un’avventura, a rincorrere una bellissima cerbiatta, che si scopre in realtà essere una fanciulla colpita dall’incantesimo di un mago. Liberata dal sortilegio, Finn la sposerà e avrà da lei un figlio, Oisin (ossia il «Cerbiatto»), destinato a diventare il famoso bardo cantore delle gesta di Finn e dei Fianna. Nel frattempo, il crudele mago trasforma di nuovo la donna in cerva e la stessa fugge per sempre nella foresta, dove alleva il piccolo Oisin fino all’età di sette anni, quando sarà ritrovato dal padre sotto un albero. In un altro episodio Finn viene spinto da una fanciulla con le sembianze di cerva a cercare un anello tuffandosi in un lago, dal quale riemerge vecchio e irriconoscibile, e solo grazie a una pozione potrà ritornare con le sembianze originarie, conservando però per sempre i capelli grigi.
In un episodio del Mabinogion gallese invece, uno dei personaggi centrali, ossia Pwyll signore di Dyfed, spinto dal grande desiderio di possedere uno splendido esemplare di cervo, viene portato a scontrarsi con Arawn, signore dell’Aldilà, a riconoscere il torto commesso nei suoi confronti e a trascorrere un anno nel suo regno.
La simbologia del cervo non è estranea neppure al mondo nordico germano-scandinavo: nella mitologia norrena si parla di quattro cervi che vivono tra le fronde di Yggdrasill, l’albero cosmico, e ne brucano le foglie, cos’ come si narra del cervo Eikpyrnir che dimora nelle sale del Valhalla.
La visione cristiana
L’immaginario del cervo, così come percepito dall’uomo medievale, filtra concetti desunti dalla sacralità posseduta dall’animale nell’antico mondo pagano. Ma la visione cristiana del cervo, identificato a seconda dei casi con Cristo stesso o con il fedele, deriva direttamente da due passi della Bibbia. Innanzitutto, dalle parole iniziali del Salmo 42 di David: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?». In secondo luogo, dagli ultimi versi del Cantico dei Cantici attribuito a Salomone (testo che è stato da sempre oggetto di discussione da parte degli esegeti, in quanto ci presenta apparentemente un dialogo dalle forti valenze passionali tra due innamorati, ma che è una metafora dell’amore di Dio per Israele, e comunque del matrimonio mistico tra l’anima e Dio o Cristo), lì dove dice: «Fuggi, mio diletto, simile a gazzella o a un cerbiatto, sopra i monti degli aromi!». Se il simbolismo della sete e dell’arsura d’acqua (piuttosto comune nel Salterio e usato con riferimento alla cerva anche da Geremia), è un’allusione piuttosto chiara all’anima che si disseta nella sorgente eterna di Dio, l’invito a fuggire come una gazzella – osserva Franco Cardini – potrebbe essere inteso in senso ambivalente. Ovvero come l’anima che è invitata a fuggire dal diavolo e quindi dal peccato, oppure quale simbolo di Cristo, che, con la fuga, si sottrae a chi non è puro di cuore.
Comunque sia, tali passi biblici segnano in senso cristologico l’immagine dell’animale e, assieme alle notizie che ci fornisce Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, contribuiscono a delineare l’immaginario del cervo che ci è consegnato dai bestiari medievali, anche se con differenziazioni da caso a caso. Plinio ci dice che i cervi si fidano dell’uomo e si rivolgono a lui quando sono inseguiti dai cani, conoscono e usano alcune piante medicamentose e hanno l’abitudine di attraversare fiumi e altri corsi d’acqua in gruppo disposti in lunga fila, ponendo ognuno la propria testa sulla groppa del compagno. Sempre da Plinio ci deriva la notizia secondo la quale il cervo è nemico dei serpenti, che stana grazie al soffio delle sue narici. Sulla base di quanto contenuto nei passi biblici e nelle narrazioni di Plinio, i bestiari medievali elaborano una visione moraleggiante della figura del cervo.
Secondo il Physiologus, scritto da autore anonimo ad Alessandria d’Egitto tra il II e III secolo d.C., «se il drago sfugge al cervo e si nasconde nelle crepe del terreno, il cervo va a riempire le cavità del suo ventre d’acqua di fonte e la vomita nelle crepe del terreno, e ne trae fuori il drago, e lo schiaccia e lo uccide. Così anche il Signore nostro ha ucciso il grande drago per mezzo delle acque celesti di virtuosa sapienza… non può il drago sopportare l’acqua, né il demonio la parola celeste. Il Signore è venuto a dare la caccia al grande drago: allora il demonio si è nascosto nelle parti più profonde della terra, quasi in una grande crepa, e il Signore ha versato dal proprio petto il sangue e l’acqua, ci ha liberato dal drago mediante il lavacro di rigenerazione, e ha distrutto in noi ogni nascosta influenza diabolica». In tale contesto quindi il cervo si identifica con il Cristo, che combatte e sconfigge il male rappresentato dal drago.
Differente è la raffigurazione che ne dà il Bestiario di Cambridge (XI secolo), secondo il quale il cervo quando è malato si avvicina alle tane dei serpenti, li cattura e li aspira con le narici (in quanto il loro veleno non gli procura danno), e se li mangia per riacquistare la salute; poi si reca alla fonte più vicina e bevendo ritrova la giovinezza. Nell’allegoria di tale bestiario il cervo rappresenta invece il cristiano peccatore, che dopo aver commesso il peccato, ritrova la purezza abbeverandosi all’acqua del sacramento della confessione.
Nel Bestiario moralizzato di Gubbio, opera di anonimo che ebbe vasta diffusione in ambiente umbro a partire dalla seconda metà del XII secolo, troviamo una valenza leggermente diversa: «Conmo lo cervo trae lo serpente d’entro la terra co lo vivo fiato e sì lo mangia deletosamente, volendo renovare lo suo stato; perkè l’veneno no li sia nocente, recorre a l’acqua et è deliberato. Questa semelitudine abbi a mente, amico, se vuoli essare salvato: co l’odorato trae a te Cristo, e mangialo con fede e con amore, e Esso te farà renovellare; veneno de sententia ond’e’ tristo, ko lacrime ke vengono dal core lavandote, porrai securo stare». In questo caso il serpente perde il suo valore demoniaco per diventare – sulla base di alcuni passi dell’Antico Testamento – simbolo di Cristo stesso, della cui dottrina il fedele deve cibarsi; se però la convinzione di stare dalla parte della ragione lo rende superbo (riappare l’elemento negativo del serpente), potrà salvarsi con l’acqua delle lacrime di sincero pentimento.
La visione del Libellus de natura animalium è ancora più complicata: così come il cervo, oppresso dal peso delle corna, cammina a testa bassa e mangia i serpenti che incontra, e poi, per guarirsi dal loro veleno, corre a bere alla fonte e ringiovanisce, allo stesso modo il cristiano, oppresso dai peccati, non può guardare al cielo e incorre nei demoni, ma può salvarsi ricorrendo a Cristo, Acqua di Vita. Invece la pratica dei cervi che attraversano i torrenti aiutandosi l’un l’altro viene interpretata dal Libellus come un’allegoria dei cristiani, che si sostengono vicendevolmente per passare alla vita celeste.
Il crocifisso tra le corna
Sulla base del significato cristologico assunto dall’animale, numerose leggende medievali associano l’immagine del cervo a figure, più o meno storiche, di santi. Basti pensare che il cervo risulta attributo nelle storie e nell’iconografia di Abbondio da Como, Corrado di Piacenza, Donaziano, Lamberto, Meinhold, Procopio da Brema, Osvaldo. Anche in terre tipicamente celtiche, come il Galles, l’animale è avvicinato al santo Cadoc (VI secolo), mentre è significativo che in Bretagna vi sia il leggendario San Cornély e che i due santi Edern e Thélau siano raffigurati mentre cavalcano i cervi.
Le figure più note risultano però senza dubbio quelle di Eustachio, Uberto ed Egidio. La vicenda di sant’Eustachio, priva di fondamento storico, si diffuse a partire dal XII secolo, soprattutto in Francia, e, successivamente, in Germania. Placido, così era il suo nome originario, era un soldato romano al tempo dell’imperatore Traiano, uomo retto e devoto alle divinità. Un giorno, durante una battuta di caccia, inseguí un cervo che si era allontanato dal branco; raggiuntolo nel folto della foresta, riuscí a ferirlo e l’animale si voltò verso di lui. Placido vide apparire tra le corna del cervo un crocifisso luminosissimo che gli parlò dicendo: «Io sono Gesù che onori senza saperlo». Placido si prostrò, e la notte stessa si fece battezzare insieme alla moglie e ai figli. Da allora, preso il nome di Eustachio, fu costretto a superare numerose prove, e, pur di non rinnegare la propria fede praticando sacrifici a Giove, accettò la condanna alla pena capitale, trovando una morte orribile dentro un toro di bronzo rovente, che talvolta diviene un suo attributo iconografico. La leggenda del santo fu molto amata nel Medioevo perché offriva l’occasione per rappresentare uno dei passatempi preferiti dai nobili, la caccia con i cani, basti pensare a come è raffigurata da Pisanello La visione di sant’Eustachio (1438-42); Albrecht Dürer, invece, nell’Altare Paumgartner (1501-1504) dipinge il santo in figura di soldato con un vessillo bianco raffigurante una testa di cervo sovrastata da un crocifisso.
Molto simile alla leggenda di Eustachio e probabilmente dalla stessa influenzata è la vicenda di sant’Uberto; vissuto a Maastricht, in Olanda, tra il VII e l’VIII secolo, era di nobili origini e, nominato vescovo, dedicò la sua opera alla evangelizzazione dei pagani che vivevano nei boschi ai confini della sua diocesi, nel Brabante meridionale e nelle Ardenne. La leggenda vuole che un Venerdì Santo, mentre si trovava a cacciare nella foresta delle Ardenne, fosse apparso a Uberto un cervo con un crocifisso tra le corna, invitandolo a rinunciare ai piaceri del mondo. Rimasto vedovo, Uberto si pentì della sua vita distratta da altri valori e si ritirò in quella foresta per farvi penitenza.
Se nell’agiografia di Eustachio e Uberto l’apparizione del cervo simboleggia il Cristo che invita il cristiano a riconoscere il vero Dio o comunque a imprimere una svolta di fede alla propria esistenza, nella storia di sant’Egidio si assiste a un vero connubio tra l’uomo e l’animale, sia sotto un profilo di coabitazione, sia sotto un profilo “alimentare”. Le vicende del santo, nato probabilmente in Grecia all’inizio del VII secolo, e recatosi in Provenza ove fondò un monastero detto poi di Saint-Gilles, narrano che egli vivesse come eremita in una grotta, assieme a una cerva, nutrendosi del suo latte e dell’acqua di una sorgente. La leggenda aggiunge pure che il re dei Visigoti Flavio Wamba, trovandosi a cacciare per caso in prossimità dell’eremo, vide la cerva e la seguì fino alla grotta di Egidio, dove si era rifugiata. Il santo pregò affinché nessuno entrasse nella grotta, e, per proteggere l’animale, rimase ferito a una gamba da una freccia scagliata da un soldato, che lo rese zoppo. Non ci si può esimere peraltro dal fare un paragone neppure tanto azzardato: se nel Salmo di David il cristiano-cervo si disseta alla Fonte del Signore, in questo episodio l’eremita Egidio trae sostentamento materiale ma soprattutto spirituale dal cibo offertogli da Cristo sotto forma di cerva.
Nei romanzi
La letteratura cortese, e in particolare la «materia di Bretagna », vede la figura dell’animale disseminata ad ampio raggio. Ciò si deve all’antico retaggio e valore che il cervo possedeva presso la cultura precristiana dei luoghi, valore che si arricchisce di significati cristologici, mischiandoli, peraltro, a quelli leggendari e magici ancora persistenti. La serie potrebbe essere molto lunga, ma ci limitiamo a qualche esempio. Goffredo di Monmouth, nella sua Vita Merlini (1148), ci narra dell’episodio della “follia” del profeta, che si rifugia nella foresta di Caledonia e suoi unici interlocutori sono i lupi e, appunto, i cervi, in groppa ai quali si muove rapidamente nella selva e i cui branchi capeggia. L’aspetto di cervo è uno dei preferiti da Merlino nelle sue magiche metamorfosi, come quando nel Ciclo Vulgato (1215-1235) si presenta al cospetto di Giulio Cesare a Roma e gli svela il vero significato di un sogno che lo tormenta. Tanto nella mitologia celtica quanto nella letteratura bretone molte storie iniziano con una caccia al mitico Cervo Bianco, un animale rarissimo e simbolo di purezza, una creatura magnifica e fatata allo stesso tempo, che da un lato esiste per il sacro scopo di essere inseguita, dall’altro risulta spesso messaggera – o conduttrice – dell’Altromondo e comunque preannunciatrice di eventi o di apparizioni di ordine superiore. Un primo esempio ci viene dalla storia The Wedding of Sir Gawain and Dame Ragnell (giuntaci nella versione più completa in un’opera datata al XIV secolo circa), la quale narra di come re Artù avesse ucciso, durante una battuta di caccia, un favoloso cervo bianco e di come, subito dopo, un misterioso cavaliere, di nome Gromer Somer Jour, a seguito di un oltraggio subito, gli avesse dato appuntamento esattamente a distanza di un anno per mozzargli la testa, salvo il caso che il re fosse riuscito a rispondere correttamente a una enigmatica domanda. Il nipote Gawain, pur di aiutare Artù, accetterà senza esitazioni di prendere in sposa Ragnell, Dama rivelatrice del misterioso quesito ma di aspetto ripugnante, che sarà cosí liberata da un terribile incantesimo e riacquisterà le fattezze di una splendida fanciulla.
La conquista della dama più bella
L’episodio più noto che allude al mitico animale è contenuto probabilmente nel romanzo Erec et Enide, composto tra il 1165 e il 1170 da Chrétien de Troyes, in cui la vicenda inizia nel giorno di Pasqua quando re Artúù decide di ripristinare l’antica tradizione della caccia al Cervo Bianco: chi riuscirà a catturarlo avrà diritto al bacio della dama più bella (ovvero, in una versione della storia presente nei Mabinogion gallesi, Gereint ed Enid, a donare alla fanciulla stessa la testa dell’animale). Da questo presupposto si sviluppa il tessuto narrativo che vede il protagonista, Erec, conoscere colei che diverrà sua sposa e che compare sulla scena circondata da un’aura quasi fatata e divina.
Pertanto, quello che sembra a prima vista un gioco o passatempo di corte a contenuto erotico che allude alla conquista della donna, assume, nel romanzo di Chrétien, quelle connotazioni magiche e sacrali presenti nell’antica tradizione celtica. È da notare che anche il Guigemar, uno dei Lais di Marie de France, vede il protagonista alle prese con la caccia a una cerva dal candido aspetto, a seguito della quale si ritroverà ferito a una gamba e condotto da una barca fatata in un regno sconosciuto dove incontrerà una dama che con il suo amore potrà risanare la sua piaga.
La figura del cervo assume un significato peculiare anche all’interno dei Racconti del Graal, tanto da rappresentare quasi un “animale guida”, che indica il cammino da seguire o precede l’accadimento di eventi prodigiosi.
Nel Perceval di Robert de Boron (secondo libro della sua trilogia), l’omonimo eroe arriva a un castello misterioso, nel quale gioca una partita con una scacchiera magica le cui pedine si muovono da sole e si innamora perdutamente di una bellissima fanciulla, che gli promette il proprio amore solo se riuscirà a riportarle il Cervo Bianco. Perceval parte per la battuta di caccia e sarà questa la spinta, dopo scontri con misteriosi cavalieri, che lo condurrà a incontrare di nuovo sua sorella, la quale lo indirizzerà poi presso lo zio eremita e quindi al castello del Re Pescatore.
Ancor più chiaro è il messaggio simbolico all’interno di una vicenda narrata nella Queste du Saint Grail (La ricerca del Santo Graal, libro che fa parte del Lancelot-Graal o Ciclo Vulgato). Perceval, Galahad e Bohort, in compagnia della «Pulzella-che-non-mentì-mai», durante il cammino per arrivare a una fortezza, si perdono nella fittissima foresta. Dietro consiglio della ragazza, tutti si mettono a pregare e improvvisamente dalla boscaglia sbuca un cervo bianco con una catena d’oro al collo, scortato da quattro leoni. Gli animali conducono i cavalieri a una cappella, dove un prete si accinge a celebrare la messa. A questo punto, miracolosamente, i quattro leoni si trasformano in uomo, in bue, in aquila e in leone alato, mentre il Cervo Bianco prende le sembianze di uomo e prende posto autorevolmente in uno scranno sopra l’altare. Indi se ne volano via, sollevando lo scranno sul quale siede l’uomo, e attraversano la vetrata della cappella senza rompere alcun vetro.
In questo episodio della Queste pertanto, se i leoni alludono chiaramente alla figura dei quattro Evangelisti, il candido animale, incarnazione del Salvatore stesso, sembra riepilogare – a mo’ di summa – il percorso simbologico del cervo, dalla mitica e primitiva sacralità boschiva sino ad arrivare alle connotazioni cristiane che lo hanno caratterizzato nel Medioevo europeo.
Domenico Sebastiani
* Questo articolo è stato pubblicato sul mensile «Medioevo» n. 8 (151), agosto 2009, pp. 44-55.
Da leggere:
Franco Cardini, Il Cervo. Mostri, belve, animali nell’immaginario medievale, pubblicato sulla rivista «Abstracta», n. 12 (febbraio 1987), disponibile in rete.
Robert Graves, I Miti Greci, Longanesi, 1996.
Lucia Impelluso, Eroi e Dei dell’antichità, Mondadori Electa, 2002.
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Luigina Morini, Bestiari Medievali, Einaudi, 1996.
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Paolo Gulisano, L’Isola del destino. Storie, miti e personaggi dell’Irlanda medievale, Ancora, 2004.
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