A Firenze l’8 giugno 1290 una donna giovane e ricca morì di parto. Aveva compiuto da poco 24 anni. Si chiamava Bice. Era la figlia di Folco Portinari, un facoltoso banchiere fiorentino, originario di Portico di Romagna, piccolo centro dell’Appennino forlivese cresciuto nella vallata del Montone, lungo la strada che conduceva a Firenze, famoso fin dall’epoca dei Romani come luogo di mercati, da cui il nome stesso (“porticum”).
Il paese, che a partire 1386 diventerà il capoluogo dei territori romagnoli della Repubblica Fiorentina, conserva ancora la sua struttura urbanistica medievale, con le abitazioni intrecciate dai passaggi coperti: tre piani di case sovrastanti, dominate dall’alto da una torre e dal palazzo del podestà.
Nel livello intermedio, tra gli edifici nobiliari, più in alto delle case un tempo abitate dagli artigiani e dai popolani, ancora oggi si riconosce il palazzo dei Portinari che la piccola Bice frequentò a lungo nella sua infanzia.
Folco era il direttore di una filiale di credito legata al Banco dei Medici. Diventò ricchissimo grazie alle finanza e alle alte e ripetute commissioni sui prestiti.
Firenze, come era inevitabile, diventò presto la sua città.
Affari e politica, allora come oggi, erano legati a strati, come le case di Portico. E Folco, nel 1282, di Firenze diventò anche priore.
Come altri finanzieri, per salvare la sua anima dal peccato dell’usura, spinto da Monna Tessa, la governante di famiglia e incoraggiato anche dal vescovo Andrea dei Mozzi, nel 1285 decise di donare una buona parte della sua fortuna alla fondazione di Santa Maria Nuova, che ancora oggi è il più importante ospedale del centro di Firenze. A Folco è tuttora intitolata la strada che costeggia l’antico arcispedale, tra via dell’Oriuolo e piazza Santa Maria Nuova.
L’idea assistenziale di Monna Tessa era ispirata dalla regola di San Francesco d’Assisi. La fantesca, di umili origini, fu la prima donna infermiera, fondatrice dell’Ordine delle Oblate nell’anno 1288. Era così ascoltata dal banchiere perché aveva cresciuto tutte e sei le figlie femmine della famiglia Portinari. Bice, ricca di dote e di grazia, era destinata a un matrimonio importante.
E così avvenne. Giovanissima, sposò il figlio di un importante collega del padre: Simone, detto Mone, appartenente alla ricchissima famiglia dei Bardi, originari di Ruballa, un paesino vicino Bagno a Ripoli.
I Bardi con le loro fortune, segnarono la storia della città: al massimo dello splendore, la loro compagnia era una delle più ricche del Trecento, con decine di filiali in Italia, Europa, Africa e Asia. Per un lungo periodo, insieme ai Peruzzi e agli Acciaiuoli, i Bardi ebbero il monopolio delle finanze papali. La loro ascesa fu eclatante, così come il crollo delle loro fortune: nel 1343, durante la famosa rivolta popolare contro le grandi famiglie cittadine, la loro residenza fu assalita e saccheggiata dalla folla inferocita. E due anni dopo, nel 1345, quando il re d’Inghilterra Edoardo III si rifiutò di restituire ai Bardi e ai Peruzzi i debiti contratti nella guerra dei Cento Anni, la compagnia dichiarò un clamoroso fallimento che ebbe conseguenze gravissime su tutta l’economia fiorentina.
Ma nel giugno del 1290, più di cinquanta anni prima di questi avvenimenti, la morte di Bice Portinari lasciò un altro segno. Indelebile. Non solo a Firenze ma nell’anima e nella memoria di Dante Alighieri. La figlia di Folco Portinari, maritata con un Bardi, fu sepolta nella tomba della famiglia del marito, in Santa Croce: il sepolcro, vicino alla Cappella dei Pazzi, è segnalato da una lapide sui cui spicca l’antico stemma familiare.
Ma grazie ai versi scolpiti del poeta, Bice vive ancora, in tutti noi, da secoli, con il nome di Beatrice, simbolo d’Amore, Sapienza e ansia eterna di Bellezza.
Una donna amata e perduta. La prima a lasciare una traccia immortale nella storia della letteratura italiana.
La riflessione di Dante intorno all’incontro con Beatrice diventò il vero punto di svolta della sua maturazione umana e poetica.
La sua morte gettò il poeta nella costernazione. Le parole che Dante ci ha trasmesso raccontano un turbamento indicibile, un “traviamento morale” che più tardi porterà Alighieri allo studio approfondito della filosofia. E nel “Convivio”, l’amore per una donna diventerà amore per il sapere.
Le “Rime petrose” (“Così nel mio parlar voglio esser aspro”), tutte scritte dopo il 1296, tra la morte di Beatrice e l’esilio, furono l’occasione di nuove esperienze poetiche.
Nel nome di Beatrice è invece tutta la “Vita Nova”, che vedrà la prima pubblicazione quasi tre secoli dopo, nel 1576, ma fu composta tra il 1292 e il 1293, due anni dopo la fine terrena di Bice Portinari.
I versi e la prosa si alternano e mescolano la vita con la letteratura, in quella che è una vera e propria autobiografia: la gioia per l’amata in vita è legata alla ricerca di una consolazione per la sua morte.
Beatrice è la fonte perenne da cui sgorga la poesia di Dante. Un libro della memoria, a partire dall’incipit. La vita di Dante è “rinnovata dall’amore“. Il più nobile dei sentimenti, libero, perché lontano dalle cose terrene, diventa il motore di una profonda introspezione umana e morale e il nutrimento fondamentale di una rinascita esistenziale.
Dante cominciò a raccogliere i suoi primi versi in un’unica opera proprio a partire dal 1290. Il libro accoglie 25 sonetti, 1 ballata e 5 canzoni, all’interno di una struttura in prosa divisa in 42 capitoli. I testi più antichi risalgono al 1283, quando il poeta aveva solo 18 anni.
Nel celebre sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare“, Beatrice è una visione: “cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare“.
“Cosa” perché le parole non possono descriverla in modo pieno e forse nemmeno definirla: è una donna vera ma anche una creatura celeste, meraviglioso riflesso dell’ansia di ascesa spirituale e di purificazione del poeta e di chi legge i suoi versi immortali.
“Da cielo in terra a miracol mostrare…“. Dante racconta: la prima volta che vide Beatrice aveva appena nove anni e nove mesi. Bice aveva compiuto nove anni e tre mesi. Il poeta la rivide solo un’altra volta a 18 anni, nel 1283, e sempre all’ora nona (le 15). Il 9, che rappresenta il miracolo, accompagna le apparizioni dell’amata: quadrato di 3, è il numero perfetto, simbolo della Trinità. Si identifica in Cristo, figlio di Dio. Beatrice, scesa in terra per salvare Dante, è quindi una figura esemplare dell’Amore. Così la storia d’amore non appartiene solo al poeta ma all’umanità intera.
Con la “Vita Nuova” inizia la “tirannia d’Amore”, di Beatrice, protagonista anche nelle “Rime” e soprattutto nella “Commedia”. All’inizio, amata e cantata secondo i canoni dell’amor cortese, “donna-angelo” dello Stilnovo. Ma è già una raffigurazione di Cristo. E sembra anticipare il valore allegorico che avrà nella “Commedia” che Giovanni Boccaccio nel “Trattatello in laude di Dante” (1373) volle chiamare “Divina”. L’opera di poesia più grande della civiltà medievale e di tutti i tempi. Capace, proprio perché scritta in “volgare”, di arrivare al cuore di tutti gli uomini, di qualunque condizione sociale.
Dalla “selva oscura”, allegoria dello smarrimento del poeta, fino alla redenzione finale e alla visione di Dio nel Paradiso. Beatrice è il simbolo di un itinerario che conduce a Dio.
Evocata da Virgilio già nel secondo canto dell’Inferno, quando il poeta mantovano rivela a Dante la missione che lo attende:
“E donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella…”
Beatrice è spinta, per sua stessa ammissione, dall’amore divino:
“amor mi mosse, che mi fa parlare…”
Sulla cima del monte del Purgatorio (canto XXX) sostituisce Virgilio come guida di Dante:
“Sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva”
Beatrice appare avvolta in una nuvola di fiori. E rimprovera con durezza Dante che ha abbracciato il peccato e abbandonato il suo amore:
“questi si tolse a me, e diessi altrui”
Nel Paradiso, il suo ruolo si compie con pienezza. Nel primo Cielo della Luna (canto IV) diventa pura verità, scienza divina. E scioglie i dubbi teologici di Dante:
“O amanza del primo amante, o diva”,
diss’io appresso, “il cui parlar m’inonda
e scalda sì, che più e più m’avviva…”
La donna risponde al poeta con uno sguardo sfavillante d’amore:
“Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi perdei con li occhi chini.”
Beatitudine e dolcezza, bellezza unita a letizia: questa è Beatrice nella visione del grande poeta.
Poi, nell’Empireo, nel decimo cielo del Paradiso (canto XXXI), la donna torna nel suo seggio, nella Candida Rosa. Nell’ultimo tratto del viaggio ultraterreno il ruolo di guida viene assunto da San Bernardo di Chiaravalle.
Ma il mistico si muove ancora per volontà di Beatrice, con lo scopo preciso di esaudire il desiderio finale del poeta, quello della visione di Dio:
“E “Ov’è ella?”, sùbito diss’io.
Ond’elli: “A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio”
Dante sa bene che se è giunto sin lì e ha potuto vedere tante cose è grazie al potere e la bontà della donna amata. E la ringrazia:
“Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana.”
Nella Vita Nuova Beatrice era stata “figura” di Cristo soltanto per Dante. La donna amata nella Divina Commedia diventa l’ispiratrice della sua poesia: una maestra di verità, incarnazione stessa della visione divina che permette a Dante e all’umanità intera di arrivare al Paradiso e alla contemplazione di Dio.
Una donna donna reale e insieme una figura celeste, frutto della fantasia poetica. Il nome latino di età imperiale Beatrix, nasce da beatricem, “colei che dà beatitudine”, “colei che rende felici”. Anche per Dante fu con ogni probabilità un senhal, un nome fittizio impiegato per la prima volta nella poesia trobadorica. In genere, il termine era riservato alla donna amata ma celava anche l’identità degli amici o di altri personaggi.
Guglielmo d’Aquitania, per esempio, nascondeva il nome dell’amata con la parola “bon vezi“, il buon vicino. Sordello da Goito parlava di una “dolza enemia”, una nemica dolce, oppure di “restaur” (ristoro).
E Raimbaut de Vaqueiras (1165 -1207), che ispirò anche Petrarca nei suoi “Trionfi”, chiamava la sua dama, capace ad usare la spada come un uomo, “bel cavaller”.
Raimbaut fu un precoce joglar, abile menestrello. Alla corte di Guglielmo del Baus, principe d’Orange imparò il mestiere delle armi e si affermò presto come un trovatore. Intorno al 1190 lasciò la Provenza e si trasferì nell’Italia del Nord. A Tortona lavorò alla corte dei Malaspina. Poi passò al servizio di Bonifacio del Monferrato, capo della quarta crociata. Tra i castelli piemontesi si innamorò perdutamente di una donna di nome Beatrice, sorella del marchese, che da allora diventò la protagonista dei suoi versi. La penultima strofa del suo canto più famoso, “Kalenda Maya” (Calendimaggio in provenzale) recita:
“Tanto gentile sboccia,
per tutta la gente
Donna Beatrice, e cresce
il vostro valore;
di pregi ornate ciò che tenete
e di belle parole, senza falsità;
di nobili fatti avete il seme;
scienza, pazienza
avete e conoscenza;
valore al di là di ogni disputa
vi vestite di benevolenza.
Donna graziosa,
che ognuno loda e proclama
il vostro valore che vi adorna,
e chi vi dimentica, poco gli vale la vita…”
Dante, che conosceva il provenzale e i poeti provenzali, quasi cento anni dopo scrisse i celeberrimi versi:
“Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira”.
Federico Fioravanti