Storia dell’inchiostro

da

RotoliMarMortoIn principio era cenere e acqua. Il brodo primordiale da cui nacque l’inchiostro, all’incirca 4500 anni fa, fu il nerofumo, che rivoluzionò la scrittura e cambiò per sempre la storia dell’uomo.

Veniva preparato da fuochi di legno, resti vegetali o anche animali. Ed era proprio il fumo il prezioso prodotto delle combustioni da conservare. I materiali da ardere dovevano quindi essere coperti, racchiusi in una sorta di pentola con coperchio, fatto di terracotta e poi di metallo, in modo che le particelle di cenere non si disperdessero, ma si depositassero in una patina scura sulle superfici interne del contenitore. Lo dice la parola: inchiostro, dal latino encàustum e prima ancora dal greco en-kaustón, è qualcosa che è bruciato al coperto.

Così, il principale prodotto solido della combustione, il carbonio, veniva recuperato già condensato e pronto da mescolare con l’acqua, perché diventasse abbastanza scorrevole da poter tracciare i magici segni delle parole e delle immagini.
Ma se in un’altra sua forma, la grafite, il carbonio è ancora oggi l’elemento più amato da chi non ha perso il piacere di utilizzare una matita, nel nerofumo il mezzo poteva risultare poco omogeneo, troppo sensibile all’umidità e soggetto a spandersi sulla superficie da scrivere o disegnare.

Una importante evoluzione arrivò dall’Oriente con l’inchiostro di china. Verso il 400 d.C. un cinese di nome Wei-Tang elaborò un procedimento in cui la combustione avveniva sotto un imbuto, che convogliava il fumo a condensare su una superficie più circoscritta. La fuliggine concentrata che si otteneva era poi miscelata con colle preparate da corna o pelli animali. Ne risultava una sostanza duttile, che poteva anche essere impastata a formare bastoncini per scrivere: vere e proprie matite ante litteram. L’inchiostro di china, molto usato in Oriente per oltre mille anni, veniva esportato in Occidente anche con il nome di inchiostro indiano. Secondo i trattati cinesi, il prodotto più pregiato era ricavato dalla combustione di oli e resine di specie selezionate di pini, e la colla di migliore qualità era ottenuta dalle corna di cervo. Ma la preparazione laboriosa e l’esportazione rendevano la china costosa, benché le sue prerogative fossero ottime: aveva una stabilità notevole alla luce e al tempo, molto superiore rispetto agli inchiostri usati allora in Europa. Nel X secolo fu introdotta una variante che, sfruttando la fuliggine delle lampade a olio, ridusse i costi e aumentò la disponibilità del prodotto.
Un altro inchiostro in uso era il seppia, di colore nero-marrone, ricavato dalle secrezioni della Sepia officinalis o altri cefalopodi e il cui componente essenziale è la melanina.

Galla e solfato

Galla di roverella (Quercus pubescens) e solfato di ferro (vetriolo verde), che si ricavava dalle mineralizzazioni formate su alcuni tipi di rocce al passaggio dell’acqua.

Ma gli splendidi documenti, i codici miniati e le mappe geografiche, fino alle più alte espressioni dell’arte figurativa prodotte dal Duecento in poi, si devono ad un’altra importante preparazione: l’inchiostro di galla o ferrogallico che, nelle sue infinite declinazioni, fu il principe degli inchiostri dal Basso Medioevo fino all’avvento delle moderne tecniche di produzione dei mezzi di scrittura. Cenni sul potere colorante della galla sono presenti fin dall’età romana.

Le prime ricette conosciute per il suo utilizzo sono contenute nei papiri di Leida e Stoccolma (III-IV secolo). Ma fu durante il Medioevo che la tecnica venne applicata in maniera estesa nel campo della scrittura e conobbe il suo periodo di massima diffusione, sia per la facilità di preparazione che per il costo ridotto.

La particolarità di questo tipo di inchiostro è di sfruttare il tannino, un colorante vegetale molto abbondante nelle galle, piccole escrescenze dovute all’azione di parassiti sulle querce e altri tipi di piante. Dalle galle (le più pregiate erano quelle di Aleppo, in Siria), decorticate e polverizzate con un pestello, si ricavava una polvere che, unita al solfato di ferro, in un certo tempo diventava completamente nera. L’aggiunta di gomma arabica, estratta da alcune varietà di acacia e solubile in acqua, era usata come addensante per dare alla polvere omogeneità e scorrevolezza.

Questo inchiostro penetrava profondamente nelle fibre della pergamena e della carta ed era praticamente indelebile, ma il processo di annerimento richiedeva periodi di esposizione all’aria abbastanza lunghi. Per evitare di iniziare a scrivere con un inchiostro quasi trasparente e abbreviare i tempi di utilizzo, si poteva aumentare la quantità di solfato di ferro, che però rendeva instabile il composto. Il risultato poteva essere un inchiostro tendente al marrone-rossiccio e, soprattutto, un prodotto acido capace di deteriorare irrimediabilmente la pergamena o la carta.

codice2Così, le ricette per la preparazione del migliore inchiostro di galla si moltiplicarono. Ogni alchimista e scienziato interessato al tema aveva la sua.

Il monaco Teofilo, nel XII secolo, nel trattato“De diversis artibus”, riferisce di un inchiostro a base di ferro. E prescrive, per la sua preparazione, un estratto disseccato e polverizzato della corteccia di alcune piante, mescolato con vetriolo verde (composto di zolfo e ferro) o una miscela di ferro in polvere e tannino. Una alternativa alle noci di galla era il Punica granatum o melograno, frutto la cui scorza è ricca di tannini. Teofilo cita anche l’estratto di cespuglio di biancospino fatto macerare nel vino. Consiglia inoltre di preparare gli inchiostri di oro, argento e rame versando i metalli polverizzati in decotti di noci di galla, di aceto, di vino o di gomma arabica in acqua. E disserta sui vari colori: conosce un “nero di Spagna”, adoperato per produrre una specie di lacca simile all’inchiostro di china. Per il rosso ricorre al minio (dal piombo ossidato) e al carminio (dal cinabro) e per il bianco alla biacca (composto di zolfo e piombo). Queste sostanze, mescolate in albume d’uovo o in gomme vegetali per renderle fluide e scorrevoli e stemperate in vino, aceto o in succhi vegetali per migliorarne l’adesione, servivano per comporre i colori fondamentali delle miniature.

Anche il paziente lavoro di ricerca di Sant’Alberto Magno (1193 – 1280), che raccolse tutto il materiale scientifico dell’antichità classica e del Medio Oriente e che in molti casi non si accontentò dell’autorità dei predecessori, ma volle controllare la bontà delle ricette sperimentandole personalmente, nel suo trattato “De Rebus Metallicis et Mineralibus” riferisce della preparazione di un inchiostro con vetriolo verde. Riporta anche che gli scritti di Plinio illustravano un inchiostro a base di fuliggine di carbone e di una gomma non meglio specificata. E annota una giusta e importante osservazione: l’aggiunta di aceto come legante evita che l’inchiostro danneggi il supporto. E alcuni additivi, come zucchero o miele, erano consigliati per aumentare la brillantezza dell’inchiostro e rallentarne l’asciugatura.

L’uso dell’inchiostro di galla in Occidente fu quasi universale e, a partire dal XV secolo, le ricette diventano sempre più articolate e complesse. È stato utilizzato per la scrittura di una enorme quantità di manoscritti e, nella sua formulazione a base acquosa, è servito anche per la stampa di xilografie. Gli scritti di Leonardo da Vinci sono tra i più importati documenti vergati con inchiostro di galla. Poi, con l’introduzione della stampa tipografica, sorsero problemi di applicazione: l’inchiostro di galla non si depositava uniformemente sulle matrici metalliche e Gutenberg dovette aggiungere alla preparazione degli oli per rendere il composto più pastoso.

La diffusione dell’inchiostro di galla si ridusse solo all’inizio del XX secolo, fino a scomparire con l’introduzione dei pennini metallici, che venivano corrosi a causa delle caratteristiche acide della preparazione. Per un breve periodo si tornò a preferire la china e poi subentrarono gli inchiostri moderni.

Daniela Querci

error: Tutti i contenuti di questo sito web sono protetti.