L’assassinio di Ipazia

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Allegoria della Geometria. Miniatura tratta dal manoscritto Burney 275 degli Elementi di Euclide, nella traduzione latina dall’arabo attribuita a Adelardo di Bath, circa 1309-1316 (British Library, Londra).

Allegoria della Geometria. Miniatura tratta dal manoscritto Burney 275 degli Elementi di Euclide, nella traduzione latina dall’arabo attribuita a Adelardo di Bath, circa 1309-1316 (British Library, Londra).

È l’8 marzo dell’anno 415, un lunedì di quaresima per i cristiani di Alessandria d’Egitto. Un lunedì di silenzio e preghiera. Un lunedì di guerra.

Ipazia, matematica, astronoma, filosofa neoplatonica e insegnante di grande prestigio, sta tornando a casa. Poco più che cinquantenne, è la più importante intellettuale della città, un punto di riferimento non solo per i suoi studenti, ma anche per le autorità politiche e religiose. Non è serena: la tensione è salita alle stelle da quando il vescovo Cirillo è entrato in conflitto con il prefetto Oreste e c’è chi ha messo in giro la voce che sia proprio lei a impedire la riconciliazione.

Non è serena Ipazia, ma non si aspetterebbe mai quello che sta per succedere. La sua lettiga viene improvvisamente circondata da un gruppo di diavoli inferociti: sono fanatici cristiani guidati da Pietro. La assalgono e la tirano giù dalla lettiga, la picchiano. Lei cerca di dimenarsi, chiede aiuto, ma il suo grido è coperto da quello degli assalitori infervorati e soffocato dal suo stesso sangue.

La trascinano fino al Cesareo, l’ex tempio di Augusto diventato la Cattedrale dei cristiani, e qui le strappano la veste, la lasciano nuda di fronte all’altare. Pietro la colpisce con una mazza ferrata mentre gli altri raccolgono dei cocci appuntiti e con questi iniziano a colpirla. Uno, dieci, cento volte il suo corpo viene trafitto in un’orgia mistica di sangue, grida, preghiere, delirio.
Ipazia viene scorticata fino alle ossa e respira appena quando le si avventano sul volto e le cavano gli occhi, ma anche dopo che il suo cuore ha smesso di battere la furia non si ferma: la sua carne viene strappata, il suo corpo fatto a brandelli. Le staccano la testa, le braccia, le gambe; continuano a farla a pezzi finché di ciò che era stato Ipazia d’Alessandria non rimane che una poltiglia sanguinolenta. Allora portano ciò che resta all’inceneritore e bruciano tutto, senza lasciare traccia di una delle donne più importanti della storia dell’umanità.

La morte di Ipazia, Charles William Mitchell, 1885.

La morte di Ipazia, Charles William Mitchell, 1885.

Ipazia era nata ad Alessandria d’Egitto tra il 355 e il 370, suddita dell’Impero romano d’oriente. Suo padre Teone era un filosofo e un matematico molto conosciuto, anche per aver salvato dall’oblìo gli Elementi di Euclide (sua l’edizione utilizzata fino alla fine dell’Ottocento) e per aver commentato e pubblicato l’Almagesto di Tolomeo e scritto un saggio sull’astrolabio piano.
Teone, che aveva osservato e descritto l’eclissi solare del 15 giugno 364, era anche il Rettore del Museo di Alessandria, il principale centro studi della città, e aveva educato la figlia all’astronomia, alla matematica e alla geometria, ma la giovane Ipazia – frequentando la scuola neoplatonica – aveva subito anche influenze teosofiche e occultistiche ereditate da filosofie e religioni egizie e assiro-babilonesi.

È proprio a fianco del padre che la ragazza “debutta” come intellettuale, collaborando ad uno dei suoi libri: è lo stesso Teone a scrivere infatti che la sua edizione del Sistema matematico di Tolomeo è stata “controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia”. Si tratta del volume che contiene la teoria astronomica geocentrica destinata a restare in auge fino all’arrivo di Copernico.
In astronomia Ipazia finisce per superare il suo stesso padre e maestro. Le sue opere non ci sono arrivate, ma ne conosciamo i titoli: Commentario alla Aritmetica di Diofanto, Commentario al Canone astronomico e Commentario alle sezioni coniche d’Apollonio Pergeo, considerato il suo capolavoro. All’insegnamento delle scienze esatte aggiunge quello della filosofia, commentando Platone, Aristotele e i filosofi maggiori e succede al padre come capo della scuola alessandrina.

La scuola fa riferimento al Museo di Alessandria, fondato settecento anni prima da Tolomeo I, generale di Alessandro Magno e primo re dell’Egitto ellenistico, come centro di studi dedicato alle muse, le divinità protettrici delle scienze e delle arti, e ne fa parte anche la più celebre biblioteca dell’antichità.

Il discepolo più illustre di Ipazia è Sinesio, arrivato da Cirene per assitere alle sue lezioni: filosofo, poeta e oratore, Sinesio diventerà vescovo di Tolemaide, cercando di operare una sintesi tra la dottrina cristiana e il pensiero filosofico neoplatonico, e costruirà un astrolabio “concepito sulla base di quanto mi insegnò la mia veneratissima maestra”. “Ipparco – spiega Sinesio – lo aveva intuito e fu il primo a occuparsene ma noi, se è lecito dirlo, lo abbiamo perfezionato mentre lo stesso grande Tolomeo e la divina serie dei suoi successori si erano contentati di uno strumento che servisse semplicemente da orologio notturno”. Un altro strumento costruito seguendo le indicazioni di Ipazia è l’idroscopio, un tubo cilindrico che serve a misurare il peso dei liquidi.

Come Socrate, Ipazia insegna per le strade e tra i suoi ammiratori si annovera anche il prefetto romano Oreste, che cerca spesso il suo consiglio nelle questioni di carattere pubblico. Per Ipazia, infatti, la filosofia non è semplice erudizione, ma “uno stile di vita, una costante, religiosa e disciplinata ricerca della verità”.
“L’Atene di oggi – scrive Sinesio al fratello Evozio – non ha nulla di eccelso a parte i nomi delle località; al giorno d’oggi l’Egitto tiene desta la mente avendo ricevuti i semi di sapienza da Ipazia. Atene, al contrario, che fu un tempo la sede dei sapienti, viene ora onorata solo dagli apicoltori”.

Un busto di marmo della scienziata alessandrina.

Un busto di marmo della scienziata alessandrina.

Anche dopo aver lasciato Alessandria ed essere diventato cristiano, Sinesio rimane legatissimo a Ipazia, a cui invia lettere piene d’affetto (“Abbraccia per me la venerabilissima e piissima filosofa, il beato coro che gode della divina voce, ma soprattutto il beatissimo padre Teotecno”) e ogni suo scritto prima di pubblicarlo. Quando finisce il Dione, in cui delinea il rapporto tra filosofia e letteratura, lo manda a Ipazia con una lettera: “Se tu ritieni che lo scritto debba essere pubblicato, lo destinerò tanto ai retori quanto ai filosofi: agli uni recherà diletto, agli altri profitto, sempre che non venga respinto da te che hai la facoltà del giudizio”.

“Ipazia era giunta a tanta cultura – scrive Socrate Scolastico – da superare di molto tutti i filosofi del suo tempo, a succedere nella scuola platonica riportata in vita da Plotino e a spiegare a chi lo desiderava tutte le scienze filosofiche. Per questo motivo accorrevano da lei da ogni parte tutti coloro che desideravano pensare in modo filosofico”. “La donna – aggiunge Socrate – gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo”.
“Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura – scrive ancora, pochi decenni dopo la sua morte – accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale”.

“Era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente – aggiunge Damascio, un secolo dopo la morte – e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei”.
Divenuta un punto di riferimento così imprescindibile per la città di Alessandria, Ipazia si trova quindi a rivestire – suo malgrado – anche un ruolo politico, vivendo da protagonista il momento più caldo degli scontri interreligiosi tra le varie comunità di Alessandria, che si fanno particolarmente cruenti all’inizio del quattrocento.

Quella destinata a diventare una vera e propria guerra civile inizia durante i lavori di trasformazione del tempio di Dioniso in chiesa cristiana, quando vengono alla luce i resti di un tempio segreto dedicato al culto di Mitra. Tra i resti qualcuno sostiene di aver trovato anche teschi umani e i cristiani lo prendono come il segno che in quel luogo venivano svolti sacrifici umani. Il vescovo Teofilo organizza così una processione antipagana in cui vengono fatti sfilare per la città gli oggetti sacri trovati nel tempio; l’atto di dileggio provoca l’ira dei pagani che attaccano i cristiani, provocando una feroce reazione. Scoppia una vera e propria guerra civile, con i cristiani che assediano il tempio di Serapide in cui si sono rifugiati i pagani.
Lo stesso imperatore Teodosio II, apertamente filo cristiano, è costretto a intervenire inviando una lettera a Teofilo in cui gli chiede di perdonare le offese recate dai pagani concedendogli, in cambio, la distruzione del tempio e dell’annessa biblioteca.

Ipazia, da parte sua, se sotto il profilo filosofico resta neutrale nei confronti del cristianesimo (scegliendo la corrente del neoplatonismo meno ostile al Vangelo), sotto il profilo politico e sociale non può che guardare alla nuova religione con paura e diffidenza: nel cristianesimo vede fanatismo, violenza, intolleranza. I cristiani di Alessandria non fanno che distruggere templi e biblioteche e azzuffarsi in continuazione con ebrei e pagani. La leader della scuola alessandrina tende così a sostenere – con il neoplatonismo – un sistema eclettico di filosofia che prende il meglio da tutte le filosofie religiose contrapposto al dilagare della nuova religione che vuole, invece, cancellarle.

Cirillo di Alessandria.

Cirillo di Alessandria (370-444) è venerato come santo sia dalla Chiesa Cattolica che dalla Ortodossa.

Nel 412 Teofilo muore e al suo posto viene eletto vescovo suo nipote Cirillo, nonostante l’opposizione di buona parte della comunità cristiana che lo considera troppo violento e autoritario.
Coetaneo di Ipazia, Cirillo – venerato oggi come santo – incarna alla perfezione la Chiesa che, dopo l’editto di Teodosio del 380 che ne ha fatto religione di Stato, ha iniziato a trasformarsi da perseguitata a persecutrice e assume in città un potere molto maggiore di quanto ne avesse avuto suo zio: con il suo episcopato quello del vescovo di Alessandria diventa un ruolo politico a tutti gli effetti. Cirillo ha persino una sua guardia personale, un vero e proprio corpo di polizia i cui militi vengono detti “parabolani” e riesce a chiudere le chiese eretiche, spogliando il vescovo novaziano di tutti i suoi possedimenti.

D’altra parte Alessandria è una città in pieno fermento culturale e religoso dove si trovano pagani di ogni culto e cristiani di ogni eresia, oltre che molti ebrei. Sono proprio questi ultimi il successivo obiettivo di Cirillo.

Nel 414, durante un’assemblea popolare, alcuni ebrei denunciano al prefetto Oreste il maestro cristiano Ierace accusandolo di seminare discordie. Si tratta del più strenuo sostenitore di Cirillo, “il più attivo nel suscitare gli applausi nelle adunanze in cui il vescovo insegnava”.
Ierace viene arrestato e torturato, provocando la ritorsione dei cristiani contro gli ebrei e la conseguente reazione della parte ebraica dando luogo a reciproci massacri.

La reazione di Cirillo è durissima: l’intera comunità ebraica viene cacciata dalla città, gli averi confiscati e le sinagoghe saccheggiate e distrutte. Oreste, indignato, fa arrestare i cristiani responsabili degli attentati alle sinagoghe. A quel punto i cristiani, istigati dal Vescovo, si rivoltano contro lo stesso prefetto: un gruppo di parabolani giunti dal deserto circonda il carro di Oreste e lo insulta chiamandolo “sacrificatore ed elleno” e lanciandogli delle pietre. Uno di loro – chiamato Ammonio – riesce a colpirlo e a ferirlo.
La tensione sale alle stelle: un gruppo di pagani, accorsi, disperde i parabolani e cattura Ammonio consegnandolo all’autorità. Oreste fa processare e torturare l’aggressore fino alla morte, ma Cirillo gli tributa solenni onori funebri e lo definisce un martire, come se fosse morto per la fede.

Siamo allo scontro aperto. Oreste si appella all’imperatore Teodosio che però – anche a causa dell’influenza subita dalla sorella cristiana – si rifiuta di intervenire. La situazione precipita nel caos. Cirillo cerca una riconciliazione con Oreste che chiede consiglio a Ipazia.

Cosa abbia risposto Ipazia non lo sappiamo, ma di certo Cirillo è convinto che quella donna non abbia un buon ascendente sul prefetto. Una donna che resta la più importante e autorevole rappresentante del paganesimo, che tiene testa ad ogni uomo smentendo la presunta inferiorità femminile predicata da tutti i padri della Chiesa.

La scuola di Atene

Particolare da La scuola di Atene (1509-1511), Raffaello (Musei Vaticani). Nell’affresco, che rappresenta i più celebri filosofi e matematici dell’antichità, Ipazia è l’unica donna presente.

La donna è “un tempio costruito su una cloaca” aveva scritto Tertulliano, la “porta del diavolo” che dovrebbe “camminare come Eva nel lutto e nella penitenza, di modo che con la veste della penitenza essa possa espiare pienamente ciò che le deriva da Eva, l’ignominia e l’odio insito in lei, causa dell’umana perdizione”. Proprio una donna è diventata adesso il principale ostacolo al trionfo del cristianesimo ad Alessandria. Quella donna è allora l’incarnazione del male e deve morire.

Quali siano le reali responsabilità di Cirillo nell’assassinio di Ipazia non lo sapremo mai. Ma forse, che sia il vero mandante o solamente il responsabile morale, cambia poco. Quel che è certo è che gli assassini rimarranno impuniti e gli ultimi neoplatonici verranno tolti di mezzo dall’imperatore Giustiniano, che chiuderà la scuola alessandrina nel 529.

Unica matematica donna per più di un millennio, Ipazia sarà la sola figura femminile rappresentata nella “Scuola di Atene” di Raffaello.

Come tutti i giganti della storia, la martire pagana è diventata il simbolo di tutto e del contrario di tutto: c’è chi la vede come un Galileo al femminile – vittima dell’oscurantismo della Chiesa – e chi, tutto al contrario, vede nella sua morte lo scontro fra la cultura antica di cui è stata l’ultima grande esponente e la modernità portata dal cristianesimo.

E se gli anticlericali ne hanno fatto un grande vessillo non è mancato nemmeno, da parte cattolica, chi ha tentato ipotesi a dir poco stravaganti, come Diodata Roero Saluzzo, che nel poemetto in versi Ipazia ovvero Delle Filosofie, pubblicato nel 1827, ipotizza una conversione della filosofa al cristianesimo operata da Cirillo e la sua uccisione da parte di un sacerdote pagano.

Arnaldo Casali

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