La diabolica forchetta

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Il coltellino multiuso trovato in una necropoli di Ventimiglia, risale al I-II secolo

Il coltellino multiuso trovato in una necropoli di Ventimiglia, risale al I-II secolo

L’invenzione della forchetta arrivò all’alba del Medioevo. Anche se, per la verità, nel 1917 a Ventimiglia, in una necropoli romana fu ritrovato una specie di “coltellino svizzero da sopravvivenza” ante litteram. Gli archeologi discutono ancora sulla sua datazione. Forse risale al primo o al secondo secolo dopo Cristo. È rimasto un “unicum”. Il curioso strumento conteneva però, insieme a un cucchiaio e un coltello, anche una specie di forchetta da viaggio.

Quel che è certo è che a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, intorno al 400 dopo Cristo, qualcuno già usava forchette a tre punte. La prova è in uno straordinario reperto archeologico che si può ancora ammirare al Metropolitan Museum di New York.

Fu alla corte di Bisanzio che l’acuminato pugnale, l’ “imbroccatoio” che già utilizzavano i Romani, si trasformò in una specie di spillone e poi diventò una forchetta. I rebbi, i denti di metallo della posata, rimasero due per almeno qualche centinaio di anni. Prima c’erano i “ligula” o “lingula”: piccoli attrezzi, a una o due punte, che però servivano esclusivamente per infilzare i datteri o altre golosità infarcite con il miele.

Anche i Longobardi che vivevano nell’Italia meridionale avevano conosciuto l’utensile bizantino: nella miniatura del Codice delle Leggi Langobarde del monastero della Cava, appare una immagine del re Rotari impegnato a pulire un pesce usando un coltello e una specie di forchetta.

Cucchiaio d’argento con forchetta, epoca Romana, III sec. d.C., Metropolitan Museum, New York

Cucchiaio d’argento con forchetta, epoca Romana, III sec. d.C., Metropolitan Museum, New York

Ma quando la posata, nell’estate del 1004, apparve per la prima volta in pubblico, lo stupore fu grande. Teatro dell’evento fu la città di Venezia. L’occasione venne dal matrimonio del giovane doge Giovanni Orseolo II (984-1007) con la principessa bizantina Maria Argyropoulaina, figlia del principe bizantino Argiro e nipote dell’imperatore Basilio II. Le nozze erano già state celebrate qualche giorno prima, in pompa magna, a Costantinopoli e tutta la città lagunare voleva vedere la sposa e partecipare alla grande festa prevista in laguna. La ragazza aveva 17 anni: appena tre in meno del marito che due anni prima il padre, il doge Pietro Orseolo II, aveva voluto associare al comando del governo di Venezia.
Il genitore dello sposo, nipote del santo doge Pietro I, fu uno dei grandi politici che fecero le fortune della meravigliosa città che poi diventerà Serenissima. Pietro II ottenne dagli imperatori Basilio e Costantino la firma della Bolla d’Oro che definì privilegi e concessioni speciali per i mercanti lagunari. E negli stessi anni si ingraziò abilmente anche Ottone III, imperatore del Sacro Romano Impero, che fece da padrino alla cresima di un altro suo figlio, chiamato Ottone proprio in onore del sovrano che governava l’altra grande potenza del mondo. Quando Giovanni Orseolo II sposò la nobile bizantina, il doge Pietro II era già “Dux Dalmatiae”: il 9 maggio dell’anno 1000, giorno dell’Ascensione, aveva dato il via a una imponente spedizione punitiva contro i pirati che infestavano il mare Adriatico.
Quella data segnò l’inizio del dominio veneziano nel canale d’acqua che separa l’Italia dai Balcani: Grado, Pola, Cherso, Veglie, Zara, Spalato, Ragusa e Curzola, vessate dalle discordie che allora laceravano la corona croata, giurarono fedeltà, una dopo l’altra, al vessillo di San Marco. E nella città lagunare la festa dell’Ascensione, chiamata in veneto Sènsa, divenne il giorno della storica cerimonia dello sposalizio con il mare.
Il fidanzamento dell’erede del doge con la nobile bizantina era stato deciso dopo un’altra impresa dei veneziani: la cacciata definitiva dei saraceni da Bari, completata in nome dei “desiderata” di Costantinopoli.

Le nozze di Giovanni e Maria suggellavano quindi una strategica alleanza con la capitale dell’impero. La città accorse in massa al memorabile banchetto che seguì allo scambio degli anelli che era già avvenuto a Costantinopoli. Tutti mangiavano con le mani e levavano brindisi augurali all’indirizzo degli sposi.
La giovane principessa catalizzava gli sguardi e i commenti. Ma rimaneva fredda e riservata. Grande fu la sorpresa di tutti quando estrasse da una custodia una forchetta d’oro a due rebbi e con studiata eleganza iniziò a portare il pasto alla bocca proprio con quello strano strumento.

Nella cerchia bizantina l’accessorio era già diffuso da tempo. Ma i nobili e il popolo di Venezia condannarono quella che apparve come una ostentazione di snobismo: attraverso l’uso pubblico della forchetta, la potente principessa sembrava rimarcare la differenza tra la Venezia popolare dei pescatori e dei commercianti e la grande capitale nella quale era nata e cresciuta.

Il piron, forchetta veneta

Il “piròn”, forchetta veneta

Anche il clero, già diffidente di suo verso tutto ciò che profumava di Bisanzio, levò alte critiche in difesa della semplicità dei costumi. E bollò come peccaminoso l’uso dello strano strumento che i veneziani iniziarono a chiamare “piròn”, per assonanza con la parola bizantina “pirouni”, dal greco “peìro” che vuol dire infilzo. Tanto astio non deve stupire. In quegli anni i rapporti tra la chiesa di Roma e quella ortodossa erano già molto difficili. Le tensioni sarebbero poi culminate nella crisi che portò al Grande Scisma (1054).

In quanto alla principessa, servì a poco la sua cura per l’igiene e la grande attenzione che metteva nel non sporcarsi le mani a tavola come facevano tutti gli altri commensali: pochi anni dopo le fastose nozze, Maria Argyropoulaina, il giovane doge Giovanni Orseolo II e il loro bambino che era stato chiamato Basilio in onore dell’imperatore d’Oriente, vennero uccisi dal morbo della peste a pochi giorni di distanza l’uno dall’altra. Furono sepolti nella stessa tomba, costruita nella chiesa di San Zaccaria con gran dolore del doge Pietro II.

Nelle affascinanti pagine del libro “Medioevo sul naso” (Laterza, 2001) la medievista Chiara Frugoni ha raccontato con maestria la lunga serie delle straordinarie invenzioni che hanno caratterizzato l’Età di Mezzo. La storica ripercorre in poche righe lo scandalo che causò l’apparizione della forchetta nel 1071, in occasione del matrimonio del doge Domenico Selvo, con Teodora Anna Doukaina, un’altra principessa bizantina, sorella dell’imperatore Michele VII.

Il “Basileus”, che a tutti gli effetti tra i suoi tanti titoli poteva vantare anche quello di “Signore di Venezia”, per l’occasione nominò il doge Selvo “protosebasto”. Il titolo di “primo favorito” dell’imperatore era di carattere ereditario: guidata da Selvo, Venezia incrementò grandemente i suoi traffici con Bisanzio e pose le basi per la sua evoluzione da potente città lagunare a stato indipendente e successivamente a Repubblica Serenissima.
Ludovico Antonio Muratori (1672 – 1750), autore degli “Annali d’Italia” e padre della storiografia italiana, ricorda i vani tentativi di Anna Teodora per conquistare i cuori dei veneziani. Insegnò alle dame i segreti del trucco e importò in laguna anche una originale danza bizantina. Ma diede ancora scandalo per via della forchetta. Ne introdusse l’uso non solo in casa sua, ma anche nella cerchia delle famiglie più importanti della città.

San Pier Damiani (1007-1072) e gli altri uomini di Chiesa giudicarono la forchetta come un diabolico strumento di mollezza e perversione. Il santo monaco nella sua opera “De institutione monialis” descrisse in modo scandalizzato il comportamento di Teodora nel giorno del matrimonio: “Non toccava le pietanze con le mani ma si faceva tagliare il cibo in piccolissimi pezzi dagli eunuchi. Poi li assaggiava appena, portandoli alla bocca con forchette d’oro a due rebbi”.

La storica Chiara Frugoni spiega quanto la società medievale fosse poco attenta alle esigenze peculiari dei singoli individui e quanto invece fosse “propensa a pensarsi in gruppo”. La cosa valeva anche per la tavola. Teodora invece ostentava la sua abitudine al lusso in tutti i momenti della giornata, a partire dalla toletta quotidiana: si lavava solo con l’acqua di rugiada e si circondava di incensi e ricercatissimi profumi. Così, quando le sue carni, forse per una grave forma di diabete, andarono in cancrena e la donna morì dopo una agonia atroce, tutti i veneziani videro nella sua fine la giusta punizione divina per i tanti peccati ispirati da una enorme vanità.

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“Il pasto”, miniatura dal “De Universo” di Rabano Mauro, Montecassino, X-XI-sec.

La forchetta però, nonostante gli anatemi, fece strada. Nell’Ultima Cena rappresentata sulla ricchissima Pala d’Oro di San Marco si possono notare due forchette e due coltelli destinati a Cristo e Pietro. E curiose miniature che spuntano dalle pagine del “De Universo” di Rabano Mauro, ospitato nell’archivio dell’Abbazia di Montecassino, mostrano due uomini compiti, seduti a tavola che mangiano con la forchetta mentre dialogano amabilmente. Le scene illustrano il capitolo dedicato ai cittadini, “chiamati così affinché vivano riuniti insieme e la loro vita comune sia più piacevole e sicura insieme”.

Un’altra, solitaria forchetta appare in una delle miniature dell’opera “Hortus deliciarum” (XII secolo) della badessa Herrad di Hohenbourg, conservato a Londra.
L’uso della nuova posata si affermò tra i ricchi borghesi e i mercanti di Pisa, Venezia e Firenze. Nelle corti si seguiva ancora l’etichetta di Ovidio, che imponeva di mangiare con gesto magnifico, usando tre dita per pescare il cibo solido dai piatti.

La Chiesa rimaneva contraria all’uso di quella piccola forca. Lotario da Segni, che poi diventerà papa con il nome di Innocenzo III (1161-1216) ammoniva i fedeli: “A cosa vi servono le tavole imbandite, le tovaglie ricamate, le forchette e i coltelli di metalli preziosi se poi non vi comportate bene?”.
Brunetto Latini invocava l’educazione a tavola, quando nelle tavole le mani unte affondavano nelle pietanze. Scrisse: “E quando siedi a mensa, non fare un laido piglio!”. Bonvesin della Riva (1240-1315) descrisse in dettaglio come si mangiava a Milano nella seconda metà del XIII secolo: parlò di cucchiai e di coltelli ma non citò mai la forchetta che compare invece nel 1297 per la prima volta in Inghilterra, confinata però nell’inventario del re Edoardo I, ricordato come “Gambelunghe” o “martello degli Scoti”.

Altre forchette apparvero nelle doti principesche anche nei secoli successivi, con impugnature di avorio, cristallo e pietra dura.
Ma nella vita quotidiana la posata si cominciò ad usare in modo graduale quando si diffuse l’uso della pasta, bollente e scivolosa. Prima si usava un’altra specie di imbroccatoio, descritto in un libro che fu offerto in dono al re di Napoli Roberto d’Angiò (1277-1343) nel quale è scritto: “Mangia poi prendendo le lasagne con un punteruolo di legno”.

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Forchette in bronzo

La forchetta fu usata per enfatizzare, anche a tavola, l’eterna divisione tra Guelfi e Ghibellini: i primi la poggiavano sulla tovaglia, a destra del piatto, i secondi preferivano sistemarla in senso orizzontale davanti alla stoviglia, dove ancora oggi si apparecchiano le posate per la frutta.
Forchette a due o tre rebbi venivano mostrate nei convivi importanti. Ma resistevano ancora i forchettoni a due punte, utili per reggere la carne da tagliare. Un camarlingo del Comune di Siena scriveva: “Prestai a Massa, nostro famiglio, vinti e quattro imbroccatoi d’ariento, quando si fece la cena agli ambasciatori fiorentini e parigini”.
Alla fine del Trecento la forchetta era già molto conosciuta. Franco Sacchetti (1330-1400) ricordato per “Il Trecentonovelle” in cui descrive la società del suo tempo, racconta con brio le avventure a tavola di un certo Noddo che “comincia a raguzzare i maccheroni, avviluppa e caccia giù, e n’avea già mandati sei bocconi giù, che Giovanni avea ancora il primo bocone in su la forchetta…”.
Lo scrigno da tavola di re Carlo V di Francia nel 1380 mostrava una forchetta in bella vista, forse per impressionare i più rustici sovrani stranieri. Nei “Racconti di Canterbury”, Madame Eglantine si vanta di mangiare senza bagnare le dita nella salsa. E viene lodata per la grazia con la quale sapeva portare il cibo alle labbra senza lasciarne cadere nemmeno un pezzetto sul seno e soprattutto senza “intingere troppo profondamente le dita nella salsa”.

Botticelli-Novella di Nastagio degli Onesti (IV) 1483-Museo Pucci Firenze

Novella di Nastagio degli Onesti, Botticelli, 1483, Museo Pucci, Firenze

Nella Firenze del Quattrocento, la famiglia dei Medici possedeva nella propria ricca cucina ben 56 forchette. Il meraviglioso dipinto “Novella di Nastagio degli Onesti”, commissionato come regalo di nozze da Lorenzo il Magnifico alla famiglia Pucci, storica alleata dei signori di Firenze, mostra alcuni componenti della potente dinastia seduti davanti a una tovaglia immacolata mentre reggono un’elegante forchetta a due denti, in attesa delle pietanze.

Una forchetta più sobria appare anche nell’”Ultima cena” affrescata su disegno del Perugino nel refettorio del monastero fiorentino di Sant’Onofrio.

Nell’uso comune, alla fine del XV secolo, tra le classi nobili, l’uso delle forchette era ancora considerato una specie di trasgressione: la civiltà a tavola si misurava con l’abbondanza di tovaglie e tovaglioli e le abluzioni ripetute prima e dopo i pasti. Lo spiegava, riguardo l’educazione dei bambini, anche l’umanista Erasmo da Rotterdam (1466 -1536) che trovava “disdicevole leccarsi le dita unte o pulirle con l’uso della giacca. Meglio servirsi della tovaglia o del tovagliolo”. Un fortunato libretto, il “De moribus in mensa servandis” di Giovanni Sulpicio Verulano, stampato in Aquila nel 1483 tornava sulle vecchie regole: “Mangia con tre dita, non prendere bocconi troppo grossi e non riempire la bocca con ambedue le mani”.

Perugino (Pietro Vannucci detto il) e collaboratori, Ultima cena, 1490 circa, particolare. Firenze, monastero di Sant’Onofrio

Ultima cena, Perugino e collaboratori, 1490 ca., particolare, monastero di Sant’Onofrio, Firenze

L’imperatore Carlo V (1500-1558), l’uomo più potente del mondo, aveva una dozzina di pregiate forchette personali ma le usava raramente. Jacques le Saige si stupì molto quando nel 1518 partecipò a un banchetto del doge di Venezia: “Questi signori, quando vogliono mangiare prendono il cibo con una forchetta d’argento (“une forquette d’argent”).

A insegnare l’uso della forchetta ai francesi ci pensò la fiorentina Caterina de’ Medici che nel 1533 sposò Enrico II. E si divertì molto quando a corte cominciarono a fare i conti con lo strano utensile che arrivava dall’Italia: “Nel portare la forchetta alla bocca, si protendevano sul piatto con il collo e con il corpo. Era uno vero spasso vederli mangiare, perché coloro che non erano abili come gli altri, facevano cadere sul piatto, sulla tavola e a terra, tanto quanto riuscivano a mettere in bocca”.
Suo figlio, Enrico III, cercò di rendere obbligatorio l’uso della forchetta attraverso delle norme scritte. Ma la nobiltà francese derise a lungo l’innovazione “effeminata” .
Nella seconda metà del Cinquecento lo scrittore Michel de Montaigne, ospite a Roma del cardinale De Sans, annotò la presenza a tavola di cucchiaio, coltello e forchetta, sistemati tra due salviette insieme al pane, al posto stabilito per ciascun convitato. Nella pancia della nave spagnola “La Girona”, affondata al largo dell’Irlanda nell’anno 1588 furono trovate svariate casse di posate con moltissime forchette.

Nel XVI secolo “il Galateo” di Monsignor della Casa formalizzò le regole dell’etichetta. E la forchetta guadagnò consensi. Il celebre viaggiatore Thomas Coryat che nel maggio 1608 partì a piedi da Londra per visitare Venezia, rimase impressionato dai vantaggi igienici che portava l’uso della posata nella città lagunare.
Ma molti anni dopo la puritana Anna Maria d’Austria, figlia di Filippo II di Spagna e moglie di Luigi XIII di Francia, vietava alla sua tavola la “l’inutile forchetta” e persino l’argenteria. Il divieto fu esteso nel 1629 a tutta la popolazione francese addirittura con un decreto. Alla corte di Vienna si mangiò con le dita fino al 1651. Anche Luigi XIV, il “Re Sole”, cacciò dalla sua tavola il duca di Borgogna quando estrasse dalla sua tasca una elegante forchettina. Il sovrano disse che dava il cattivo esempio ai bambini. Il re e Molière per mangiare preferivano usare le dita, definite, senza ironia, “regali posate”. Il “Re Sole” si decise ad usare la forchetta soltanto nel 1684.
Alla corte di Vienna si continuò a mangiare con le mani nel piatto fino al 1651. In Inghilterra solo il re Giacomo I usava la forchetta in modo regolare: per tutto il XVII secolo la utilizzarono pochissime famiglie. E in Germania le posate comparvero sulle tavole più raffinate solo alla fine del Seicento.

Novella di Nastagio degli Onesti (III) 1483-Museo Prado

Novella di Nastagio degli Onesti, 1483, Museo del Prado, Madrid

In Italia l’uso della posata era già diffuso ovunque, anche se la Chiesa rimaneva contraria. Così il cattolico musicista Monteverdi, ogni volta che mangiava con la forchetta, faceva poi recitare tre messe per espiare il peccato commesso.

A sdoganare la forchetta ci pensò, dopo la metà del Settecento, Gennaro Spadaccini, il ciambellano di re Ferdinando II di Borbone che fece nascere le forchette a quattro rebbi per agevolare la presa dei “fili di pasta”. Nacque così la “brucchiéra” o “vròcca” tanto apprezzata dal sovrano buongustaio. Ma a Napoli l’abitudine di mangiare la pasta con le mani perdurò ancora per parecchi decenni.

La forchetta continuò ad essere bandita dai refettori dei conventi fino al XVIII secolo. Nella cattolica Austria nemmeno un esemplare in legno venne concesso a prigionieri politici considerati pericolosi come il generale Lafayette e Silvio Pellico, che alla fine sbottò: ”Crolla forse la monarchia austriaca se invece di mangiare con le dita lo fo con un pezzo di legno?”.

Alla fin fine, il pregiudizio è morto da poco, se si considera che fino al 1897, ai marinai della Royal Navy di Sua Maestà britannica, insieme all’uso dei coltelli, veniva proibito anche quello delle forchette, ritenute “pregiudizievoli alla disciplina e al comportamento virile”.

Federico Fioravanti

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