Il Grifo e il Leone. Genova e Venezia in lotta per il Mediterraneo

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Mi sento turbato, illustre doge, profondamente turbato e, se ne vuoi sapere l’esatta ragione, ti dirò che ciò che temo sono le tempeste che ci fremono intorno e i sommovimenti che dovunque vediamo; ma per tralasciare i lamenti su tutto il genere umano, o italiano, io piango le cose italiane.

Chome nacque discordia tra Genova e Vinegia. Miniatura tratta dal codice lucchese delle Croniche di Giovanni Sercambi (1348-1424)

Corrono ora alle armi due potentissimi popoli, due fiorentissime città; per dirla in breve, due astri d’Italia, che molto opportunamente, a mio parere, madre natura ha collocato da una parte e dall’altra ai limiti della terra d’Ausonia, in modo che, stando voi a settentrione e a oriente ed essi a mezzogiorno e a occidente, e controllando voi l’Adriatico e loro il Tirreno, il mondo quadripartito riconoscesse che, pur dopo l’indebolimento e il declino dell’impero di Roma (per non dire la sua prostrazione e la sua morte), l’Italia è ancora regina. E se l’arroganza di alcuni popoli vuole pur mettere in discussione questa sua sovranità sulla terra, certo non ci sarà alcuno tanto impudente da volerla negare sul mare.

Ma se ora – cosa che non vorrei né vedere né presagire – rivolgete contro voi stessi le armi vittoriose, è inevitabile che periremo per i colpi delle nostre stesse mani e che, spogliati di nuovo dalle nostre stesse mani, perderemo la gloria e il dominio del mare conquistato con tante fatiche pur senza perdere quel conforto che già altra volta avemmo nelle nostre sventure: che i nostri nemici poterono sì godere delle nostre disgrazie, non vantarsene.

Andrea Dandolo, opera di Lorenzo Moretti Larese del 1861. Il busto fa parte del Panteon Veneto, conservato presso Palazzo Loredan

Con queste parole – date a Padova il 18 marzo del 1351 –, Francesco Petrarca invitava il doge veneziano, Andrea Dandolo, eletto al sesto scrutinio il 4 gennaio del 1343 – appassionato cultore di memorie patrie, raccolte in una Chronica brevis, oltre che nella celebre Chronica per extensum descripta, interrotta due anni prima della morte, avvenuta nel 1354 –, a porre termine al conflitto che, da circa un anno, vedeva Genova e Venezia nuovamente impegnate in una lotta senza quartiere.

Il poeta – che agiva a titolo personale, ma che, di lì a poco, si sarebbe fattivamente adoperato in favore della pace per conto del signore di Milano, l’arcivescovo Giovanni Visconti – toccava corde inusuali:

Nessuno, vi prego, possa trarvi in inganno: voi intraprendete una guerra contro un popolo fortissimo e invitto e, cosa che dico con maggior amarezza, italiano. Potessero essere vostre nemiche le città di Damasco o di Susa, di Menfi o di Smirne, e non quella di Genova! Magari combatteste contro i Persiani o gli Arabi, contro i Traci o gli Illiri!
Che fate ora voi? Se qualche rispetto è ancora per il nome latino, coloro che volete distruggere vi sono fratelli, e ahimè, non soltanto a Tebe ma in Italia si armano l’una contro l’altra schiere fraterne, dolente spettacolo per gli amici, grato ai nemici. E qual fine alla guerra se, siate vincitori o vinti (incerto è il gioco della fortuna), sarà inevitabile che una delle due luci d’Italia dovrà spegnersi e l’altra oscurarsi? Sperare di conseguire una vittoria incruenta contro tanto nemico, vedi se sia segno di generosa fiducia o di assurda pazzia.

L’aulico periodare dell’aretino coglieva la sostanza del problema mediterraneo. La rivalità tra i due «astri d’Italia» era radicata. Le sue ragioni poggiavano tanto nella geografia, quanto nelle scelte dei rispettivi abitanti. Collocate «ai limiti della terra d’Ausonia», a capo del Tirreno, l’una, dell’Adriatico, l’altra, Genova e Venezia erano andate affermandosi quali potenze marittime di grande rilievo, acquisendo un ruolo strategico nelle relazioni tra Oriente e Occidente, da un lato, tra Mezzogiorno e Settentrione, dall’altro.

Il leone di san Marco (foto: Nino Barbieri)

Era stata la crescente concorrenza commerciale sviluppatasi nel Mediterraneo – e, in particolare, nel Mediterraneo orientale, a seguito della conquista veneziana di Costantinopoli, nel 1204 – a dare abbrivio al confronto. In gioco v’era la sopravvivenza d’un sistema cui nessuna delle due intendeva rinunciare.

Sia l’una, sia l’altra avevano trovato nel mare il mezzo principale per accrescere le proprie fortune. A ciò si aggiungeva l’ombra dell’ideologia, tesa a preservare quell’honor civitatis di cui si sostanziava buona parte del discorso politico del tempo, che si esplicava nella denigrazione dell’avversario e nell’affermazione di un’identità mercantile e guerriera al tempo stesso.

Tale rivalità metteva in discussione l’unica priorità che, agli occhi del poeta, spettava alla penisola: il «dominio del mare». Non è un caso se, il 22 maggio successivo, nel rispondere al poeta, Andrea Dandolo, tralasciando di soffermarsi sulle motivazioni del conflitto, si piccava di sottolineare la pericolosità della rivale, vera nemica della pace, giustificando la guerra quale unico rimedio per ripristinare la concordia perduta:

Quanto hanno abusato della nostra sopportazione? Per quanto tempo ci ha molestato la loro rabbia? E la loro audacia senza freni si è scatenata inutilmente. e magari avessero contaminato solo ai nostri tempi quel buon nome italiano che abbastanza spesso voi piangete come al tramonto, ma quanto la loro doppiezza abbia ottenebrato il diadema di colei che chiamate regina, è lamento vecchio.
Si sono resi ostile il mare, nemiche le singole nazioni, sono odiosi al mondo; quanto ai loro costumi ne accolgo una minima parte perché non può accordarsi con altri chi non sa con se stesso. Si dica che ciò che diciamo non è vero, e noi proveremo che non si può negarlo; e chi ciò conosca noi non riteniamo così disonesto, così temerario o così folle da non riconoscere che noi abbiamo agito a nostro buon diritto.
Molte cose si potrebbero dire, ma le tralasciamo per porre fine alla lettera. Abbiamo intrapreso una guerra solo per ottenere una pace onorevole per la patria, che ci è più cara della vita, e per mostrare che, se veniamo disprezzati, sappiamo comportarci in modo abbastanza duro e violento. Avremo costretto alla pace e alla rassegnazione un nemico che ora, nonostante sia quasi liquidato, ancora resiste e tergiversa. Non abbiamo scrupolo alcuno a muovere guerra contro chi non sa minimamente sopportare la pace.

L’attuale stemma della città di Genova

Lo scontro tra Genova e Venezia non faceva che destabilizzare ulteriormente una penisola attraversata da lotte civili, dilaniata dalla peste nera, preda d’enormi contrasti.

Agli occhi dell’aretino, tale situazione poteva risolversi solamente mutando mentalità: sostenendo quel tentativo d’egemonia sull’Italia centro-settentrionale espresso dai milanesi Visconti; i quali, peraltro, nell’ottobre del 1353 avrebbero effettivamente ottenuto la signoria di Genova e, con essa, l’onere di sostenere le ultime fasi del conflitto sino alla sua naturale conclusione.

Operazione, questa, quanto mai necessaria, a fronte del rinnovato dinamismo della corona catalano-aragonese, installatasi nel Meridione insulare, desiderosa d’allargarsi sul continente, cui solo la politica unificatrice viscontea avrebbe potuto rispondere con efficacia. Il bene d’Italia – afferma Petrarca – era da preferire; soprattutto, bisognava evitare che la penisola diventasse preda dei «barbari»:

Riflettete voi, uomini magnanimi e potentissimi popoli – ciò che infatti dico all’uno intendo dirlo ad ambedue e se rivolgo a te questo mio scritto è per la rispettosa familiarità che ho conto il valore e per la vicinanza dei luoghi; riflettete voi, dico, dove spingete l’animo vostro, quale sia il prezzo dell’ira, quale il limite dell’odio; riflettete sulla vostra salvezza e, dato che in gran parte dipende da voi, su quella di tutti; e non dimenticate che se la furia di questa guerra imminente non verrà smorzata da una fonte di pietà, dalle ferite che si preparano non sgorgherà sangue numantino o cartaginese ma italiano; il sangue di coloro che, se qualche schiera barbarica – come pure talvolta ha osato anche se mai impunemente – dovesse irrompere nei nostri territori, sarebbero i primi a prendere con voi le armi per la difesa delle sorti comuni, a esporre con voi il loro petto alle armi nemiche e alla morte, che voi stessi proteggeste coi vostri scudi e i vostri corpi, esattamente come loro farebbero con voi, loro che con voi inseguirebbero il nemico in fuga dopo aver vinto la sua flotta e che con voi vivrebbero, morirebbero, combatterebbero, trionferebbero.

Andrea del Castagno, Francesco Petrarca, particolare del Ciclo degli uomini e donne illustri (affresco, 1450, Galleria degli Uffizi, Firenze)

Il poeta, dunque, proponeva al doge veneziano qualcosa d’improbabile: l’alleanza con la rivale, con lo scopo di contrastare la crescente talassocrazia catalano-aragonese. I due «astri d’Italia» avrebbero dovuto impegnarsi per riaffermare il dominio del mare – l’«imperium maris» –, spingendosi sino ai confini della terra, là dove finiscono le mappe:

Di una cosa sola porgo supplica prostrato in pianto davanti ai signori di due popoli: gettate le armi funeste, datevi le destre, scambiatevi il bacio della pace, congiungete gli animi agli animi, le insegne alle insegne.
Alle vostre navi saranno così aperto gli oceani e le porte del mare Eusino, e i popoli e i re vi verranno incontro pieni di ammirazione; vi temeranno gli Sciti, i britanni e gli Africani; sicuri i vostri marinai navigheranno senza paura verso le spiagge dell’Egitto, della Fenicia e dell’Armenia, verso i porti un tempo temuti della Cilicia, verso Rodi un giorno signora del mare, verso i monti della Sicilia e i monti del suo mare, verso le Baleari tristemente note per le antiche e nuove piraterie e infine verso le Isole Fortunate e le Orcadi, e verso Tule, isola famosa ma sconosciuta, e verso tutte le plaghe australi ed iperboree. Solo che non temiate reciproche offese, non dovrete temere di nessun altro.

Con ciò, gli appelli petrarcheschi non tenevano conto della realtà d’una rivalità plurisecolare, incancrenitasi nell’ambito di grandi scontri marittimi, nelle diuturne azioni di corsa, nelle lunghe prigionie, nelle molteplici richieste di risarcimento inevase.

Il conflitto tra le due città, in atto da tempo, non era più riconducibile esclusivamente al topos della rivalità mercantile, che n’era stato, comunque, motore primario. Cresciute in potenza sui mari, tese ad affermare la propria egemonia sulle principali rotte di commercio, le Genova e Venezia erano andate ricorrendo a ogni mezzo, lecito o illecito, pur di sopravanzare l’avversario e dimostrare al mondo la propria superiorità.

In gioco v’era sì la supremazia sulle rotte di commercio; e, dunque, il mantenimento d’un benessere diffuso, garantito dalla frequentazione dei principali mercati mediterranei e pontici: quei mercati raffigurati verosimilmente nel celebre mapamundus dipinto nel Trecento nella loggia di Rialto, le rotte per raggiungere i quali erano contemporaneamente tracciate su carta da Giovanni di Carignano e Pietro Vesconte, cartografi genovesi.

Non bisogna sottovalutare, a ogni modo, il desiderio di costruire e affermare la propria identità nel confronto con l’avversario: un’identità prettamente bellica, capace di trasporre in un ambiente marittimo gl’ideali di forza e possanza propri, sulla terraferma, dell’uomo a cavallo.

Antonio Musarra

Antonio Musarra

Il grifo e il leone. Genova e Venezia in lotta per il Mediterraneo

Laterza, 2020

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