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Un figurante in costume impegnata nei Giochi de le Porte (Foto © Daniele Amoni)

Quaranta anni di “Giochi de le Porte”. Dal 1978 ai nostri giorni, la rievocazione storica si celebra ogni anno a Gualdo Tadino nell’ultima settimana di settembre. In modo ininterrotto. Con la sola eccezione dell’anno 1997 quando la fascia appenninica fu colpita da un grave evento sismico.

In origine, i “Giochi” si richiamavano al “Palio di San Michele Arcangelo”, che si svolgeva in occasione della ricorrenza della solenne festività riservata al patrono cittadino. Alla luce di alcuni riscontri documentari, si può ipotizzare che la devozione per l’Arcangelo si sia radicata nel territorio gualdese fin dalla seconda metà del secolo VII, in seguito alla definitiva affermazione dei Longobardi sui Bizantini.

Legato alla transumanza di greggi e pastori che raggiungevano i rigogliosi pascoli dell’Appennino, il culto si sviluppò in sostituzione di quello del dio Sole e di altre divinità pagane, come si evince dai due dischi di sottile lamina d’oro ritrovati in Val di Gorgo.

Per i Longobardi la devozione all’Arcangelo aveva un significato politico, oltre che religioso, perché contribuiva ad avvicinare le popolazioni germaniche a quelle autoctone. Nell’opinione comune infatti il santo era considerato come portatore di luce, difensore del popolo e combattente contro le forze del male.

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Il corteo storico che anima le vie cittadine in occasione dei Giochi de le Porte. Sullo sfondo, si staglia la mole della Rocca Flea (Foto © Daniele Amoni)

La chiesa a lui dedicata è nominata per la prima volta in una Bolla di papa Alessandro III, data a Benevento il 4 agosto 1169, che la dichiara dipendente dal monastero di San Benedetto, all’epoca posto nella pianura oggi individuata dalla Chiesa della Madonna delle Rotte. Quando i monaci benedettini, per ragioni di sicurezza e per difendersi dalla malaria che infestava la località, si trasferirono sul colle di S. Angelo, dove fu edificata Gualdo (1237), la Chiesa di Sant’Angelo di Fléa venne incorporata nella costruenda chiesa abbaziale di San Benedetto.

La devozione per San Michele Arcangelo ben presto si consolidò. Fino a che il santo fu adottato come patrono e raffigurato sullo stemma del Comune di Gualdo, armato di spada e scudo e ornato del blasone della città.

A testimonianza della fiducia che riponevano nelle sue virtù taumaturgiche, i gualdesi misero sotto la sua protezione la principale delle loro occupazioni; gli dedicarono infatti due feste: una coincideva con l’inizio della transumanza (8 maggio), l’altra con la sua conclusione (29 settembre).

Si trattava di un culto molto sentito, che risultava rassicurante di fronte al disagio fisico e psichico al quale gli abitanti erano esposti a causa delle ricorrenti scorrerie delle soldatesche di passaggio per la via Flaminia, delle carestie e delle pestilenze.

Le ricorrenze, pertanto, si celebravano ogni anno con grande solennità e la forte partecipazione di fedeli da ogni parte del territorio circostante. I devoti erano così numerosi che papa Bonifacio IX, con bolla dell’1 febbraio 1393, stabilì che potevano ottenere l’indulgenza plenaria tutti coloro che, pentiti e confessati, avessero visitato la cappella dedicata a San Michele Arcangelo nel giorno della festa.

L’evento, aveva però anche una forte rilevanza civile. Gli Statuti cittadini tramandano che si svolgesse una solenne processione per le vie della città, alla quale partecipavano non soltanto le autorità religiose, ma anche quelle preposte al governo del territorio, con i segni distintivi delle loro funzioni istituzionali e le fiaccole accese in mano: i priori indossavano il “cappuccio” rosso riverso sulle spalle; i membri del General Consiglio una “cappa grigia” che li ricopriva fino alla tibia e una “berretta” forse dello stesso colore.

Secondo l’usanza dell’epoca, le cerimonie e i festeggiamenti, comprendevano anche una fiera che durava otto giorni. Durante il mercato erano sospesi non solo i comuni balzelli e i pedaggi, ma anche le imposte sui vini, sulle carni e sui generi commestibili, in modo da favorire l’afflusso dei forestieri. I prodotti che venivano scambiati erano pochi, perché coincidevano con quelli offerti dalla campagna e dalla montagna; però non mancavano pezzi di artigianato di discreta fattura, realizzati dalla abili mani di un ceramista o di un falegname.

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Un momento del ricco corte di figuranti e carri allegorici che accompagna i Giochi de le Porte (Foto © Daniele Amoni)

Facevano parte della festa patronale anche le giostre equestri, in cui due cavalieri si fronteggiavano con la lancia in resta, cercando di colpirsi al petto o alla testa, e di sbalzarsi di sella.
L’intera cittadinanza era coinvolta, ma i veri protagonisti della manifestazione erano gli esponenti della borghesia, i cui rampolli si cimentavano in prove che richiedevano non solo destrezza e abilità, ma anche la disponibilità dei mezzi necessari per dotarsi di un’armatura adeguata e di un cavallo ben addestrato. Il popolo, per quanto fosse partecipe da un punto di vista emotivo, viveva le sfide da semplice spettatore, assiepato ai margini del campo e schierato a favore dell’uno o dell’altro contendente.

Le autorità ecclesiastiche erano però poco propense ad accettare la diffusione di spettacoli pubblici che prevedevano l’impiego delle armi. Così, ben presto, il Palio fu affiancato da un’altra manifestazione che assolveva alla sola funzione di gioco popolare.
Poiché i giochi previsti consistevano in corse a piedi, in sfide con la balestra e con lo “scoppietto”, e quindi erano tali da non comportare aggravi particolari per coloro che vi partecipavano, con il passare del tempo l’ultima festa prese il sopravvento sul torneo cavalleresco. E ne rilevò anche la denominazione.
Nella sua versione popolare, il Palio divenne la manifestazione ludica principale della città, alla cui gestione e organizzazione provvedeva il Comune. Un evento celebrato fino agli ultimi anni del Seicento con grande interesse di tutti, ma poi interrotto, a causa delle occupazioni, dei saccheggi, delle carestie e pestilenze che fecero sprofondare la popolazione in uno stato di grave prostrazione e di assoluta miseria. Nei secoli successivi anche le celebrazioni in onore del patrono subirono un forte ridimensionamento, con la soppressione della sfilata e dei festeggiamenti abituali.

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I sontuosi costumi sono frutto di un lavoro che si sviluppa durante tutto l’anno, risultato di un attento studio delle fonti storiche unito alla maestria dei laboratori artigiani locali (Foto © Daniele Amoni)

Voglia di ricominciare Nel corso del Novecento, si cercò più volte di ripristinare il Palio di S. Michele Arcangelo, ma i vari tentativi si rivelarono infruttuosi per ragioni di ordine pubblico. Si temeva infatti che gli assembramenti troppo numerosi potessero costituire un pericolo per la sicurezza dei cittadini e la stabilità delle istituzioni. Finalmente, all’inizio degli anni Settanta, cioè in un periodo di benessere economico e di tranquillità sociale, si avvertì con rinnovato vigore l’esigenza di recuperare l’eredità ideale, per riappropriarsi del passato e riscoprire le vicende storiche del borgo sorto sulle pendici di Colle S. Angelo.

Fu allora, in un clima di rinnovato interesse per l’identità cittadina, che l’attenzione degli studiosi si concentrò su uno dei periodi più felici della storia locale: i primi settant’anni del XV secolo, coincidenti con l’elevazione di Gualdo Tadino alla dignità di legazione autonoma.
Con questa investitura, infatti, la città, benché fosse sottoposta all’autorità di un cardinale legato, iniziò a godere di una certa libertà e di un relativo prestigio. Le prerogative comunali vennero riconfermate e garantite dalla presenza di un luogotenente con ampi poteri politici, amministrativi e giurisdizionali.
Per le sorti dello Stato pontificio, Gualdo rivestiva una posizione strategica come ultimo baluardo contro le mire egemoniche del Ducato dei Montefeltro. Alle autorità cittadine fu quindi consentito non solo di provvedere al restauro delle mura, al consolidamento della Rocca Flea e di altri importanti edifici pubblici, ma anche di svolgere una proficua azione di promozione e di sviluppo del territorio.
Fiorirono allora nuove attività artigianali, soprattutto nel settore della ceramica e dei laterizi, e quelle agro-forestali. E si intensificarono le iniziative culturali, favorite dalla presenza di una borghesia intraprendente e sensibile al fascino delle humanae litterae.

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Una antica mappa di Gualdo Tadino con l’indicazione delle Porte di accesso alla città

La denominazione scelta per i “Giochi”, istituiti, come già ricordato, nel 1978, nasceva dalle quattro porte di ingresso alla città, aperte lungo le mura castellane, proprio in corrispondenza delle chiese di San Benedetto, San Donato, San Facondino e San Martino, negli anni in cui Gualdo fu riedificata, dopo il rovinoso incendio del 1237 che ne ridusse in cenere le abitazioni e ne decimò la popolazione.

Tuttavia le “Porte”, ai tempi di Federico II, avevano un ruolo soltanto propositivo e circoscritto alle ricorrenze religiose; invece, con l’elevazione della città a legazione autonoma, diventarono parte attiva della vita civile, organizzandosi come vere e proprie circoscrizioni politico-amministrative, con funzioni e organismi autonomi.

I “Giochi de le Porte” sono stati istituiti per ristabilire un rapporto di continuità con la storia. Con essi, oltre a rinnovare la fedeltà al patrono, i Gualdesi hanno inteso riconfermare i valori morali e civili che sono contenuti in questa memoria. La festa patronale si è così trasformata in un’opportunità per riaffermare l’identità di una comunità posta a ridosso degli Appennini, ma aperta oltre i propri confini verso i vicini centri di Nocera Umbra, Fossato di Vico, Sigillo, Costacciaro e Scheggia. La festa è un collante tra tutte le sfere sociali e promuove un forte senso di appartenenza.

Il popolo dei “Giochi”, vero protagonista della manifestazione, vive le sfide in modo appassionato e all’insegna di un forte antagonismo, ma nel rispetto delle regole civili, nella lealtà e nel riconoscimento dei meriti. L’appartenenza a una Porta è segno di distinzione, ma non tale da produrre inimicizie e contrasti insanabili. Terminate le competizioni ed esaurito il rito dei canti e degli scherni, tutti ritornano amici, perché sono consapevoli di far parte della stessa comunità.

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Lo studio filologico della rievocazione storica si estende anche ai più piccoli dettagli e comprende anche gli strumenti musicali (Foto © Daniele Amoni)

Fede, giustizia e lavoro La festa è caratterizzata da un corteo storico, dai giochi veri e propri e dalle sentitissime sfide culinarie.
Il corteo storico mette in scena un’epoca complessa e mai pienamente definibile: quella medievale e quella tardo medievale. Nella ricchezza e varietà delle sue sfumature, rispecchia la società nell’articolazione che suggeriva il vescovo e poeta francese Adalberone di Laon (947-1030) in un poema cavalleresco destinato al re di Francia, Roberto il Pio.

Essa si basa su tre componenti fondamentali, ordinate in modo gerarchico, ma reciprocamente connesse, costituite da coloro che pregano e diffondono la fede cristiana, da coloro che combattono per il trionfo della giustizia sulla forza o per la salvaguardia dell’ortodossia cristiana e, infine, da coloro che attendono ai lavori manuali e producono i beni indispensabili per la vita.
Ogni Porta conserva nel proprio corteo il nocciolo di questa ripartizione sociale e antropologica.

L’universo medievale e tardo medievale si offre così allo sguardo dello spettatore nella povertà del monaco, nell’opulenza del nobile, nell’aggressività del capitano di ventura, nell’ingegno dell’artigiano, nell’abilità del giocoliere e nei gesti semplici e schivi del contadino e del pastore. Per dar conto della complessa configurazione della società, però, il corteo storico riserva un posto importante anche ad altre figure, come quella del console, del magistrato, dell’intellettuale e del mercante.

Ma, sospeso come è tra terra e cielo, l’uomo medievale più che alle cose, guarda al loro significato. Per questo, fin dal 1978, le Porte hanno riservato un’attenzione particolare alla ricostruzione delle simbologie come segno di una verità superiore. Con ciò, tuttavia, non hanno sottovalutato l’importanza della natura, delle faccende domestiche, degli ambienti di lavoro. E questo è appunto uno dei tratti che distingue in modo specifico la sfilata: la vivacità della vita dei campi, la ricchezza delle attività artigianali, delle arti e dei mestieri. Ma vi occupano un posto rilevante anche le scene riservate alla fantasia e all’immaginazione, alle passioni e ai desideri, perché l’uomo medievale non persegue soltanto la salvezza dell’anima, ma coltiva anche i piaceri del corpo.

Tutto ciò è inserito all’interno di una scenografia a cielo aperto dove monumenti maestosi, come la Rocca Flea, la cattedrale dedicata a San Benedetto, le chiese di San Francesco, San Donato, Santa Maria, Santa Margherita, il Palazzo del Podestà, il Palazzo e il Palazzo comunale concorrono a realizzare una felice simbiosi tra il “meraviglioso” e il “quotidiano”.

Le quattro Porte, San Benedetto, San Donato, San Facondino e San Martino si contendono il Palio e il privilegio di bruciare l’effige della Bastola, la “strega” antica nemica di Gualdo, colpevole di aver causato il terribile incendio che distrusse la città nel 1237.

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Un’istantanea della corsa con i somari, una delle quattro competizioni in cui i popoli de le Porte si sfidano durante i Giochi (Foto © Daniele Amoni)

La disputa si ispira all’antica tradizione cavalleresca che sancisce che il rispetto delle regole, la cortesia verso l’avversario, la lealtà nei suoi confronti. I protagonisti del Palio sono animati da questi valori, oltre che da un sano spirito agonistico.

Nella loro difficile impresa possono contare su un amico fedele: il somaro. I “Giochi” rivalutano l’animale, spesso schernito e additato a simbolo di ignoranza. Addirittura ne fanno uno dei simboli della manifestazione. Tanto da dargli il ruolo di protagonista in due prove che spesso si rivelano decisive per l’assegnazione del Palio. Le altre due sono riservate agli arcieri e ai frombolieri.

I “Giochi” però vivono anche nelle sartorie, nelle quali d’inverno si studia, si ricerca, si progetta e, d’estate, si realizzano le idee. Allora le suggestioni ricavate dai libri di storia dell’arte, del costume, diventano abiti, allegorie, rappresentazioni simboliche. Grande cura è posta nella scelta delle stoffe, nella cernita degli accessori che devono accompagnare i costumi. Così si lavorano anche la pelle e il cuoio; si realizzano i calzari e, quando le esigenze lo impongono, perfino i gioielli.

È però nelle taverne che la rievocazione del Medioevo trova la sua espressione più convincente. Ogni elemento richiama l’Età di Mezzo: le volte in pietra, le lucerne a olio che si affacciano dalle pareti, le tavole in legno, gli otri di ceramica, gli addobbi con i fiori dei campi e le spighe di grano.

A tavola le generazioni si incontrano, le differenze anagrafiche e sociali si annullano. E nascono nuovi legami. Esaltati dai “Giochi”, “lo avvenimento più fastoso e desiato, de lo quale li forestieri de la nostra grandezza e de la nostra abilitate diranno”.

Antonio Pieretti

Articolo pubblicato all’interno del dossier “UMBRIA. A Gualdo Tadino i Giochi de le Porte“,
MedioEvo, settembre 2017 (mensile culturale, anno XXI, N° 248)

Immagini: © Daniele Amoni

Dossier realizzato con il sostegno di

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Giochi de le Porte
Gualdo Tadino, dal 22 al 24 settembre 2017
Info: www.giochideleporte.it
Facebook: @Ente Giochi de le Porte

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