Federico II, oltre la morte

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FdSIIPochi avanzi di mura sul dorso di una collina invasa dalle sterpaglie. È quel che oggi resta di Castel Fiorentino, una rocca che nella prima metà del XIII secolo sorgeva nelle campagne della Capitanata, 9 chilometri a sud di Torremaggiore, a ovest di San Severo e Lucera.

Qui, nel giorno dell’anno con meno luce, il 13 dicembre del 1250, festa di Santa Lucia, a soli 56 anni, morì Federico II di Svevia.

L’imperatore si era sentito male qualche giorno prima, durante una battuta di caccia. Lo aveva colpito una infiammazione intestinale a cui presto seguì una serie violenta di attacchi di dissenteria.

Lo stesso atroce male, nel 1197 aveva stroncato in giovane età la vita di suo padre, Enrico VI di Hohenstaufen.

Federico, piegato dal dolore, perse conoscenza. Gli amici e i dignitari di corte che erano con lui, decisero allora di non portarlo nella reggia di Foggia: lo ricoverarono invece nella residenza imperiale più vicina, in uno dei tanti palazzi che l’imperatore aveva fatto costruire in Puglia, amata “terra del suo ristoro”.

L’anno precedente, nel 1249, più di una sventura aveva messo a dura prova l’eccezionale tempra del sovrano.

Nel mese di febbraio, a Cremona, era scampato alla morte per avvelenamento.
Nello stesso mese Pier delle Vigne, per molti anni consigliere, amico e “braccio destro” di Federico, fu arrestato dalle truppe imperiali: accusato di “alto tradimento”, preferì la morte alla tortura e all’ignominia e si suicidò lanciandosi a cavallo verso un burrone. Il delitto di cui fu protagonista rimane, ancora oggi, misterioso. Forse si macchiò del reato di corruzione. Federico una volta disse che “aveva trasformato lo scettro della giustizia in serpente”. Ma poi non parlò più di lui e del dolore di una amicizia tradita.

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Enzo, re di Torre e di Gallura, imprigionato a Bologna (dal Codice Chigi)

Appena tre mesi dopo, il 26 maggio del 1249, l’amatissimo figlio Enzo cadde prigioniero dei bolognesi. Inutilmente l’imperatore chiese la sua liberazione, con lettere in cui alternava, in modo sapiente, promesse e minacce.
Da Bologna risposero con il crudo realismo della politica: “Spesso accade che un piccolo cane catturi un cinghiale”.

Il povero Enzo, che come ricordava Fra Salimbene era “tra tutti i figli quello che più valeva”, non riabbracciò più suo padre: morì a Bologna dopo 23 anni di una dorata ma implacabile prigionia.
In quell’orribile 1249 si spense a soli 24 anni anche Riccardo di Teate, un altro figlio naturale al quale Federico aveva affidato il comando della Romagna, della Marca di Ancona e di Spoleto.
L’imperatore, stanco nel corpo e nella mente, era carico di acciacchi. Parlava sempre più spesso “delle Nostre membra affaticate dagli strapazzi della guerra”. E alle persone del suo seguito ripeteva che voleva “riprendersi nelle dolci delizie del Nostro Regno”.

All’inizio del 1250, quando tornò nella reggia di Foggia, i messaggeri a cavallo cominciarono finalmente a portare buone nuove: dopo molti rovesci militari, le sorti della guerra volgevano in favore dell’imperatore.

Le truppe di Federico avevano riconquistato Ravenna e molte altre città e territori tra le Marche, l’Umbria e la Romagna. A Savona, la flotta di Genova, città nemica, venne sbaragliata. Anche a Piacenza fu eletto podestà un ghibellino.

Il sacro romano impero al tempo di Federico II

Il sacro romano impero al tempo di Federico II

Ezzelino da Romano e il conte di Savoia, parenti della famiglia imperiale, controllavano con la solita sicurezza i valichi verso il Brennero e quelli che si aprivano verso le terre di Borgogna. E i complotti di papa Innocenzo IV, che aveva scomunicato e deposto Federico, avevano ormai esasperato i maggiori principi e sovrani d’Europa. Nell’agosto del 1250 anche l’anti re Gugliemo d’Olanda fu battuto in modo clamoroso in Renania da Corrado IV, secondogenito dell’imperatore.

Rimaneva la dolorosa spina di Bologna e di Enzo, il biondo “principe poeta”, prigioniero di nemici ostinati che per lui non prevedevano nemmeno la possibilità un riscatto.
Nell’autunno, l’imperatore si trasferì a Melfi. Con l’aiuto di Riccardo di Montenero, successore di Pier delle Vigne, si rimise al lavoro per riordinare l’amministrazione dell’impero. Le cacce e le lunghe cavalcate lo portavano spesso fino a Lagopesole, dove stava nascendo su un’alta collina il suo ultimo e più grande castello.

Ma adesso, nei giorni dell’agonia, steso su un letto nella rocca di Castel Fiorentino, il futuro stava per svanire, insieme ai ricordi, ai sogni e alle speranze.

Una cronaca, scritta dopo la sua morte e rievocata nei secoli, racconta che in uno dei rari momenti di lucidità, Federico chiese dove si trovasse. Gli fu detto che era nella sua domus di Fiorentino, un luogo che fino ad allora non aveva mai avuto occasione di visitare. All’imperatore tornò in mente una profezia attribuita a Michele Scoto, l’astrologo di corte, oppure secondo altre leggende da Gioacchino da Fiore: “Morirete vicino la porta di ferro, in un luogo il cui nome sarà formato dalla parola fiore…”.

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Chiamato anche Torre Fiorentina (ca. 10 km a sud di Torremaggiore, in provincia di Foggia), Castelfiorentino è il nome odierno della piccola città medievale di Florentinum (Fiorentino). Sullo sfondo, a sinistra dei resti della porta, si scorge l’obelisco eretto in memoria di Federico II di Svevia

Per questo, in tutti i tumultuosi anni del suo regno, Federico aveva sempre evitato Florentia (Firenze). E non era nemmeno più tornato a Florentinum (Ferentino) la città ciociara che aveva frequentato nel lontano 1223, quando con papa Onorio III progettava una crociata e dove fu deciso il suo matrimonio con Jolanda, una delle sue quattro mogli, figlia del re di Gerusalemme.
Il vaticino si avverava: Federico stava morendo. Dal suo letto, agonizzante, guardava una porta di ferro che confinava con la parete di una torre. Sgomenti, lo vegliavano il figlio diciottenne Manfredi, l’arcivescovo di Palermo Berardo di Castagna, il gran giustiziere della Magna Curia Riccardo di Montenero, Pietro Ruffo responsabile delle scuderie imperiali, Riccardo, conte di Caserta e genero dell’imperatore e il medico Giovanni da Procida.

Fu letto il suo testamento: “Poiché transitoria è l’umana natura, Noi, Federico…”.
I testimoni ascoltarono le ultime volontà del sovrano: unico discendente e erede dell’impero fu nominato il figlio Corrado IV, re di Germania. In caso di morte senza eredi, Enrico Carlotto, secondogenito dell’imperatore e della seconda moglie Isabella d’Inghilterra, avrebbe preso il suo posto.
Dopo di lui, c’era Manfredi, il figlio riconosciuto come legittimo, che ottenne il ducato di Taranto e che durante l’assenza di suo fratello Corrado avrebbe dovuto regnare, in qualità di vicario, sull’Italia imperiale e il regno di Sicilia.

Federico stabilì che se la Chiesa (“Nostra Madre”) avesse riconosciuto i diritti e i possessi dell’Impero, poteva rientrare in possesso delle sue proprietà. L’Ordine dei Templari poteva riottenere tutti suoi possedimenti, così come le chiese e i conventi che dovevano essere reintegrati nei loro diritti.
I prigionieri, tranne quelli che si erano macchiati del reato di alto tradimento, potevano essere liberati. Le chiese distrutte andavano ricostruite. Centomila once d’oro vennero destinate per la Terra Santa. I sudditi del regno dovevano essere sgravati da collette e imposte generali.

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Scorcio del lato ovest della cattedrale di Palermo. Antichissimo luogo di culto, dal 2015 è stata dichiarata patrimonio dell’umanità Unesco nell’ambito dell’Itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale

IL TRAMONTO DI UN SOLE La mattina del 13 dicembre, secondo una cronaca agiografica, l’imperatore volle indossare l’umile tonaca grigia dei cistercensi del terzo ordine di cui faceva parte. Chiese di essere sepolto nella cattedrale di Palermo, accanto al padre e alla madre. Il suo vecchio amico Berardo gli somministrò l’estrema unzione.

Ma l’annuncio della morte, forse per ordine dello stesso Federico, venne tenuto nascosto per un certo tempo. Fino al gennaio del 1251 la cancelleria emanò dispacci e documenti come se l’imperatore fosse ancora vivo.
Il giovane Manfredi comunicò la scomparsa al fratellastro Corrado per lettera, con parole accorate: “Tramontato è il sole del mondo che riluceva in mezzo alle genti”. Il cadavere, con ogni probabilità, fu imbalsamato. Il 28 dicembre il corteo con il feretro dell’imperatore attraversò per l’ultima volta le città di Foggia, Canosa, Barletta e Trani e gli altri centri della costa. A Bitonto, Matteo di Giovinazzo notò “sei compagnie de cavalli armati” e “alcuni baroni vestiti nigri insembra (insieme) co’ li Sindaci de le Terre de lo Riame”. A Taranto la salma fu imbarcata per la Sicilia. Centinaia di vascelli, piccoli e grandi, salutarono il feretro con drappi neri.

Così Federico tornò a Palermo, la città dell’infanzia e della giovinezza, che 38 anni prima aveva lasciato per affrontare la straordinaria avventura che lo portò a diventare prima re di Germania e poi imperatore. La salma dell’imperatore fu tumulata nel Duomo, accanto ai genitori e alla prima moglie Costanza, in un maestoso sarcofago di porfido color amaranto. Vicino alla grande tomba, fu vergato l’epitaffio, attribuito all’arcivescovo Bernardo, fedele compagno di una vita: “Se la probità, l’ingegno, la grazia di ogni pregio, la magnificenza, la nobiltà della stirpe potessero resistere alla morte, non sarebbe morto Federico che qui giace”.

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Papa Innocenzo IV (ritratto al centro in occasione del Concilio di Lione del 1245) in una miniatura del sec. XIII

Alla notizia del decesso, Innocenzo IV non riuscì a trattenere la propria gioia per la fine del “nemico giurato della Chiesa cristiana”. Il papa partì subito da Lione alla volta dell’Italia. Nel frattempo scrisse a tutti i sovrani europei lettere sprezzanti verso Federico e la sua progenie. E diffidò i Comuni italiani dall’obbedire a Manfredi, nominato vicario imperiale in attesa che Corrado IV valicasse le Alpi. Le prime parole della missiva che il pontefice inviò al popolo di Sicilia spiegano il suo stato d’animo: “Esultino i cieli, la terra si allieti poiché in freschi zeffiri e rugiade fecondatrici si sono sciolti il fulmine e la procella che Dio ci teneva sopra il capo”.

Fra Salimbene, nella sua “Cronaca”, calcolò che l’imperatore aveva regnato trenta anni e ventuno giorni.

Carismatico e scomodo. Colto e spietato. Feroce eppure tollerante. Federico parlava sei lingue (latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo). Diventò adulto in una società multirazziale. Comprese e studiò il pensiero islamico. Si appassionò alla scienza e alla poesia. A Napoli fondò una grande università che porta ancora il suo nome. Fu curioso del mondo e degli uomini: alla sua corte trovarono alloggio intellettuali di ogni lingua e religione.

Con le “Costituzioni di Melfi” (1231), raccolta di norme fondata sul diritto romano e normanno, Federico II sognò di dare ordine, a scapito della Chiesa e dei nobili, a tutti gli aspetti dello Stato, dalla giustizia alla sanità, fino al diritto e all’economia.

Gli storici Franco Cardini e Marina Montesano (“Storia Medievale”, Le Monnier 2006) hanno spiegato bene come l’imperatore svevo pensasse “a uno Stato centralizzato, burocratico, tendenzialmente livellatore, insomma già avviato a concezioni che molti hanno reputato moderne”.

Federico mise in discussione, dalle fondamenta, il potere temporale dei pontefici. Tornò vincitore da una crociata alla quale era stato obbligato, senza combattere nemmeno una battaglia. Ma collezionò anatemi e scomuniche. Cinque papi diversi (Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Celestino IV e Innocenzo IV) videro in lui un miscredente, “re di pestilenza” e sentina di tutti i mali del mondo.

L’Impero finì con la sua morte. In appena venti anni la dinastia degli Hohenstaufen si estinse. E dei vasti territori segnati dalle quattro città sedi delle sue incoronazioni, Palermo, Aquisgrana, Roma e Gerusalemme, rimase ben poca cosa. Ma la terribile condanna che papa Innocenzo IV pronunciò contro il suo mortale nemico, “Estirpate nome, corpo seme e eredi del babilonese!”, è lontana dall’avverarsi.

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Il mostro dell’Apocalisse di San Giovanni, paragonato a Federico II da papa Gregorio IX, nell’interpretazione di Albrecht Dürer

ANTICRISTO E MESSIA Il fascino dell’imperatore svevo ha attraversato i secoli. E vive ancora ai giorni nostri. La sua fine, per centinaia di anni fu accompagnata da miti e leggende. Del resto, già prima della sua morte, la sua figura era stata mitizzata dai contemporanei.

Un Anticristo. Oppure un novello messia, capace di riformare dal profondo la Chiesa. Già dopo la seconda scomunica, nel giugno del 1239, in una sua enciclica Gregorio IX aveva già paragonato Federico al mostro dell’Apocalisse di Giovanni: “Si leva dal mare la bestia ricolma di nomi blasfemi la quale, infierendo con zampe d’orso e con fauci di leone, e nelle altre membra con forma di leopardo, apre la bocca per bestemmiare contro il nome di Dio…”.

Un anno dopo (1240) il papa riprendeva la diceria propagata tra i seguaci dell’abate e teologo Gioacchino da Fiore che voleva Federico figlio di un diavolo piuttosto che di Enrico VI: “Serpente velenoso concepito da materia infernale”. Gregorio mise in campo tutta la sua autorità di vicario di Dio in terra per insinuare quello che molti pensavano: era l’imperatore stesso che si vantava di essere “preambulus Antichristi”. Un eretico, capace di sostenere che Gesù, Mosè e Maometto erano tre impostori che avevano ingannato il mondo. E che Dio non poteva nascere da una vergine. Un uomo malvagio che riteneva che l’uomo dovesse credere soltanto a ciò che può essere provato con la “forza e la ragione della natura”. Nel 1248 Raniero di Viterbo bandì una crociata contro l’”araldo del diavolo”, il “figlio e allievo di Satana”.

La propaganda del papa contro l’imperatore aveva un manifesto ideologico nella teologia della storia concepita da Gioacchino da Fiore e diffusa di città in città dalla predicazione pubblica dei Francescani.

Secondo “il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato”, ricordato da Dante nel Paradiso, la storia dell’umanità sarebbe da suddividere in tre grandi età, corrispondenti ognuna a una delle tre persone della Trinità: la prima, l’età del Vecchio Testamento, era quella di Dio Padre; la seconda, l’età del Nuovo Testamento, quella del Figlio di Dio; la terza età, che secondo Gioacchino era ormai imminente, era quella che corrispondeva allo Spirito Santo. Un’epoca nuova, nella quale, dopo i laici e i chierici, sarebbero stati i monaci a dare un ordine alla società imperfetta degli uomini. Questa terza età, secondo i calcoli di molti, avrebbe avuto inizio nel 1260. Ma proprio sul finire della seconda età, sul mondo avrebbe regnato un Anticristo che avrebbe distrutto la Chiesa dissoluta e secolarizzata. L’età dello Spirito sarebbe iniziata soltanto con la morte dell’Anticristo.

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La basilica e l’edicola del Santo Sepolcro (in una raffigurazione del 1149), dove Federico II si auto-incoronò Re di Gerusalemme il 18 marzo 1229, nel corso della Sesta crociata

LA COSTRUZIONE DEL MITO La curia imperiale reagì agli attacchi del papato usando le stesse armi: l’Anticristo delle profezie non era Federico ma il pontefice, “cavallo rosso dell’Apocalisse”.

Il primo e unico imperatore cristiano a cingere la corona di Re di Gerusalemme nella basilica del Santo Sepolcro, predicava invece il ritorno della Chiesa, oramai corrotta, alla povertà del tempo degli apostoli. Pietro possedeva solo “la rete del pescatore”. Di contro, il palazzo papale di Anagni era una “regia solis”. E Roma rimaneva abbandonata, “come serva ai cani e tributaria dei Saraceni”.

È l’imperatore stesso ad alimentare, in modo sapiente, la costruzione il suo mito. Con i gesti prima ancora che con le parole. Spesso, assiso sul trono, rimane in un silenzio ieratico, lontano da tutti, mentre Pier delle Vigne parla in suo nome.

Nell’iconografia ufficiale, a partire dal 1231, Federico II si fa ritrarre nelle vesti dell’imperator romano. Al suo fianco, non c’è un Cristo: il figlio di Enrico VI, nipote del Barbarossa, è solo a reggere il mondo, consapevole dell’autorità che gli arriva per diritto divino.

Rimanere “memorabilis posteris”. Lasciare un segno, indelebile: già in una lettera del 1239, al tempo della fondazione dell’università di Napoli, l’imperatore espresse per iscritto quella che era la sua più grande ambizione.

Lo Staufen e la sua stirpe, come “successori di David”, rappresentarono se stessi come portatori di speranze messianiche. Basti pensare alla lettera dell’agosto 1239 indirizzata a Jesi, la città dove lo Staufen nacque, celebrata come seconda Betlemme. “… illustre inizio delle nostre origini, in cui la nostra divina madre ci ha messo al mondo, sulla quale la nostra culla ha diffuso la sua luce radiosa…”(Historia diplomatica, V, 1, p. 378). Nella celebre missiva, attribuita a Pier delle Vigne, Federico è insieme sia Cristo che Cesare: salvatore e giudice del mondo.

In anni nei quali era vivissima l’attesa di un messia incarnato, nel paragone con il Dio fatto uomo, l’imperatore si presentava come colui che sarebbe stato capace di riformare la Chiesa dal profondo.

La risposta alla scomunica del papa arriva così sotto forma di velata minaccia in un libello redatto negli ambienti della corte nel 1240: “Il nostro magnanimo leone, che oggi fa finta di dormire, con il tremendo suono del ruggito trascinerà a sé dai confini del mondo tutti i pingui tori e, piantando la giustizia, porterà la Chiesa sulla retta via, strappando e spezzando le corna dei superbi” (Historia diplomatica, V, 1, p. 312).

I temi biblici e il recupero di antiche profezie accompagnarono la vita e le leggende intorno all’imperatore. A partire dal vaticinio della nascita attribuito, secondo Goffredo da Viterbo, alla Sibilla Tiburtina: “Concepit et peperit imperatrix natum. / Tenet nunc Apuliam, habet Principatum. / Est futurus cesar sic est vaticinatum. / Habet imperium, regum monarchatum”.

Soprattutto, poco dopo la morte di Federico, prese nuova linfa l’oscuro vaticinio della cosiddetta Sibilla eritrea, misteriosa veggente dell’antichità, a cui fu attribuito un testo composto intorno al 1241 nella cerchia curiale di Raniero da Viterbo: “Vivit, non vivit”. Secondo la profezia Federico sarebbe e non sarebbe vissuto. La morte stessa dell’imperatore sarebbe rimasta celata: “Chiuderà gli occhi con una morte nascosta e sopravvivrà; e si dirà tra i popoli: “Vive, (e) non vive”; e sopravvivrà uno dei pulcini e dei pulcini dei pulcini”. Federico avrebbe continuato a vivere. Oltre la morte. Nella sua discendenza. Oppure nascosto da qualche parte.

Salimbene da Parma, da cronista informato dei fatti, scrisse che furono in molti a non non credere alla fine dell’imperatore. Del resto, nel corso degli anni, più volte la propaganda papale aveva diffuso la falsa notizia della sua scomparsa.

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Il Mongibello, altro nome del vulcano Etna, nel corso dei secoli fu frequentemente descritto come luogo di accesso all’inferno

I “FALSI FEDERICI” Ancora nel 1302, Jans der Enikel, uno storico e poeta viennese che compilò la Weltchronik, una ambiziosa storia del mondo in 30.000 versi, scriveva che ancora nessuno sapeva dove fosse veramente Federico. E che soprattutto in Italia, si discuteva se fosse ancora vivo.

Nacquero così i casi dei “Falsi Federici”: impostori che si spacciavano per l’imperatore.

Il primo di cui si ebbe conoscenza, nel 1261, fu un mendicante siciliano, Giovanni de Coclearia, che risiedeva alle falde dell’Etna. Era un sosia quasi perfetto dello Svevo. L’unica differenza è che sfoggiava una lunghissima barba. Ma parlava e si muoveva come lui. Alcuni seguaci dell’imperatore andarono a trovarlo e gli credettero, nonostante Federico II risultasse ufficialmente morto da undici anni. Il mendicante sostenne di essere scomparso per così tanto tempo per adempiere a un voto: quello di compiere un pellegrinaggio. E che c’erano voluti nove anni per emendare, attraverso la penitenza, i suoi tanti peccati. La popolazione lo acclamò con entusiasmo. E alla sua storia fece finta di credere anche papa Urbano IV, che voleva usare l’impostore nella spietata guerra che lo opponeva a Manfredi. Ma il figlio dell’imperatore e di Bianca Lancia, re di Sicilia dal 1258, fece catturare e impiccare il “falso Federico” insieme a dodici dei suoi seguaci.

Non è un caso che fosse proprio l’Etna il teatro della comparsa del primo dei “falsi Federici”. Tommaso da Eccleston, un frate minore inglese, nel suo “De adventu Minorum in Angliam”, raccontò in 15 capitoli le storie che i frati missionari in Inghilterra si scambiavano la sera accanto al fuoco, davanti a una pentola ricolma di birra. Attribuì a un suo confratello siciliano, raccolto in preghiera sotto l’Etna, proprio lo stesso giorno in cui l’imperatore era morto, una stupefacente visione: cinquemila cavalieri che si immergevano in mare. Le acque ribollirono, come se le armature “fossero di bronzo ardente”. E uno dei cavalieri parlò al frate tramortito dalla potenza di quella immagine: “Questi è Federico Imperatore che va all’Etna con i suoi cavalieri”.

Il favoloso racconto ebbe una qualche fortuna. Il Mongibello, con i suoi scenari infuocati era considerato una specie di porta dell’inferno, che l’imperatore, morto scomunicato, prima o poi doveva per forza passare.

Le credenze popolari riportarono poi altre leggende: all’interno del grande vulcano era nascosto anche Artù. Questa specie di “ascensio” al monte da parte di Federico II somigliava a quelle diffuse nel mondo medievale di Alessandro Magno, di Teodorico, il re dei Goti e di Federico I, il nonno dell’imperatore svevo.

Dalla fine del Duecento le leggende sul ritorno di Federico II si diffusero soprattutto in Germania, anche se l’imperatore non aveva più messo piede in quei territori dal 1235. Ce lo ricorda una “Chronica” di metà Trecento di un frate minore, Giovanni di Winterthur che provò a spiegare le tante leggende che ancora si ripetevano a quasi cento anni dalla fine dello Staufen. Federico II sarebbe ricomparso per riformare la Chiesa e instaurare un’epoca di giustizia e prosperità. Giovanni di Winterthur, nella sua opera, ci tenne a chiarire che si trattava di “falsa credulitas”. Ma di certo, in Germania, negli ultimi decenni i sosia dell’imperatore si erano moltiplicati.

Addirittura, nel 1284 una delegazione di alcuni Comuni lombardi, guidata dal marchese d’Este fu inviata a Neuss, in Renania, per conoscere di persona l’uomo che si spacciava per l’imperatore svevo. Si chiamava Dietrich Holzschuh Aveva un aspetto giovanile. Federico II, se fosse vissuto, doveva avere una novantina di anni. Eppure in molti credettero al “falso Federico”: l’uomo era riuscito a radunare intorno a sé una vera e propria corte. Pasteggiava con stoviglie d’oro, emanava privilegi e inviava lettere bollate ai principi tedeschi nelle quali li invitava a rendergli omaggio.

L’arcivescovo di Colonia na perse la pazienza e ordinò alla città di Neuss di consegnare alla sua autorità il presunto Federico. Dietrich Holzschuh ripiegò a Wetzlar da dove sollecitò il re Rodolfo d’Asburgo a rendergli omaggio. Ma il sovrano marciò sulla città per catturare l’impostore. I cittadini, per evitare guai peggiori lo consegnarono ai soldati di Rodolfo. Così, il presunto imperatore morì arso vivo, accusato di eresia e stregoneria. Un altro falso Federico II spuntò in Olanda ma fu impiccato a Utrecht. Altri impostori furono segnalati a Colmar, Lubecca e Stoccarda. Ma tutti fecero una brutta fine.

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Una raffigurazione di Federico II a caccia con il falcone

L’ATTESA DI UN “TERZO FEDERICO” La leggenda dell’imperatore svevo però rimaneva viva. Come sognava il notaio imperiale Pietro de Prece, che vagheggiava una “aquila d’Oriente” capace di volare attraverso i secoli. Così, all’idea dell’impero si associava l’immagine antichissima del “Sol Invictus” che tramonta per poi riapparire in tutto il suo splendore.
Il mondo ghibellino vagheggiava un successore degno di Federico II, destinato a completare la sua opera. La città di Tivoli accolse Corrado IV di Svevia come l’ultimo degli imperatori annunciato dalla Sibilla tiburtina. Ma Corrado IV si spense nel 1254. Manfredi morì nel 1266. E Corradino, figlio di Corrado, fu decapitato a Napoli nel 1268 dopo un processo farsa. Aveva appena 16 anni . Fu l’ultimo svevo. Con lui si estinse la dinastia.

Per un breve periodo il “Fredericus redivivus” venne visto in Federico d’Antiochia, figlio naturale dell’imperatore e fratellastro di Corrado. La madre, una orientale, secondo una leggenda era la sorella del sultano Al-Kamil. Il giovane, l’unico figlio dell’imperatore che riposa accanto al padre nella cattedrale di Palermo, morì in battaglia a Foggia nel 1256 a neppure trent’anni mentre combatteva contro le truppe pontificie.

Più tardi, le speranze ghibelline di un “terzo Federico” trovarono nuova linfa in un omonimo nipote dell’imperatore: Federico l’Intrepido, figlio di Margherita, nata dal terzo matrimonio dello Staufen con Isabella d’Inghilterra. Pietro de Prece, alfiere del partito imperiale, scrisse a suo nonno, Enrico l’Illustre, per candidare il giovane al trono siciliano. Nella sua lettera citò le profezie su un “Federicus tercius” che avrebbe distrutto la stirpe degli Angiò e sarebbe tornato a dominare il mondo. Ma Federico l’Intrepido visse il suo breve sogno di succedere al nonno soltanto apponendo l’aleatoria firma di Federico III, re di Gerusalemme e di Sicilia in una serie di lettere ufficiali. Alle parole non seguirono i fatti: “L’Intrepido” nel 1273 fu scalzato da Rodolfo d’Asburgo anche come re di Germania.

Si credette di trovare un “terzo Federico” anche in un nipote di Manfredi, Federico d’Aragona, figlio di Costanza di Svevia e di Pietro III d’Aragona. Oltretutto, il pronipote dell’imperatore svevo era nato il 13 dicembre del 1273, lo stesso giorno della morte di Federico II. Dopo i Vespri Siciliani (1282) governò la Sicilia in nome di re Giacomo II d’Aragona. E nel 1296, a Catania, fu proclamato re di Sicilia da un parlamento tutto isolano. Lusingato dalle profezie, volle chiamarsi “Fredericus tercius” e rivendicò il titolo imperiale vacante quando il 25 marzo 1296, giorno dell’Annunciazione, fu incoronato a Palermo con il titolo dei re normanno-svevi : “Rex Sicilie, Ducatus Apulie ac Principatus Capue”. Ma appena una settimana dopo fu scomunicato, insieme ai suoi sostenitori, da Bonifacio VIII. E quando nel 1312 il re romano-tedesco Enrico VII di Lussemburgo fu incoronato imperatore pensò bene di fare marcia indietro e accontentarsi di governare la sola Sicilia con il titolo di Federico II.

Anche Fra Dolcino, capo della setta dei “Fratelli apostolici”, imbevuto di idee gioachimite, prima di essere bruciato sul rogo come eretico a Novara (1307) predicò l’avvento di un “nuovo Federico” che, con l’aiuto un papa angelico avrebbe purificato la Chiesa e regnato fino all’arrivo dell’Anticristo. Il mito catturò anche i Catari, che nell’avvento di un “terzo Federico” riponevano molte delle loro speranze.

Per duecento anni ancora, tra il XIV e il XVI secolo, altre profezie, racconti, libelli e opuscoli vari invocarono un ritorno dell’imperatore che “viveva ancora”. In Germania, soprattutto in Turingia, si alimentò, a più riprese, il mito della montagna, come rifugio e nascondiglio di eroi immortali. Ma piano piano, nella memoria popolare la figura di Federico II venne sostituita da quella del suo altrettanto celebre nonno, Federico I, il Barbarossa.

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Fra Salimbene de Adam da Parma (1221-1288), storico e scrittore italiano, frate minore, seguace di Gioacchino da Fiore e autore della Cronica

STUPOR MUNDI Il mito di Federico II resiste fino ai nostri giorni, illuminato, a distanza di secoli, dal celebre commento vergato, dopo la sua morte, da Mattew Paris (1200-1259). Il monaco benedettino inglese, storico e miniaturista, pensando a quel 13 dicembre 1250, riassunse l’eccezionale personalità dell’imperatore, “il più grande tra i principi della terra”, in una frase che ha attraversato i secoli: “Stupor mundi et immutator mirabilis”.

Stupore del mondo e miracoloso trasformatore. Nel giudizio sulla grandezza dell’uomo, si mescolano l’ammirazione e la critica. Perché, come ha spiegato lo storico tedesco Hans Martin Schaller, uno tra i maggiori studiosi dell’età sveva, ottocento anni fa la parola “stupor” non andava intesa come meraviglia ma come la sorpresa generata dal disordine. Del resto, la “mutabilitas” nell’opera generale di Mattew Paris è considerata frutto dell’azione del diavolo.

Un personaggio portentoso, terribile, fenomenale e contraddittorio. O almeno raccontato come tale.
Su Federico, il giudizio dei contemporanei fu in genere negativo. Di certo, ogni opinione fu condizionata dall’influsso della propaganda papale.

Per Salimbene da Parma, fu scaltro e collerico. Un libertino, “malvagio” come Antioco, il tiranno biblico. Un uomo doppio, ma anche capace, all’improvviso, di diventare “amabile, lieto, pieno di grazia”. Nella ambiguità della descrizione, emerge comunque l’ammirazione: “Fu un uomo astuto, ingegnoso, avaro, lussurioso, malizioso, iracondo. Talvolta fu anche uomo valente, quando volle dimostrare la sua bontà e cortesia, piacevole, giovale, delizioso, industrioso; sapere leggere, scrivere e cantare, e comporre canti e poesie. Fu uomo bello e ben proporzionato, ma di statura media (…). Sapeva pure parlare molte e varie lingue. E, per dirla in breve, se solo fosse stato cristiano e avesse amato Dio, la Chiesa e l’anima sua, ci sarebbero stati, nel mondo, pochi uomini pari a lui nel governare”.

Per Niccolò Iamsilla, un cronista dell’Italia meridionale dietro il cui nome forse si nascondeva il notaio Gervasio di Martina, fedele collaboratore di Manfredi, Federico fu vinto solo dalla legge della morte. E “mai l’impeto lo costrinse a fare qualcosa, ma procedette in ogni cosa con la maturità della ragione”.

Il musulmano Al-Giawzi (1186-1256) lodò la tolleranza dell’imperatore e lo descrisse “di pel rosso, calvo, miope: fosse stato uno schiavo, non sarebbe valso duecento dirham”. Notò anche che “era un materialista, che del cristianesimo si faceva semplice gioco”.

Per un altro scrittore arabo, Abu ‘Al Fadâ, era un uomo “generoso, vago di filosofia, logica e matematica, e amava i musulmani…”.

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Dante ritratto da Luca Signorelli (Duomo di Orvieto)

“IL TERZO VENTO DI SOAVE” Federico sosteneva la mortalità dell’anima. Come “epicureo” e quindi eretico, Dante lo sistemò nel sesto cerchio dell’Inferno, insieme a Farinata degli Uberti: “Qui con più di mille giaccio:/ qua dentro è ’l secondo Federico” (X, 119). Per il grande poeta fu il “terzo vento di Soave”: l’altro svevo, dopo il Barbarossa e Enrico VI che soffiava sui destini d’Italia.
“L’ultima possanza”, citato altre quattro volte nelle cantiche della Commedia: due nell’Inferno, una nel Purgatorio ed una nel Paradiso.

Per Giovanni Villani, cronista fiorentino di parte guelfa, rappresentò un tiranno, persecutore della Chiesa. Ma fu anche un “uomo universale in tutte le cose che fece”. Altri autori, allo stesso modo, per tutto il Trecento, ricordarono a tinte fosche l’irriducibile nemico dei papi.

Pandolfo Collenuccio storico umanista, alla fine del Quattrocento, parlò di una biografia dell’imperatore, redatta dal vescovo Mainardino da Imola (1207-1249) che conteneva “molte cose di Federico”. Da parte sua, vide nello Svevo un mecenate delle scienze e delle arti. E un precursore dei principi della sua epoca, capace di contrastare con successo il potere dei baroni.

Niccolò Machiavelli, nel paragrafo XXI delle sue “Historie fiorentine” fu il primo a commentare l’azione politica di Federico. Ne apprezzò l’efficacia nella lotta senza quartiere contro il papa che distinse da quella nei confronti della Chiesa. L’imperatore “soldò assai Saraceni”, incuranti delle “papali maledizioni”. In ogni caso, l’autore de “Il Principe” considerò in modo negativo l’uso delle milizie mercenarie, meno affidabili, a suo avviso, dei soldati cittadini.

Nel Settecento l’illuminista Pietro Giannone lodò l’opera di Federico e di suo figlio Manfredi. Li presentò come i creatori di uno stato modello, liberato dalle ingerenze ecclesiastiche. E giustificò con la “ragion di Stato” anche le tante crudeltà dell’imperatore.

L’ecclesiatico emiliano Ludovico Antonio Muratori, uno dei padri della storiografia italiana e della medievistica nei suoi “Annali della Storia d’Italia” vide invece nello Svevo l’uomo che voleva “abbattere la libertà dei Lombardi”. Un nemico della Chiesa, che forse però non doveva essere giudicato in modo troppo severo, soprattutto per la qualità della sua legislazione in tema di giustizia.

Dal suo esilio londinese Ugo Foscolo (1778-1827) esaltò le lettere imperiali vergate dalla mano sapiente di Pier delle Vigne. Le considerò anticipazioni di “alcuni dei più robusti argomenti che trecento anni dopo i protestanti posero in campo contro l’autorità temporale della Santa Sede”.
Il poeta di Zante nel 1824 additò agli italiani la figura dello Staufen , idealizzato come un campione dell’unificazione dei tanti, diversi popoli della penisola. Per Foscolo, Federico II già nella prima metà del Duecento voleva “riunire l’Italia sotto un solo principe, una sola forma di governo e una sola lingua, e tramardarla a’ suoi successori potentissima tra le monarchie d’Europa”.

Luigi Settembrini in pagine appassionate, pubblicate quando l’Italia era già riunificata sotto i Savoia ma scritte più di venti anni prima, ribadì che Federico “era nato e educato italiano e qui voleva il suo impero”. Per il patriota e letterato anticlericale il disegno incompiuto dell’imperatore era stato quello di “conquistare tutta l’Italia per tenere la Germania provincia confinante” in modo tale da “ridurre il papa alla condizione del patriarca di Costantinopoli”.

Il neoguelfo Cesare Balbo (1789-1853) riconosceva le “qualità personali” dell’imperatore, che definì “immaginoso” e di sicuro “più italiano che tedesco” ma sottolineò la pericolosità e la superbia del più famoso antagonista di ben cinque pontefici di Santa Romana Chiesa.

La razionalità dell’imperatore sedusse Voltaire nel suo “Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni”, il compendio sulla storia dello spirito umano scritto nel 1756 per Madame de Chatelet.

SPERANZA E INCUBO Johann Gottfried Herder (1744-1803) il teologo e filosofo tedesco che fu allievo di Kant e che con Goethe diede l’avvio al movimento dello “Sturm und Drang” vide nell’imperatore svevo quasi un illuminista ante litteram. Lo chiamò “stella mattutina di un giorno migliore” e “martire del suo tempo”.

Friedrich Schlegel (1772-1829) uno dei precursori del Romanticismo europeo, condannò invece con durezza “l’uso smodato delle sue tante doti”. Per lui Federico II era il despota ateo che aveva “distrutto il regno tedesco e l’impero quale era nel Medioevo”. Un incubo, simile a quel Napoleone Bonaparte che proprio in quegli anni schiacciava i popoli della Germania sotto il suo tallone di ferro.

Comunque negativo fu anche il giudizio dello storico svizzero Jacob Burckardt, che pure nel suo celebre libro “La cultura del Rinascimento in Italia” definì l’imperatore svevo come il “primo uomo moderno sul trono”. Ma non in un senso elogiativo. Piuttosto come un sovrano che voleva assommare nelle sue mani tutti i poteri, come fecero, a sua imitazione, un paio di secoli dopo, tanti “altri despoti” del Rinascimento italiano.

Per Leopold von Ranke (21 dicembre 1795 – 23 maggio 1886) il maggiore storico tedesco dell’Ottocento, considerato il fondatore della moderna ricerca storiografica sulle fonti, Federico non ebbe l’avvedutezza, l’intelligenza politica e la moderazione di suo nonno. E per questo fallì in ciò che meglio era riuscito a Federico Barbarossa: concludere tregue e paci separate con i Comuni e con il papa.

Di tutt’altro avviso un altro grande storico, Ferdinand Gregorovius, negli stessi anni, scrisse di Federico come di un precursore della Riforma protestante: un uomo che aveva “illuminato il mondo” lottando contro la “barbarie clerico-feudale del Medioevo”. In un viaggio a Palermo, nel 1853, sostò commosso davanti alla “tomba del più grande imperatore tedesco”. E scrisse sincere parole di ammirazione per uno dei “grandi geni della civiltà, che con la loro presenza accendono nell’umanità un fuoco, che continuerà ad ardere per secoli”.

Nietzsche, in un passo del suo libro “Al di là del bene e del male” parlò di Federico come di uno di quegli esseri “magicamente inafferrabili, impenetrabili, quegli uomini enigmatici, predestinati alla vittoria ed alla seduzione”. Per il grande filosofo tedesco fu “il primo uomo europeo”.

Lo storico Hans Prutz, studioso delle crociate e dello stato prussiano, lo definì “maestro nell’arte machiavellica della dissimulazione”.

Karl Hampe (1869-1936), professore all’università di Heidelberg, dedicò quasi tutta la sua vita allo studio dello Staufen. Vide in lui un precursore del Rinascimento. Un anticipatore, grazie “a tutto il suo freddo razionalismo” di idee nuove, che videro la luce, in modo pieno, soltanto nel Seicento e nel Settecento. In un celebre discorso pronunciato nel 1924 di fronte ai suoi colleghi e agli studenti, Hampe disse che Federico fu “l’ultimo degli imperatori tedeschi a meritare pienamente tale titolo. Colui che già i contemporanei chiamavano lo stupore e l’innovatore del mondo, fu forse il più grande, sicuramente il più affascinante e interessante dei nostri imperatori”.

Negli anni della Repubblica di Weimar, intorno alla figura di Federico II, nacque un vero e proprio culto. Il poeta Stefan George, uno dei maggiori simbolisti europei, appassionato traduttore di Dante, Petrarca, Shakespeare, Verlaine, Baudelaire e D’Annunzio vide nel “terzo vento di Soave” l’uomo capace di riunire nella sua carismatica figura l’Occidente e l’Oriente, la civiltà greca e quella romana. Un altro studioso a lui vicino, il germanista Friedrich Gundolf, definì Federico II come il “sovrano più geniale” dopo Giulio Cesare.

Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore

Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore

IL TITANO DI KANTOROWICZ In questo clima nacque anche “Federico II, imperatore” la monumentale biografia che Ernst Kantorowicz (1895-1963), storico tedesco di origini ebraiche, dedicò all’imperatore svevo. Fu pubblicata in due tomi successivi, il primo nel 1927 e il secondo nel 1931. Un libro fondamentale che ancora oggi condiziona gran parte delle idee correnti sullo “Stupor mundi”: seicento pagine scritte in meno di cinque anni, nelle quali la storia, la letteratura, l’arte e la religione si fondono in un racconto appassionante, innervato da una amplissima documentazione nella quale le lettere private e pubbliche, le costituzioni imperiali e le cronache cittadine hanno eguale dignità.

Per George, ispiratore dell’opera, e per Kantorowicz la ricerca storica doveva recuperare nel passato una gerarchia di valori assoluti da additare al presente individuandoli “in una persona, un popolo, un’epoca, una cultura”. Compito dell’intellettuale, in quel preciso momento storico era quindi quello di restituire una dignità e un ruolo internazionale alla Germania umiliata dal Trattato di Versailles del 1819.

Il Federico di Kantorowicz è un titano, un supremo tutore della giustizia, capace di saldare nella sua opera di governo l’eredità dell’antica Roma e la dottrina della Chiesa. L’imperatore svevo, “il primo genio rinascimentale”, è visto come una figura messianica: “nuova immagine di Cristo” che parla non solo all’Europa cristiana ma anche agli altri popoli.
Un cosmocratore: come il figlio di Dio rappresentato nella iconografia bizantina, domina il suo tempo seduto sul globo del mondo che gli fa da trono. Lo stile, lieve, quasi letterario, assicurò alla biografia un grande successo di pubblico. Ma divise gli specialisti. E si prestò a strumentalizzazioni politiche. Gli storici vicini al nazismo videro in Adolf Hitler il redentore del popolo tedesco annunciato da Kantorowicz.

Nell’agosto del 1934 lo storico rifiutò di giurare fedeltà ad Hitler e si ritirò dall’insegnamento a soli 39 anni. Quattro anni dopo, si trasferì prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, dove ottenne un insegnamento a Berkley, in California. Ma in piena epoca maccartista rifiutò di firmare un documento di fedeltà anticomunista che gli chiedevano le autorità accademiche. Fu allora assunto in un altro prestigioso ateneo, a Princeton.

Quando negli anni Sessanta gli chiesero di ristampare la sua opera più famosa, tentennò a lungo. Temeva altri, pesanti fraintendimenti politici. Dichiarò di voler “dimenticare un libro che giaceva sul comodino di Himmler, e che fu regalato con dedica da Goering a Mussolini”. Ma la biografia tornò sugli scaffali delle librerie. E alimentò il mito di Federico II, accreditato come il fondatore di uno Stato laico “ante litteram”, regolato per la prima volta sulla base di un “corpus” legislativo e non più soltanto sulla legittimazione divina. Un imperatore religioso ma spregiudicato, disincantato uomo di potere che diviene sintesi di terre e popoli diversi. Un siciliano, ma soprattutto un tedesco, che parlò al mondo arabo, latino e germanico. Nelle pagine di un libro ammirato e contestato come il suo protagonista spuntano analogie frequenti tra le figure di Federico, Napoleone e Alessandro Magno e tra la visione del mondo dello Svevo, individuo dalle doti ultraumane e quella del filosofo Nietzsche.

I DUE SOVRANI DI LE GOFF Federico II “fu una figura fuori del comune, l’antitesi quasi perfetta di San Luigi”. L’affermazione dello storico francese Jacques Le Goff nasce dal confronto tra l’imperatore Svevo (1194-1250) e il re santo di Francia (1214-1270) che il grande medievista propone nel suo “San Luigi” (Einaudi, 1999). Due sovrani agli antipodi: Luigi IX, bulimico collezionista di reliquie, fa costruire a Parigi la Sainte Chapelle per custodire in modo adeguato la corona di spine di Cristo che aveva acquistato per una somma stratosferica dall’imperatore bizantino. Ordina di bruciare il Talmud, il libro sacro degli ebrei, che considera blasfemo. Vive in una castità assoluta, interrotta solo per procreare il suo erede. E segue con cieca obbedienza le prescrizioni della Chiesa.

Federico II si interroga sulle questioni scientifiche e teologiche. Vuole capire quale sia il luogo preciso dove hanno sede il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio. Affronta filosofi ebrei sulla interpretazione di specifici versi della Bibbia, erige monumenti laici come la porta di Capua e splendidi castelli. Si sposa quattro volte, ha numerose amanti e molti figli. Combatte per tutta la vita cinque diversi pontefici che a più riprese lo accusano di ateismo.

Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale

Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale

ABULAFIA, IL MITO SPEZZATO Lo studioso britannico David Abulafia, in una fondamentale biografia pubblicata nel 1988, intitolata, non a caso, “Federico II. Un imperatore medievale”, vide invece nello Svevo soltanto un figlio del suo tempo. Per lo storico di Cambridge, Federico II non fu “né un genio politico né un visionario”. Piuttosto “un solido conservatore” che più che al futuro tendeva a guardare al passato, soprattutto a quello della sua casata. In coerenza con questo ritratto, per Abulafia anche il suo mecenatismo fu “soltanto una pallida ombra di quello dei suoi predecessori normanni”. Tanto che in Sicilia “la feconda coesistenza tra cristiani, musulmani ed ebrei” con lui non sarebbe “rinata, ma sarebbe stata sepolta”. Anche le Costituzioni di Melfi (1231) secondo lo studioso inglese confermarono, di fatto, diritti consuetudinari che erano già stati acquisiti dalla tradizione normanna. Di certo, fu decisivo il contributo di Federico per gli studi ornitologici e per la nascita della lirica italiana. E fu grande il suo amore per il sapere: “Al pari di vari suoi colleghi, Federico coltivava interessi scientifici, che seppe e volle approfondire più di altri monarchi del XIII secolo”. Ma Abulafia, in esplicita contrapposizione alla storiografia precedente, che tratteggiava l’imperatore svevo come un despota illuminato, smitizza la figura dello Svevo. E nel suo saggio disegna un Federico meno tollerante con le fedi non cristiane. Meno coraggioso, stretto com’era nella spietata morsa di papi sospettosi e aggressivi. E meno innovativo, anche in campo culturale, soprattutto a causa delle fortissime spese che dovette sostenere per finanziare le sue tante guerre. Per Abulafia, un aggettivo, “dinastica”, riassume il senso profondo della sua politica. Secondo lo storico inglese il suo smisurato orgoglio per i lasciti che aveva ricevuto dal nonno tedesco Barbarossa e da quello normanno Ruggero II era pari solo alla perenne preoccupazione di trasmettere il suo potere intatto e accresciuto agli eredi della casata Hohenstaufen. Proprio come un imperatore medievale, che quindi che “non fu un siciliano, né un romano, né un tedesco, né un mélange di teutonico e latino, ancor meno un quasi-musulmano: fu un Hohenstaufen e un Altavilla”.

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Il sarcofago di Federico II (Cattedrale di Palermo)

Amato e odiato. Esaltato e disprezzato. Visto come un martire. Oppure come un despota ateo. Tollerante e feroce. Feudale e illuminato. Moderno e conservatore. Federico II, all’alba del terzo millennio, appare ancora circonfuso nel mito. Una icona, spesso sbandierata anche da dissennate politiche di marketing turistico.

Lo storico Fulvio delle Donne in un suo recente saggio ha scritto che la memoria per l’unico imperatore degno di quel nome vissuto nel lontano XIII secolo è quasi una “damnatio”: una condanna, maggiore dell’oblio. L’esistenza reale dello Svevo ha finito per essere sepolta sotto il peso di una trasfigurazione. Come spiega bene Franco Cardini “la leggenda si impadronì dell’uomo, fino a soffocarne la storia”.

Nel Duomo di Palermo, di fronte al suo sepolcro in porfido rosso sorretto da quattro leoni, mani sconosciute, ottocento anni dopo, continuano a deporre fiori freschi. Un omaggio postumo alla grandezza di una vita straordinaria.

Torna allora alla mente l’oscura profezia della Sibilla eritrea, che tanto appassionò i contemporanei dell’erede degli Hohenstaufen e degli Altavilla: “Vivit, non vivit”. Forse vogliamo che la fine dell’imperatore normanno-svevo rimanga ancora celata, in qualche angolo della nostra memoria. Così, Federico II continua a vivere. Oltre la morte.

Virginia Valente

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